Lo scorso 8 maggio, HBO ha rilasciato il primo trailer ufficiale di Watchmen, serie ispirata al fumetto scritto da Alan Moore e disegnato da Dave Gibbons tra il 1986 e il 1987. La serie è stata ideata da Damon Lindelof, già sceneggiatore di gran parte degli episodi di Lost. Con un post Instagram, lo stesso Lindelof ha dichiarato che la serie non sarà una diretta trasposizione del materiale originale, ma una rivisitazione ambientata nel presente. Un ulteriore trailer è stato rilasciato in occasione del San Diego Comic-Con, scatenando la curiosità di nuovi fan e lettori di vecchia data.
Quando ci si avvicina a Watchmen per la prima volta, si è spesso preda di una forte ansia da prestazione. Questo titolo pionieristico è trattato dai cultori alla stregua di un testo sacro, tanto che “Diario di Rorschach, 12 ottobre 1985…”, per un lettore di fumetti, è diventato un incipit dal valore simile a quello che “In principio Dio creò il cielo e la terra…” riveste un cattolico praticante. I motivi per cui l’opera di Alan Moore e Dave Gibbons ha assunto questo status iconico sono molteplici: basti pensare che Watchmen è l’unico fumetto ad aver vinto un Premio Hugo (gli Oscar della fantascienza), ed è stato inserito dal Time tra le cento migliori storie in lingua inglese dal 1923 a oggi. L’importanza di Watchmen, però, non risiede nei primi vinti, ma nel modo in cui ha stravolto le sorti del fumetto americano.
L’impalcatura concettuale su cui Moore costruirà la sua opera magna affonda le radici nella cosiddetta british invasion, ossia la sempre più massiccia affluenza di autori britannici all’interno delle major statunitensi della prima metà degli anni Ottanta. In quel periodo alcuni sceneggiatori inglesi, tutti provenienti dalla storica rivista di settore 2000 AD, si distinsero nel mercato americano attraverso alcune collane innovative. L’artefice di questa rivoluzione fu la editor della DC Comics Karen Berger, che iniziò a reclutare nuovi talenti nel Regno Unito per riesumare alcuni personaggi minori della casa editrice, da tempo dimenticati.
Questi autori diedero il via a un processo di decostruzione di un genere, quello supereroistico, che appariva eccessivamente idealizzato e stereotipato, cambiandone per sempre forma e contenuti. Opere come Sandman di Neil Gaiman, Shade, The Changing Man di Peter Milligan, Animal Man di Grant Morrison, Hellblazer di Jamie Delano contribuirono a decostruire le storie di supereroi, grazie all’introduzione di tematiche più mature e all’impiego di un linguaggio sempre più sofisticato, allontanandole da quelle atmosfere scanzonate e ingenue tipiche della Silver Age.
L’impatto della british invasion fu tale da indurre la Berger a creare nel 1993 un’apposita etichetta, la Vertigo, specializzata nella pubblicazione di fumetti indirizzati a un pubblico adulto, con l’obiettivo di dare sfogo all’estro della nuova fucina di talenti britannici e intercettare i gusti dei lettori, sempre più interessati a questa nuova tipologia di storie.
È in questo clima di fervore creativo che Watchmen vede la sua nascita. Nel 1986, quando la miniserie fu pubblicata, il nome del suo autore, Alan Moore, era già ben noto nel settore. Il “Bardo” di Northampton aveva iniziato a farsi strada nel mondo del fumetto sul finire degli anni Settanta, quando iniziò a scrivere alcune sceneggiature su 2000 AD, da cui scaturirono lavori di estremo interesse come The Ballad of Halo Jones e Skizz. Nel 1981, la divisione inglese della Marvel gli affidò la gestione di Captain Britain, personaggio creato da Chris Claremont e Herb Trimpe nel 1976. L’anno dopo, insieme al disegnatore David Lloyd, iniziò a pubblicare sulla rivista Warrior uno dei suoi lavori più celebri, V for Vendetta, guadagnandosi l’attenzione degli addetti ai lavori. Ambientato in una Gran Bretagna distopica e totalitaria e incentrato sulle gesta di V, attivista anarchico che trova la sua raison d’etre nel tentativo di rovesciare il regime per mezzo di azioni radicali, V for Vendetta presenta alcune tematiche ricorrenti delle opere di Moore, come l’impiego di rimandi intertestuali ai classici della letteratura inglese e americana e l’amore per la cultura popolare.
