“Una spiegazione per tutto” è il ritratto di un’Europa spaccata in due, incapace di comunicare - THE VISION

Che si tratti di crisi climatica, del governo in carica o dell’opposizione, del sistema pensionistico o delle imminenti elezioni europee, c’è un confine che mia madre traccia ogni volta che ci sediamo a tavola: non si parla di politica. Non so se sia perché il pranzo e la cena sono gli unici momenti fissi in cui ci troviamo tutti insieme, per stanchezza o perché è il modo più semplice e immediato a sua disposizione per limitare il conflitto tra me e mio padre. Probabilmente per tutti e tre i motivi. È un perimetro relativamente nuovo: durante gli anni del liceo e le prime esperienze fuorisede in università ricordo la politica come qualcosa di poco a fuoco, discorsi che non mi riguardavano in maniera diretta, perché da adolescente non ero mai stato invitato a riflettervi, né a scuola, dove penso andrebbe insegnata la coscienza politica, né a casa, dove i pochi – almeno nei ricordi – scambi tra i miei richiedevano strumenti o informazioni che non possedevo.

Non credo sia stato così per tutti. Eppure, quando mia madre dice “per favore, non parlate di politica” perché in realtà intende “per favore, non litigate sulla politica”, considerato che io e mio padre, invece di discutere, ci scanniamo, ognuno trincerato dietro la sua idea, sempre diametralmente opposta, incapaci di fare un passo verso l’altro, io la capisco. Perché parlare di politica, per quanto importante, è spesso estenuante, un gioco di forza senza vincitori. Sui social e fuori. Non si tratta solo di una questione di polarizzazione, cioè di assumere posizioni sempre più estreme, ma dei cambiamenti che ha subìto la comunicazione, così come dell’intrusione nel dibattito di sempre più numerose teorie del complotto. Il dialogo ha smesso di essere uno scambio, diventando una partita di squash: parliamo per ascoltare solo ciò che diciamo noi stessi. È in questo solco, quanto mai centrale, mi sembra, nel determinare il nostro futuro, si inserisca anche Una spiegazione per tutto, la nuova pellicola del regista ungherese Gábor Reisz, presentata alla 80° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove ha vinto il premio Orizzonti come miglior film, e distribuita nelle sale italiane dal 1 maggio da Arthouse, la divisione di I Wonder Pictures dedicata alla riscoperta del cinema d’autore.

Ha diciott’anni Ábel, sta preparando l’esame di maturità ed è innamorato di Janka, una sua compagna di classe che ha un altro per la testa. Quando lui la bacia, lei l’abbraccia. Deve studiare Ábel, ma la Storia proprio non gli entra – date, ricorrenze, eventi, basterebbe questo per la sufficienza ma non ce la fa. Attorno a lui, Budapest scorre afosa, giovane e piena di vita. Suo padre, György, infila la politica dappertutto, la infilerebbe pure nelle case che costruisce per lavoro se potesse, è un nazionalista, uno “stupido fidessino”, come l’ha definito una volta Jakab, il professore di Storia della scuola di Ábel, al termine di un colloquio genitori-insegnati. Lui invece è democratico e povero, un idealista, lo stipendio del liceo è di appena cinquecento euro al mese. Tutto succede una mattina, dopo che di fronte alla commissione esaminatrice Ábel fa scena muta. La rivoluzione industriale non se la ricorda, niente. “Scegli un altro argomento allora”. Giulio Cesare, nemmeno. “In che periodo siamo?”. Niente, nella testa, in quella sua testa “da stupido”, come dice davanti allo specchio, la Storia proprio non vuole entrarci. Finirà a raccogliere la spazzatura, come lo minaccia sempre suo padre. Persino suo cugino è riuscito a diplomarsi, e non era proprio una cima. “Vuoi guardare gli appunti?”. E chi ce li ha. È elegante Ábel, indossa una camicia bianca, appena stirata, e una giacca, la stessa che indossava il 15 marzo, festa nazionale. E infatti appuntata al petto si è dimenticato una piccola coccarda tricolore. “Perché indossi la coccarda?”, intima Jakab. Non è una domanda qualunque: è l’ultima battuta che sentiamo prima di scoprire che il ragazzo è stato bocciato. “Perché indossi la coccarda?”. Sono molte le risposte possibili: me la sono dimenticata, per rimarcare il mio supporto a Viktor Orbán, non lo so. Per Ábel, la sua famiglia ed Erika, una giovane giornalista alla ricerca di uno scoop, che incappa in questa storia ingigantendola all’inverosimile, trasformandola in un caso nazionale, vedendosela pubblicare in prima pagina sul giornale di destra per cui scrive, c’è una sola risposta possibile: Jakab ha bocciato Ábel per la coccarda. Bastano nove giorni, dal lunedì al martedì, visti di volta in volta attraverso la prospettiva di ciascuno dei quattro personaggi, per far nascere e scoppiare una polemica che trascina l’intera città. 

