Il secondo film da regista di Viggo Mortensen, The Dead Don’t Hurt, è un western: è ambientato negli Stati Uniti, a cavallo della guerra civile, con un protagonista (interpretato dallo stesso Mortensen) danese e una protagonista (interpretata da Vicky Krieps) nata nel Canada francese. Vivono in un paese quasi al confine, perso nella sabbia e nella polvere. Si innamorano e decidono di stare insieme. A un certo punto, però, lui parte: è un ex-soldato e vuole vedere con i suoi occhi quello che sta succedendo tra gli stati del nord e gli stati del sud e dare il suo contributo. Ogni uomo, dice, deve opporsi alla schiavitù. Lei rimane da sola, pronta a vivere un altro tipo di guerra, forse ancora più feroce e subdola.
Sulla carta, questo film sembra una semplice rilettura di genere; e in parte, indubbiamente, lo è: pistole, scontri, il buono contro il cattivo, la ricerca di una nuova vita e di una nuova tranquillità; il potente che usa il suo privilegio per schiacciare i più sfortunati e la politica che se ne fa immediatamente complice, pronta a chiudere un occhio davanti a omicidi e crimini di varia natura. In realtà, The Dead Don’t Hurt è una pellicola estremamente attuale. Perché parla di due non-americani che si trasferiscono in America e che desiderano vivere come americani. Ed è anche un’opera sull’essere donna, sulla solitudine e su ciò che vuol dire vivere in una comunità dove il potere è gestito unicamente da uomini.
Mortensen non prende una posizione; non in modo netto, almeno. Lascia che siano le immagini a dare allo spettatore spunti e segnali su quello che succederà (o, almeno, che potrebbe succedere). The Dead Don’t Hurt è volutamente complesso e sfaccettato: i ricordi arrivano all’improvviso e si mischiano al procedere della storia, e l’emancipazione femminile viene raccontata con uno sguardo diverso e – se possibile – sincero. The Dead Don’t Hurt arriva dopo l’esordio alla regia di Mortensen, Falling: un film ambientato in una Los Angeles contemporanea, in cui viene messo in scena il rapporto difficile, carico di rabbia e di non detti, tra un padre e suo figlio. E se in quel caso la dimensione del racconto era quasi più contenuta e intima, nel caso di The Dead Don’t Hurt c’è una leggerissima espansione che va in entrambe le direzioni: verso l’interno, e quindi verso il cuore dei personaggi, che vengono dipinti con cura aggiungendo dettagli e particolari, e verso l’esterno.
In un certo senso, Mortensen è un regista atipico: ha esordito relativamente tardi, eppure quando lo ha fatto era già consapevole e pronto a dire esattamente ciò che voleva. Prima di passare dietro la macchina da presa, Mortensen ha lavorato lungamente come attore. All’inizio della carriera, ha fatto molta fatica a trovare il suo posto e a ottenere ruoli consistenti (il suo vero esordio, in Swing Shift di Jonathan Demme, fu tagliato durante il montaggio). Intorno agli anni Novanta, ha raggiunto un equilibrio fatto di primi riconoscimenti e di partecipazioni sia al cinema che a serie televisive. La sua consacrazione a livello mondiale, però, è avvenuta con Aragorn ne Il Signore degli Anelli – ruolo che, in un primissimo momento, non era stato dato nemmeno a lui, ma a Stuart Townsend.
Mortensen non è mai stato destinato a diventare una star di film commerciali; velocemente, soprattutto dopo aver stretto un vero e proprio sodalizio artistico con David Cronenberg, si è concentrato su storie e personaggi differenti: forse meno esposti dal punto di vista mediatico ma ugualmente potenti e iconici. Un esempio è il Nikolai Lužin che interpreta ne La promessa dell’assassino. Nel corso della sua carriera ha ricevuto tre nomination agli Oscar come migliore attore: una proprio per il film di Cronenberg, mentre le altre due sono arrivate con Captain Fantastic e Green Book.
Mortensen è atipico innanzitutto per la sua storia: da bambino ha viaggiato tantissimo, spostandosi prima in Argentina, dove ha imparato a parlare spagnolo, e successivamente in America. Quando sua madre e suo padre hanno divorziato, è andato a vivere in Danimarca. È poliglotta e si è sempre impegnato in prima persona sia per un certo attivismo politico sia, poi, per la divulgazione dell’arte e della letteratura (ha fondato una casa editrice, Perceval Press, che pubblica libri di vario genere, anche fumetti). Nella scelta dei ruoli e con i suoi film, Mortensen ha provato a esprimere esattamente ciò che intendeva esprimere: ha usato i suoi personaggi come un’estensione, una sorta di megafono, e le sceneggiature su cui ha lavorato prima per Falling e poi per The Dead Don’t Hurt hanno rimesso al centro le persone: non solo – e banalmente – come i protagonisti del racconto ma soprattutto come spazi fisici, contenuti e delimitati, dove raccogliere sensazioni, impressioni e punti di vista.
