Il 41 bis serve a tagliare i legami mafiosi ma il carcere non deve mai diventare vendetta - THE VISION

Lo sciopero della fame è una delle forme più diffuse di protesta nonviolenta. In Italia, fino a qualche mese fa, il primo rimando che veniva alla mente era quello ai radicali e al loro leader storico, Marco Pannella, che portò avanti numerosi scioperi della fame come strumenti di disobbedienza civile e lotta politica. Il corpo non è solo un fatto naturale e fisiologico: è altrettanto un fatto politico. Il periodo storico che stiamo attraversando ha portato questo assunto al centro del dibattito pubblico e culturale: il corpo come espressione di un’alterità, portatore di un messaggio, strumento per rivendicare spazi o diritti; o ancora, il corpo usato per far risuonare una voce che altrimenti rimbomberebbe flebile e invano fra le quattro mura della galera dove 60mila detenuti in Italia scontano la propria pena.

Marco Pannella e Emma Bonino

Alfredo Cospito, militante anarchico detenuto al 41 bis del carcere di Opera, non è il primo a portare agli estremi lo sciopero della fame per protestare contro un regime di detenzione che ritiene ingiusto e disumano. L’azione di Cospito richiama infatti altre storie, quelle di chi, dal carcere, ha protratto lo sciopero della fame fino a morirne. L’ultimo caso risale al 2020, quando Carmelo Caminiti, dopo la sentenza di primo grado, iniziò uno sciopero della fame nel carcere di Messina per ottenere gli arresti domiciliari in virtù delle sue precarie condizioni di salute. Dopo sessanta giorni di digiuno morì. Cospito ha iniziato lo sciopero della fame il 20 ottobre 2022 e da centodieci giorni rifiuta il cibo assumendo solo acqua, sale e zucchero. Ha perso più di 45 chili e le sue condizioni si fanno ogni giorno più critiche. Le ragioni dello sciopero riguardano il regime di cosiddetto “carcere duro” previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. 

La risonanza che il caso Cospito sta avendo a livello nazionale è di gran lunga maggiore rispetto ai precedenti analoghi. Ciò è determinato dell’irremovibilità delle rivendicazioni di Cospito e dalla natura dei suoi reati. La sua prima esperienza carceraria risale infatti al 1990, quando venne condannato dal tribunale militare di Roma per diserzione, essendosi rifiutato di prestare servizio militare in quanto anarchico. Dopo la liberazione, ottenuta in seguito alla grazia concessa dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga, Cospito continuò la sua attività politica nell’area anarco-insurrezionalista, venendo identificato dagli investigatori come uno degli esponenti di spicco della FAI (Federazione anarchica informale). Nel 2013 venne condannato a dieci anni e otto mesi per la gambizzazione dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, avvenuta un anno prima. In quello stesso anno Cospito era stato condannato a vent’anni per aver posizionato, nel 2006, due ordigni esplosivi davanti a una Scuola Allievi Carabinieri a Fossano, in Piemonte. Si è trattato di un atto dimostrativo, secondo la difesa, messo in pratica la notte in un luogo deserto. Non ci sono stati morti né feriti. Il capo di imputazione era inizialmente quello di strage contro la pubblica incolumità. Nel luglio 2022, però, la corte di Cassazione ha cambiato il reato contestato a Cospito: si sarebbe trattato di “strage contro la sicurezza dello Stato”, reato tra i più gravi, non utilizzato nemmeno per le bombe di Bologna (dove furono uccise ottanta persone),  quella di Capaci o di via D’Amelio. Dunque non strage comune, ma strage politica, e la pena prevista per questo tipo di reato è l’ergastolo ostativo, ovvero il carcere senza possibilità di accedere ai benefici penitenziari, con fine pena mai.

Alfredo Cospito

Da maggio 2022 Cospito è inoltre detenuto al cosiddetto 41 bis, un regime di detenzione speciale (previsto dall’art. 41 bis della legge sull’ordinamento penitenziario) che nasce come strumento della legislazione d’emergenza nel 1986 per combattere il terrorismo politico. Viene poi integrato nel 1992, con il “superdecreto antimafia Scotti-Martelli” all’indomani della strage di Capaci, che estende l’applicazione del regime ai detenuti per criminalità̀ organizzata. Nella logica statale il 41 bis ha la funzione di interrompere la sussistenza di collegamenti del detenuto con un’associazione criminale, terroristica o eversiva. La misura è revocabile per cessata pericolosità o con la collaborazione: il cosiddetto “pentitismo”. Tanto l’ergastolo ostativo quanto il 41 bis rappresentano un’anomalia alla funzione della pena se consideriamo che l’articolo 27 della Costituzione italiana prescrive che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità̀ e devono tendere alla rieducazione del condannato”. 