Eventi simili sembrano più che verosimili in una società polarizzata come quella ungherese, tanto che la stessa pellicola nasce da uno degli innumerevoli atti di repressione della libertà che da tempo si susseguono con la guida di Fidesz. Alla fine del 2020, infatti, il governo ha privato l’Università di Teatro e arti cinematografiche di Budapest della sua autonomia, imponendo al Cda nuovi amministratori vicini a Orbán nominati a tempo indeterminato e riorganizzandola completamente dall’alto. “In quanto regista ed ex studente dell’università, mi sono unito alla protesta e un giorno, mentre tornavo da una manifestazione, mi sono reso conto che c’era bisogno di parlare della situazione che ci circonda e che ogni forma d’arte, incluso il cinema, dovrebbe essere un mezzo per farlo”, spiega Reisz, raccontando anche di come, a causa della negazione dei fondi statali, il film sia stato girato in soli venti giorni, con un budget molto ridotto, arrangiandosi come e dove meglio si poteva. “La frattura che attraversa il Paese è presente da anni, non solo in Parlamento, ma anche nella vita di tutti i giorni, nei rapporti tra le persone, per strada. Per me, uno degli esempi più espressivi di questo conflitto è l’indossare la spilla con i colori nazionali”.

La coccarda, infatti, non è un elemento centrale solo nella finzione della pellicola. Il 15 marzo in Ungheria si celebra il Giorno della Memoria della Rivoluzione del 1848, è festa nazionale, una delle più importanti. In questa data si commemora l’inizio della rivoluzione contro l’Impero austriaco, che portò a dichiarare l’indipendenza dalla monarchia asburgica, e si è soliti indossare la spilla con i colori nazionali – rosso, bianco, verde. Negli ultimi vent’anni, la strumentalizzazione di questo simbolo da parte dei nazionalisti durante le manifestazioni di partito ne ha cambiato radicalmente il significato. Da emblema dell’indipendenza e di orgoglio ungherese, la coccarda è diventata un dispositivo per distinguere i “patrioti” dai “traditori”. Le elezioni del 1998, infatti, quando Orbán venne eletto per la prima volta premier, contribuirono a polarizzare la politica attorno a concezioni contrastanti di democrazia: Fidesz offriva l’idea di uno Stato forte, che proteggesse la società dalla minaccia del liberalismo sociale o, peggio, da un ritorno del comunismo sovietico, che aveva occupato l’Ungheria alla fine della seconda guerra mondiale e contro cui i cittadini avevano cercato inutilmente di ribellarsi nel 1956. I suoi oppositori, nel Partito Socialista, cercavano invece un accordo costituzionale per difendere la democrazia dalle forze nazionaliste legate alla retorica del cristianesimo conservatore.

La polarizzazione sociale e politica si sta diffondendo ovunque e rischia di minare la democrazia. Se negli Stati Uniti è aumentata significativamente negli ultimi anni, in Europa quasi una persona su tre ritiene di far parte di un’area che sta scivolando, a livello economico, verso i margini politici del progetto comune europeo, da cui si sente sempre meno coinvolta. Il linguaggio politico aggressivo che si è sviluppato nello stesso periodo ha permesso alla base elettorale dei partiti euroscettici di crescere e ha aumentato la polarizzazione su specifici temi: in Svezia sull’immigrazione, in Germania sulle politiche ambientali, in Estonia, Polonia e Serbia sui diritti delle coppie dello stesso stesso, in Italia sulla gestazione per altri e la crisi climatica. Quella di Una spiegazione per tutto – e dei nostri giorni – più che una polarizzazione ideologica, è una polarizzazione affettiva, determinata non tanto dalla condivisione di idee e progetti, quanto da un sentimento di avversione totale per la parte opposta, che sostituisce al confronto politico la faziosità e lo scontro, in cui la difesa della fazione di cui ci fregiamo di appartenere travalica gli aspetti prettamente politici per trasformarsi in un’intransigenza, quasi un fanatismo, che finisce per impregnare anche gli ambiti più privati della nostra vita. 

