La qualità della rappresentazione delle minoranze nei supporti culturali è uno dei tasselli su cui si gioca la battaglia per l’inclusività. A renderla così importante convergono due effetti. Da un lato il bisogno di ogni persona di sentirsi vista, ascoltata, compresa, e da qui ritratta, per percepire che la propria esistenza non passa inosservata. La ritrosia dei media a mettere in scena la vita delle minoranze, o a farlo attraverso stereotipi, ha effetti molto negativi sulla costruzione della personalità degli individui, soprattutto se bambini, perché provoca una mancanza di autostima che nasce dall’impossibilità di riconoscersi in un prodotto culturale. Dall’altro, emerge la funzione propria dei supporti culturali di modellare e influenzare non solo il modo in cui una persona percepisce sé stessa, ma anche il modo in cui tutte le altre persone percepiscono l’eventuale e determinata minoranza a cui appartiene. Nel 2019, ad esempio, secondo un sondaggio del Public Religion Research Institute, solo il 24% degli americani dichiarava di conoscere personalmente una persona trans. Ciò significa che il restante 76% associava l’esperienza di quella comunità esclusivamente alla rappresentazione diffusa dai media.
Proprio la storia della comunità LGBTQ+ sullo schermo appare come un percorso a ostacoli ancora da terminare. A lungo i personaggi queer sono stati freak, corpi sfruttati per divertire il pubblico e rimarcare l’equazione con ciò che si riteneva essere una malattia mentale e che non poteva essere in alcun modo assimilato alla maschilità. Se gli omosessuali sono sempre e solo la sfranta, la shampista, la checca, il femminiello, le donne trans venivano interpretate da uomini travestiti da donna, a sottolinearne la pretesa impossibilità di appartenere davvero al genere di elezione. In ogni caso erano personaggi “sopra le righe”, come si sente ancora dire spesso, i loro corpi erano i corpi dei cattivi, degli antagonisti, e questo serviva a giustificarne la morte e il martirio. A un certo punto sono stati così tanti i personaggi LGBTQ+ a essere uccisi che lo stesso meccanismo narrativo è diventato un vero e proprio tropo: “Bury your gays”, si diceva, “sotterra i tuoi personaggi queer”. Persone bisessuali, asessuali o intersex erano completamente assenti, mentre alle donne lesbiche venivano destinati la recita in costume, il rapporto intellettuale e platonico, l’amore ridotto all’amicizia.
Tutte queste storie sono state a lungo segnate dall’infelicità, dalla malattia, dall’incapacità di essere accettati da amici, parenti, colleghi e dalla società tutta. L’arco narrativo di un personaggio LGBTQ+ non poteva e non doveva essere felice. Per le donne trans gli stereotipi erano forse ancora più dannosi: se infatti l’omosessualità è stata eliminata dalla lista delle malattie mentali dall’Organizzazione mondiale della sanità nel 1990, per la disforia di genere – la condizione per cui non ci si riconosce nel genere assegnato alla nascita secondo il proprio sesso biologico – si è dovuto aspettare il 2018. Nel frattempo, sul grande schermo e sui media, le persone trans venivano rappresentate come serial killer, sex workers, cadaveri o cadaveri di sex workers, mentre nelle interviste le domande principali vertevano sugli interventi chirurgici, riducendo l’esperienza e il corpo trans al possesso di un certo tipo di genitali.
Se oggi la rappresentazione e l’inclusione delle persone trans nel settore cinematografico sta lentamente migliorando grazie a prodotti come Tangerine (2015), Una donna fantastica (2018) e Pose (2018), guardando indietro non sono molti i film che hanno cercato di scostarsi da un certo tipo di narrazione. Nel 2005, però, molto prima che le istanze della comunità trans entrassero finalmente nel dibattito pubblico, possiamo dire che almeno un film ci ha provato, e riuscendoci: Transamerica.