Alan Moore approda in DC Comics nel 1983, scelto dall’editor Len Wein per il rilancio di Swamp Thing, uno dei personaggi di seconda fascia che la casa editrice si proponeva di rivitalizzare, aprendo la strada agli altri autori della british invasion. L’impatto della gestione di Moore fu epocale: diede il via a un nuovo approccio alla sceneggiatura, caratterizzato da un maggior approfondimento psicologico dei personaggi, dall’introduzione dei primi elementi di revisione e dall’utilizzo di didascalie descrittive e dense di poesia, assolutamente atipiche per l’arte sequenziale del tempo. Ma è soltanto con la pubblicazione di Watchmen che il discorso sul decostruzionismo si consolida definitivamente. Alan Moore e il disegnatore Dave Gibbons, dopo aver collaborato alla realizzazione di vari numeri di Future Shocks, una delle collane pubblicate da 2000 AD negli anni Settanta, decisero di proporre alla DC un fumetto di supereroi nuovo e insolito, chiedendo di poter disporre di un intero cast di personaggi e di un universo narrativo autonomo. Inizialmente, Moore aveva intenzione di sviluppare la storia di Watchmen utilizzando i personaggi della Charlton Comics, casa editrice di cui la DC aveva acquisito i diritti anni prima, ovvero The Question, Blue Beetle, Peacemaker, Nightshade, Peter Cannon Thunderbolt e Captain Atom. La trama iniziale di Moore era incentrata sull’omicidio di The Peacemaker (che sarebbe diventato il celebre Comico). Tuttavia la DC glielo impedì, poiché scelse di introdurre i nuovi characters nel crossover del 1985 Crisis on Infinite earths. Piuttosto che sopprimere la trama, Moore scelse di mantenerla, creando però personaggi ex novo, basati sugli archetipi di quelli della Charlton: fu così che nacque Watchmen.
Il titolo è ispirato a una frase del poeta latino Giovenale, Quis custodiet ipsos custodes? (Chi sorveglia i sorveglianti?), e sottende il vero leitmotiv dell’intera opera: che cosa accadrebbe se, nel mondo reale, esistessero sul serio dei vigilanti mascherati? La comunità tollererebbe questo genere di abuso in ragione della propria sicurezza? La storia è ambientata in un 1985 alternativo in cui gli Stati Uniti hanno vinto la guerra del Vietnam e Richard Nixon è scampato allo scandalo Watergate, riuscendo a ottenere il quinto mandato consecutivo come Presidente. La tensione con l’Unione Sovietica è alle stelle, la guerra atomica dietro l’angolo. Per anni, la sicurezza nelle strade è stata garantita da alcuni vigilantes, essenzialmente donne e uomini privi di superpoteri che, volontariamente, hanno scelto di calarsi nei panni del giustiziere mascherato. Il nucleo originario di questi vigilantes era stato fondato da Nelson Gardner (Captain Metropolis) nel 1939, con il nome di Minuteman. Il gruppo fu sciolto nel 1949, quando uno dei membri, The Comedian, tentò di stuprare Silk Spectre, la compagna di Gardner. A questa prima generazione di vigilantes, metafora della Golden Age del fumetto americano, ne segue una seconda, quella dei Watchmen. Nel 1977, in forza dell’approvazione del Decreto Keen, il governo mette al bando l’attività dei Watchmen, costringendo alla pensione i più grandi vigilanti mascherati americani. Otto anni dopo, le circostanze misteriose attorno all’omicidio di The Comedian spingono uno dei membri del secondo gruppo, Rorschach, ad avviare le indagini per la risoluzione del caso.