C’è una scena molto significativa da questo punto vista nel film, in cui Jakab, arrivato a casa di Ábel forse sulla spinta delle parole della sua compagna, che lo ha incalzato a chiedersi se la sua domanda abbia potuto ferire il ragazzo, si trova ad attenderlo insieme al padre, che non sa dove sia finito. “Io leggo di tutto, pure la stampa che definite ‘indipendente’, anche se mi fa salire la pressione”, dice il padre, György, “Perché la vostra propaganda invece è sana, è come leggere un giornaletto umoristico”, ribatte Jakab. “Distorce le mie parole”. “Certo perché solo voi potete distorcerle”. “Alziamo la voce davanti alle ingiustizie”. “Certo, un Paese di sodali”. “Lei chiama fascisti quelli che non la pensano come lei”. “Ma che parlo a fare con un orbaniano a cui hanno fatto il lavaggio del cervello”. “Allora chiami George Soros e gli chieda per chi votare la prossima volta”. È uno scontro senza via d’uscita, se non quella di andarsene, ma è soprattutto in loro due che Reisz, insieme a Éva Schulze, co-sceneggiatrice della pellicola, cerca di comprendere e illustrare le intenzioni e il disorientamento di entrambe le parti politiche, per esempio non rappresentando mai György come una caricatura – seppur oggi più reale che comica – del nazionalista razzista e omofobo, o lasciando che la motivazione della bocciatura di Ábel da parte di Jakab si faccia più incerta e meno solida. In questo senso, Reisz recupera la funzione indiscutibilmente politica del cinema, con cui la camera da presa si fa lente d’ingrandimento per indagare una ferita della società, ponendoci davanti alle sue conseguenze.

Oltre alla polarizzazione, a emergere è il ruolo dei media nella creazione di falsi allarmismi, fake news e divisione. Tra farina di grilli, immigrazione e agricoltura, solo il 24% della popolazione generale italiana non trova difficile saper individuare una notizia falsa. Basta una parola e non saremo più salvati. È una tendenza che mina anche le basi di ogni campagna elettorale, quando non viene sfruttata direttamente per acquisire consenso, condividendo informazioni parziali capaci di parlare alla pancia dei cittadini o screditare l’avversario, a prescindere dalla loro veridicità, e che sembra ormai essere diventata un problema insormontabile. Non tanto per la mancanza di strumenti a contrasto, quanto per la volontà di applicarli. D’altronde, costruire notizie per dare al lettore ciò che vuole credere è prima di tutto un modo per far soldi. La diffusione di fake news, con la spinta della tecnologia, dei filmati generati con le intelligenze artificiali e di informazioni create per essere il più verosimili possibile, ci sta sfuggendo di mano – o meglio, forse ci è già largamente sfuggita – anche perché, senza un’educazione che ci permetta di dubitare prima di tutto di noi stessi e poi del mondo, è oggettivamente più facile confermare il nostro credo che metterlo in discussione.

Soprattutto, mi sembra, o almeno così è stato per me, che Una spiegazione per tutto ci pone davanti a uno specchio, perfettamente riflettente, in cui nella realtà delle immagini che ci rimanda troviamo le storture che più ci appartengono, come se l’azione funzionasse al contrario: non è lo specchio che ci deforma, come nei giochi da bambini, siamo noi, da adulti, che deformati, alterati, irriconoscibili nella quotidianità, riusciamo a vederci davvero, integri, solo quando qualcos’altro, qualcun altro, ci rinvia la rappresentazione di ciò che siamo. È una condizione comune, non solo all’Ungheria. È un’Europa unita per immaginazione e desiderio, ma divisa nel reale sentimento di appartenenza quella che sperimentiamo oggi. Io e mio padre, negli scontri, possiamo trasformarci di volta in volta in un vicino, in uno zio, in un politico, in due sconosciuti che commentano un post sui social, finendo per insultarsi. Nessuno di noi è davvero libero da questo meccanismo, è difficile uscirne. Io ci ho provato sui social, ci ho provato a casa, ho accolto l’invito di mia madre: “Non si parla di politica”. Se sotto a un post leggo un commento che so nascere da una fake news o che insulta un determinato gruppo di persone, non mi intrometto più. Ormai salto le sezioni commenti come fosse una disciplina olimpica. Non sono l’unico: avendone perso la capacità trasformativa, evitiamo sempre di più il conflitto a livello sociale. Eppure, non può essere questa la soluzione, perché l’assenza di dialogo non può mai esserlo, né l’incapacità di stare nel confronto. Come ci ricorda Reisz, abbiamo bisogno di un’Europa unita, che sappia parlarsi, perché sì, forse c’è davvero una spiegazione per tutto, ma non è detto che quella giusta sia sempre la nostra.

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