Quando si parla della storia recente del nostro Paese e degli eventi che ne hanno segnato la coscienza collettiva irrimediabilmente, ritorna il nome di una città: Genova.
Dai fatti del G8 sono ormai passati vent’anni e anche chi allora non era nato, oggi ha l’età per votare. Io stessa, nel luglio del 2001, non avevo ancora compiuto quattro anni. Cosa rimane di quello che fu definito dal pm Enrico Zucca come “la più grave violazione dei diritti umani occorsa in una democrazia occidentale dal dopoguerra”? e da Amnesty International come “una violazione dei diritti umani di dimensioni mai viste nella recente storia europea”. Chi, come me, ne ha sentito solo l’eco, ne intuisce la gravità nella fronte aggrottata e i muscoli tesi di chi invece era presente e continua a testimoniare. Raccontare ciò che accadde, gettare luce su ciò che venne liquidato in fretta da una classe politica connivente, è l’unica arma che è rimasta alle vittime che hanno visto i loro carnefici rimanere impuniti, quando non fare addirittura carriera nei corpi di polizia.
Si parla di trauma generazionale, di perdita dell’innocenza, di macelleria messicana. Le immagini che rimangono sono quelle sfocate dei pestaggi, il suono è quello delle urla di terrore. E poi un nome che riecheggia: Carlo Giuliani. Tutto questo rimane. Eppure, non è seguita nessuna rilevante conseguenza giudiziaria o politica. Un enorme rimosso storico. A vent’anni dai fatti, è bene trovare parole migliori per raccontare e ricordare ciò che accadde, per rendere giustizia alle vittime, identificare i colpevoli e connotare quei generici “fatti”.
Genova era stata scelto per ospitare la conferenza dei capi di Stato delle otto economie più importanti del mondo. Durante il summit, i leader dei Paesi membri del GB dovevano discutere di importanti questioni di politica ed economia internazionale. Un enorme movimento di contestazione si era organizzato per essere presente e manifestare il proprio malcontento nei riguardi di una politica sempre più estranea alle rivendicazioni dei cittadini. Essere a Genova durante le giornate del summit era un fatto simbolico, uno strumento del popolo, garantito dalla costituzione, per tentare di imporsi come interlocutore politico. Si contestava il neoliberismo, la globalizzazione sfrenata, la precarizzazione del lavoro, la violazione dei diritti umani e la condizione di povertà estrema in cui versavano i due terzi del mondo a favore del benessere di una minoranza di Paesi ricchi, temi che a distanza di vent’anni continuano a riecheggiare nelle piazze piene di manifestanti di tutto il mondo. Il fronte della contestazione, genericamente definito “noglobal” era ampio e variegato: c’erano i vecchi della sinistra extraparlamentare italiana, gli esponenti delle associazioni umanitarie, i cattolici, i pacifisti della rete Lilliput, Manitese, i cobas, Attac, i centri sociali. E poi c’erano gli studenti, i giovani venuti da ogni parte del mondo per esprimere – si dirà poi “ingenuamente” – la fiducia in un mondo guidato da ideali di equità e giustizia.
Le manifestazioni erano state concordate e permesse e il primo giorno del G8 fece notizia soprattutto per una storica marcia di 50mila migranti conclusa senza nessun incidente. Presto però ai manifestanti pacifici si mischiò un numero imprecisato di appartenenti ai black bloc, un gruppo di contestatori violenti, perlopiù stranieri, che agivano devastando i simboli del sistema capitalistico e globalizzato come banche, negozi in franchising e società di lavoro interinale. I black bloc si muovevano agilmente, con rapide azioni di guerriglia, per poi disperdersi tra la folla. Il 20 luglio, il secondo giorno del G8, quando il blocco nero si era già dileguato dopo una serie di attacchi vandalistici, le forze dell’ordine intervennero caricando duramente e indiscriminatamente il corteo di manifestanti pacifici. Centinaia di persone disarmate e con le mani in alto in segno di resa vennero accecate con i gas lacrimogeni e colpite a manganellate, calci e pugni anche quando si trovavano a terra, inermi e ferite.