A prescindere dalle implicazioni filosofiche e dai dilemmi etici, a rendere grande l’opera di Moore sono soprattutto i personaggi: gli “eroi” di Watchmen riflettono quel senso di inquietudine e misantropia tipico della Guerra Fredda, e sono caratterizzati da una profondità psicologica precedentemente sconosciuta alle produzioni seriali americane.
Al centro della filosofia di Watchmen c’è il rapporto tra l’uomo e la maschera, analizzato da un punto di vista inedito, quasi pirandelliano: non si tratta di supereroi che hanno scelto di indossare il costume per puro spirito di giustizia, ma di uomini calati in una realtà fatta di traumi, dolore, nichilismo esasperato e un confine sempre meno netto tra bene e male. Il dilemma morale attraversa tutti i personaggi di Watchmen: dall’assolutismo etico di Rorschach, che sceglie di imporsi rigide regole per dimenticare un passato fatto di abusi, al cinismo senza freni del Comico, che indossa la maschera per riflettere una propria visione del mondo, fino ad arrivare ai deliri d’onnipotenza di Ozymandias, ossessionato dalla figura di Alessandro Magno e convinto assertore del principio “colpirne uno per educarne cento”.
Con un ritmo degno delle migliori serie televisive, Alan Moore introduce al lettore un universo privo di riferimenti positivi, animato da antieroi caratterizzati da un’estrema negatività, enfatizzata dalle atmosfere angosciose delle matite di Gibbons e dalle tinte cupe conferite dai colori di John Higgins: non c’è spazio per il “Truth, justice, American way” degli anni precedenti. Il Comico non ha alcun ripensamento nell’uccidere una donna che lui stesso aveva messo incinta durante la guerra in Vietnam e Doctor Manhattan, l’unico Watchmen dotato di superpoteri, assiste passivamente, senza intervenire.
Ozymandias, come tanti supereroi della prima ora, ha il sogno di salvare il mondo, sprecando energie e risorse per scongiurare l’esplosione di un conflitto atomico, ma vuole farlo in modo machiavellico, seguendo i propri metodi, al costo di inscenare una finta minaccia aliena e sacrificare tre milioni di cittadini newyorkesi.
Proprio Doctor Manhattan (al secolo Jonathan Osterman) è forse il personaggio che sintetizza al meglio l’essenza del processo di decostruzione del supereroe. A causa di un esperimento andato male, Manhattan (il cui nome è un riferimento al Manhattan Project) ha acquisito il controllo totale sulla materia: è immortale, può duplicarsi, ha il dono dell’ubiquità, è in grado di conoscere il proprio passato e il proprio futuro ed è l’unica risorsa di cui l’umanità dispone per evitare un’escalation nucleare. Manhattan è più simile a un Dio che a un uomo. Questa sua dote, però, non lo spinge a schierarsi per partito preso dalla parte degli esseri umani, come da tradizione nelle storie di supereroi (di cui Superman rappresenta l’archetipo) ma, al contrario, lo rende essenzialmente privo di morale e insensibile alle sorti dell’umanità. Manhattan ha raggiunto un livello di consapevolezza e comprensione tale da reputare gli esseri umani variabili assolutamente insignificanti, e risponde ad un quesito che dovrebbe tormentare ogni lettore di storie di supereroi: che senso hanno i concetti di morale e giustizia per un essere che di “umano”, ormai, non ha più nulla?
Con Watchmen, Moore ha avuto il merito di introdurre la tragedia nel fumetto americano, aprendo la strada a una corrente revisionista su cui l’industria dei comics poggia ancora oggi. Dopo l’uscita di quest’opera epocale, altri autori hanno sperimentato la via della decostruzione. Primo fra tutti l’americano Frank Miller che, con il suo The Dark Knight Returns, uscito pochi mesi prima dell’opera di Moore, ha regalato ai lettori un Batman crudele e autoritario come mai si era visto prima.