In The Dead Don’t Hurt, il personaggio principale è quello interpretato da Vicky Krieps: una donna che ha visto morire il padre, che è cresciuta con la madre, che si è velocemente spostata dal Canada agli Stati Uniti, e che ha vissuto una parte della sua vita da adulta in mezzo a frivolezze e rapporti senza alcun senso, e che poi, quando ha deciso di seguire il personaggio di Mortensen, si è ritrovata lontana dalla civiltà e dal mondo che aveva imparato a conoscere e che si era costruita; e ciò nonostante si è rimboccata le maniche e si è data da fare. È diventata madre senza nemmeno volerlo, senza nemmeno aspettarlo, e nel figlio ha riversato la sua conoscenza e la sua visione del mondo, raccontandogli storie (in francese) e leggendogli libri.
Mortensen, con questo secondo film, ha saputo seguire un andamento preciso, che sembra quasi un abbraccio: tiene insieme il primo e l’ultimo minuto, e lo fa splendidamente. Sappiamo già, in parte, come andrà a finire. Ma non è questo quello che importa: ciò che importa, com’è stato anche in Falling, è cosa succede durante il racconto. Mortensen è un autore prezioso, e non credo minimamente di esagerare dicendolo. I suoi film sono piccoli, è vero, e al box office non hanno segnato né record né incassi pazzeschi. Ma restano comunque innegabili il talento e, aspetto forse ancora più importante, la poetica, presa come macrocategoria, di Mortensen. Che non si ferma certamente ai personaggi che ha interpretato, ad Aragorn (c’è un piccolo easter egg in The Dead Don’t Hurt) o alla serie di uomini divisi tra amore e violenza che Cronenberg gli ha cucito addosso.
Mortensen è una persona da ascoltare, con una sua idea forte e riconoscibile di cinema e un approccio più unico che raro alle arti: non sembra vedere confini tra pittura, letteratura o musica; non sembra voler accettare passivamente una divisione in compartimenti stagni tra ciò che le persone si aspettano di vedere e ciò che, invece, è lui, come autore, attore e regista, a voler raccontare. Ha una concezione lineare e, allo stesso tempo, circolare di sé stesso e del suo mestiere: alcune cose restano immutate, mentre altre tendono a ripetersi. Per certi versi, è un intellettuale, perché si sforza di farsi portatore di un punto di vista altro, quasi alternativo, per il suo pubblico. Ma è pure un osservatore esterno, al di sopra di ogni parte e divisione, perché guarda e ascolta tutto, e legge e commenta ed è così prolifico nelle sue varie attività da essere praticamente impossibile da catalogare.
Per convenienza, e perché altrimenti sarebbe estremamente difficile descriverlo, diciamo che è un attore o un regista. Ma forse l’etichetta migliore con cui identificarlo è artista. È un uomo del mondo, e intendo letteralmente, e i suoi film sono pezzi importanti di quello che lo ha colpito (il western, come genere, è tornato abbastanza spesso nella sua carriera) e che gli piace. In tutto e per tutto, Mortensen è un’anomalia, un’eccezione, ed è un peccato che spesso il discorso intorno a lui e alla sua attività si limiti a – per esempio – Il Signore degli Anelli. Oppure no, e come ha fatto notare anche lui in diverse occasioni Il Signore degli Anelli non è altro che uno spunto da cui cominciare: Mortensen non ne ha mai parlato come di un’esperienza singola, fine a sé stessa; l’ha sempre ricordata come un momento fondamentale all’interno della sua vita e, ovviamente, della sua carriera. Vivere per così tanto tempo in Nuova Zelanda gli ha permesso di entrare in contatto con una nuova cultura, di assorbirla, e di aggiungere l’ennesima tessera all’enorme e sfaccettato mosaico dell’essere umano che è. Quando l’ho intervistato alcuni anni fa, mi ha detto di aver capito una cosa; mi ha detto, e lo cito, che “una mente educata può comprendere un’idea senza doverla accettare”. Ecco, Mortensen è esattamente questo: una mente educata.