Fu in questo contesto, in piazza Alimonda, che da una camionetta dei carabinieri partirono due colpi di pistola per mano del Carabiniere di leva di ventuno anni Mario Placanica. Uno degli spari colpì sullo zigomo un giovane manifestante che si trovava a circa tre metri dalla camionetta e teneva in mano un estintore. Carlo Giuliani cadde a terra ancora vivo ma venne subito investito due volte dal mezzo che era riuscito a ripartire e si allontanava dalla piazza mettendo in salvo i carabinieri: una prima volta in retromarcia e la seconda quando il defender ingranò la prima per ripartire. In base ai filmati che mostrano il sangue zampillante di Giuliani e secondo le conferme dell’autopsia, il ragazzo morì diversi minuti dopo essere stato colpito. Giuliani non venne soccorso e il suo corpo agonizzante venne circondato dai carabinieri rimasti sul posto, che subito tentarono di inquinare i fatti. Ci sono registrazioni in cui si sente un carabiniere incolpare un manifestante di aver ucciso Giuliani con il lancio di un sasso. Inoltre, in una prima foto del cadavere di Giuliani, si nota un sanpietrino sulla sinistra, lontano dal cadavere. In una foto scattata in un secondo momento, il sanpietrino è intriso di sangue e giace vicino al volto del giovane. Il carabiniere che sparò il colpo fu poi prosciolto dalle accuse a suo carico per aver agito in stato di legittima difesa.
Il giorno seguente, dopo ulteriori pestaggi e cariche contro i manifestanti da parte delle forze dell’ordine, accade quella che oggi viene ricordata come la “macelleria messicana” della scuola Diaz.
La scuola era stata concessa dal comune di Genova al Genoa Social Forum come sede del loro media center, diventando poi di fatto anche dormitorio e punto di ritrovo di molti manifestanti. Intorno a mezzanotte, con il pretesto di sorprendere manifestanti dei gruppi black bloc, 150 uomini tra agenti del reparto mobile della Digos e del servizio centrale operativo della polizia fecero irruzione nella scuola, dopo aver sfondato i cancelli con un blindato. La prima persona che incontrarono fu un giornalista inglese, Mark Covell, a cui ruppero 8 costole, fratturarono una mano e perforarono un polmone a forza di percosse, nonostante questo gridasse disperatamente di essere un giornalista. Mentre Covell giaceva in condizioni gravi, gli agenti entrarono nell’edificio, dove la maggior parte dei manifestanti già dormiva. Molti si svegliarono sotto le manganellate, altri vennero umiliati, ingiuriati, costretti a inginocchiarsi in corridoio in modo che fosse più facile colpirli, altri ancora vennero lasciati esangui a terra e poi colpiti, per puro sfregio, con la schiuma degli estintori sulle ferite aperte. Una ragazza tedesca venne colpita alla testa con una violenza tale da farle perdere subito conoscenza. Quando cadde a terra, inerme, gli agenti si scagliarono su di lei e continuarono a picchiarla, sbattendole la testa contro un armadio per poi lasciarla in una pozza di sangue.
Un’altra ragazza venne afferrata per i capelli e scaraventata per le scale a testa in giù, e poi gettata sopra una decina di prigionieri ammassati, sanguinati e in stato di shock. Si potrebbe continuare con l’elenco delle violenze – ben riassunte in questo articolo di Internazionale – ma basta dire che solo sette persone sulle novantatré presenti nella scuola uscirono fisicamente indenni. Ventotto di loro furono ricoverate, cinque rischiarono la vita. Tutte furono arrestate e scoprirono solo alla caserma di Bolzaneto, dove vennero portate poco dopo, di essere accusate di associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio, resistenza aggravata e porto d’armi. Qualche giorno dopo sarebbero stati tutti assolti, ma ciò che accadde in quelle ore di detenzione a Bolzaneto, dove erano trattenuti altri manifestanti arrestati nell’arco della giornata, fu altrettanto vergognoso. 222 detenuti subirono quelle che in seguito i pubblici ministeri avrebbero definito tortura. Vennero marchiati con un pennarello e furono costretti a camminare tra due file di poliziotti che li colpivano con pugni e manganelli – immagini che oggi ci sono purtroppo particolarmente familiari. Furono poi rinchiusi nelle celle, costretti a rimanere in piedi attaccati al muro, con le braccia alzate e le gambe divaricate. Chi non riusciva a sostenere la posizione veniva schiaffeggiato, insultato, picchiato, umiliato con sputi e spruzzi di spray al pepe. I testimoni ricordano di essere stati costretti a fare il saluto romano, raccontano di aver sentito cori fascisti intonati dagli agenti come “1,2,3, viva Pinochet, 4,5,6, a morte gli ebrei, 7,8,9 il negretto non commuove”. Altri ancora raccontano di essere stati obbligati a inginocchiarsi e abbaiare come cani, e di essere stati picchiati se il guaito cessava anche solo per un momento.