Per riflettere su questa incongruenza, legittimata, alla sua nascita, dalla natura emergenziale del periodo che il Paese stava vivendo, è bene sapere cosa significhi in concreto passare la propria vita al 41 bis. Un detenuto sotto questo regime passa 22 ore al giorno nella sua cella (lo spazio è poco più ampio di quello occupato dalla branda) e dispone di due ore d’aria al giorno in un cubicolo di cemento di scarse dimensioni. Si tratta di un cortile chiuso fra quattro mura alte circa sette metri.  Ciò determina l’impossibilità di lasciar spaziare lo sguardo, una privazione che causa un precipitoso danneggiamento della vista, oltre che un inevitabile senso di angoscia. Anche il tetto del cortile è generalmente ricoperto da grate che impediscono la visione del cielo. Non si vede un filo d’erba, nulla che non sia cemento. Si ha diritto a un’ora di colloquio al mese con i familiari attraverso un vetro divisorio ed è prevista un’estrema limitazione della socialità, concessa solo con altri tre detenuti. È comune, però, che queste persone siano detenute in questo regime da molti anni, quindi stanche e debilitate fisicamente e psicologicamente, incapaci di intrattenere conversazioni o addirittura di uscire dalla propria cella per le due ore quotidiane in cui sarebbe consentito. Le testimonianze di chi è stato al 41 bis chiamano in causa i concetti di tortura e di vuoto: le giornate sono caratterizzate dalla totale assenza di attività e stimoli. Ci sono inoltre forti restrizioni sul numero di libri che è consentito detenere contemporaneamente e consultare. È impossibile riceverne dall’esterno, come corrispondenza. Così come sono quasi sempre proibite riviste e quotidiani. Alcuni avvocati segnalano che gli assistiti al 41 bis hanno sostanzialmente perso la capacità di sostenere conversazioni che vadano oltre la durata di pochi minuti.

Carmelo Gallico, condannato per ‘ndrangheta, ricorda così i cinque anni passati al 41 bis: “Mi era concessa un’ora di luce, una soltanto, nell’arco di un’intera giornata. La trascorrevo in quella scatola di cemento coperta da due fitte reti di metallo chiamato passeggio. Quindici passi per percorrerla in lungo, appena 5 in larghezza. All’inizio li contavo: camminavo in lungo con gli occhi chiusi sui miei pensieri e giravo a memoria. Le rimanenti 23 ore le trascorrevo nel chiuso della cella sotto il freddo pallore di un neon. Un passo dalla branda al lavandino; due per la bilancetta; a tre c’era la turca; a quattro sbattevo già il naso contro la parete. La finestra era una piccola fessura attaccata al soffitto con una rete dalle maglie così strette da trattenere anche l’aria”.

L’articolo 41 bis è una sospensione a norma di legge del trattamento penitenziario ordinario. Se però la carcerazione si trasforma nell’annichilimento del corpo e della mente di chi viene considerato nemico, è innegabile che oltre a perseguire la funzione emergenziale di isolamento di soggetti ritenuti pericolosi ed eversivi il 41 bis ne persegua un’altra essenzialmente punitiva. Una detenzione di questo tipo rimanda alle categorie di castigo e vendetta, che dovrebbero essere estranee a uno stato di diritto. Sono infatti molti i giuristi che ritengono che questo tipo di misura sia discutibile, quando non del tutto incostituzionale, e il dibattito è lungi dall’esaurirsi, teso tra la necessità – specifica del nostro Paese – di combattere la criminalità organizzata, il rispetto dei diritti umani e l’applicazione dei principi fondanti della costituzione.

Nel caso specifico di Alfredo Cospito è utile ragionare sul senso – o non-senso – di applicare il regime di carcere duro. La ministra della Giustizia Marta Cartabia giustificò la decisione appellandosi ai “numerosi messaggi che, durante lo stato di detenzione, ha inviato a destinatari all’esterno del sistema carcerario”. Si trattava però di interventi che Cospito scriveva per pubblicazioni di area anarchica con il permesso del carcere, dal regime di alta sorveglianza a cui era sottoposto. Secondo il legale di Cospito, Flavio Rossi Albertini, per impedire queste comunicazioni era sufficiente attuare un controllo più stretto sulla corrispondenza, dato che, per stessa ammissione del Ministero, l’anarchico non inviava questi messaggi in maniera illecita o nascosta.

Secondo Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà: “Quando il 41 bis si traduce in una situazione di accentuazione dell’afflizione non motivata e non motivabile come volontà di interrompere i collegamenti ma semplicemente come regola di ‘carcere duro’ non ha più alcuna legittimità costituzionale”. Il caso di Alfredo Cospito, del suo corpo, della sua fame, hanno da dire qualcosa di fondamentale al corpo dello Stato, di cui ognuno di noi fa parte. Non c’è giustizia dove la pena è concepita come sofferenza, il diritto penale come vendetta e la carcerazione come abbattimento dell’umanità. I rappresentanti delle istituzioni hanno la responsabilità di discutere, seriamente e senza farsi distrarre da ridicole scaramucce fra partiti, della legittimità di un regime detentivo che è nato in ottica emergenziale e sembra invece essere diventato uno dei fondamenti di una democrazia che in questo modo finisce per rivelarsi insicura e traballante.

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