Nel 2012, undici anni dopo i fatti, 25 dirigenti della Polizia di stato sono stati condannati per quanto avvenuto alla Diaz. Nel 2015 e nel 2017 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per le violenze commesse dalle forze dell’ordine e per l’assenza, nel suo ordinamento, del reato di tortura, ma i dirigenti di polizia non hanno scontato un giorno di carcere. Il carabiniere Massimo Nucera, che aveva dichiarato di essere stato aggredito da un manifestante non identificato – fingendo di essere stato accoltellato e mostrando un giubbotto lacerato – ha visto definirsi il procedimento disciplinare a suo carico con un giorno di sospensione, equivalente a una singola decurtazione di 47 euro dello stipendio.
Le domande fondamentali su come tutto ciò sia potuto accadere rimangono oggi, dopo vent’anni, ancora senza risposta. Sarebbe a dir poco ingenuo parlare di mele marce o singoli poliziotti fuori controllo. Onesto sarebbe invece ammettere che si tratta di un problema strutturale che ha radici profonde. Una classe politica connivente ha permesso che, da Genova fino a Santa Maria Capua Vetere, passando per l’omicidio di Stefano Cucchi, in più occasioni le forze dell’ordine si sentissero legittimate a infrangere ogni legge e protocollo, a violare qualsiasi diritto basilare, a sfogare una rabbia e un fascismo dei modi, ancor prima che ideologico, su chiunque ritenessero sottoposto alla loro autorità.
Per evitare che i crimini di Stato rimangano impuniti sarebbe necessario introdurre i codici identificativi per gli agenti di polizia, che permetterebbero di risalire in maniera diretta a chi, fra gli agenti in servizio, utilizza in modo sproporzionato la forza. Ma, più di tutto, sarebbe urgente considerare all’unanimità i fatti del G8 di Genova come una delle più grandi sconfitte della nostra democrazia. Uno spartiacque che ci ha insegnato a caro prezzo che quando il potere si sente minacciato, lo stato di diritto, anche quando apparentemente solido e inscalfibile, può essere sospeso da un momento all’altro. Se i fatti di Genova avessero avuto serie ripercussioni nel nostro ordinamento, se i colpevoli delle torture e dei pestaggi indiscriminati fossero stati puniti e il governo fosse stato chiamato a rispondere degli ordini che impartì durante il G8 e del modello di gestione dell’ordine pubblico che decise di adottare, forse potremmo dirci un Paese che giudica misera la vita negli abusi di potere. Vent’anni dopo, invece, gli abusi di potere da parte delle forze dell’ordine continuano a occupare le prime pagine dei quotidiani con una frequenza allarmante, e ciò che più dovrebbe preoccupare è che una minoranza non esigua degli italiani, aizzata da certe parti politiche, non ritenga che queste violenze siano gravissime violazioni dello stato di diritto ma tenda invece a giustificarle quando non ad auspicarle. I fatti di Genova dovrebbero insegnarci che abbiamo bisogno di giustizia, non di giustizieri, di diritti e non di manganelli. E finché le forze dell’ordine incuteranno più timore di quanto non facciano sentire al sicuro i cittadini che dovrebbero difendere, non potremo dirci un Paese civile.