Opera prima dello sceneggiatore e regista Duncan Tucker, Transamerica nasce da una conversazione che Tucker ebbe con l’amica e scrittrice Katherine Connella, in cui lei fece coming out come persona intersessuale. “All’epoca molte persone non sapevano cosa significasse essere una persona intersex o avevano forti pregiudizi a riguardo, quindi per me era più facile identificarmi come una donna trans”, racconta Connella. “Ciò in cui credo di aver ispirato Duncan è stato il desiderio di voler provare a mettersi nei panni di una persona trans per capire cosa vive”.
I panni di Transamerica sono quelli di Sabrina Osbourne, Bree per gli amici, una donna trans in procinto di effettuare l’operazione chirurgica di riassegnazione del sesso. Una telefonata improvvisa da parte di un certo Toby Wilkins, rinchiuso in un carcere minorile, le farà però scoprire di avere un figlio, con cui intraprenderà un viaggio attraverso l’America e dentro sé stessa, come vuole la tradizione dei road movie. A impersonarla è Felicity Huffman, al tempo nel pieno dell’ascesa con il personaggio della casalinga disperata Lynette Scavo, che per il ruolo venne candidata all’Oscar come miglior attrice protagonista e vinse il Golden Globe per la stessa categoria, apprezzata soprattutto per il suo lavoro espressivo, in particolare sul volto, valorizzato dagli insistenti primi piani capaci di catturarne la più piccola variazione, in contrasto alla rigidità del resto del corpo.
Bree, infatti, cerca di aderire quanto più possibile allo stereotipo di riferimento di femminilità che più l’ha segnata: la madre, con cui a causa della sua transfobia non ha più rapporti, tanto da raccontare una versione alternativa della realtà in cui i genitori sono entrambi morti. La sua femminilità è cruda, artificiale, esasperata. I suoi atteggiamenti spesso rigidi. Il colore degli abiti è il rosa, come a voler imporre all’esterno il ruolo di donna che la società non le ha ancora riconosciuto. Uno dei temi che traspare principalmente dal film è infatti l’estenuante imposizione sulle donne trans di dover rispettare elevati standard femminili per poter essere riconosciute come tali. Ciò le spinge ad adattarsi a canoni di bellezza binari, ma l’essere una donna trans non si definisce a partire dal tradimento della maschilità. Non per tutte almeno. “Non trova curioso che la chirurgia possa curare un disturbo mentale?”, commenta ironicamente la protagonista. Bree non vive in un mondo lontano da quello degli spettatori, né viene presentata come una femme fatale: è una donna che si barcamena fra due lavori, che fa fatica a pagare le spese di transizione, che ha talmente un aspetto da madre di famiglia da poter passare per una missionaria cristiana quando si presenta sotto mentite spoglie al figlio Toby.
“Bree è una di noi”, commentava l’attivista e scrittrice Monica J. Romano nella recensione per Crisalide – Azione trans, una delle più importanti associazioni italiane oggi non più esistente. A riguardarlo oggi, dopo quindici anni, il film presenta sì alcune problematiche, come quelli che con il tempo sono diventati veri e propri stereotipi della narrazione sulle persone trans o l’assenza di un’attrice trans a interpretare il ruolo della protagonista, ma a essere importante è il contesto in cui l’opera uscì per la prima volta. “Amai molto Transamerica perché nel 2006, quando uscì in Italia, l’immaginario collettivo legato alle identità trans era molto negativizzante, strettamente legato alla prostituzione, almeno nel nostro Paese, e non c’erano molte alternative”, commenta Romano a The Vision. “Erano diverse le lotte della comunità e la comunità stessa, perché all’epoca non avevano preso piede le istanze sulle persone gender non-conforming o sul binarismo di genere, che invece oggi abbiamo maturato con più consapevolezza. Bree era una donna intelligente, colta, con una condizione lavorativa sì precaria ma realizzata, che contribuì a portare un’immagine diversa rispetto a quella che fino a quel momento era stata fatta delle identità trans”. A essere diversa non era solo la comunità trans, ma anche la società, e rileggendo le recensioni uscite sui principali giornali internazionali è evidente come all’epoca il vocabolario per parlare correttamente di determinate istanze fosse completamente assente dal dibattito pubblico. Si finiva per offendere le persone trans o fare misgendering anche semplicemente cercando di attirare l’attenzione su quanto il film fosse importante per la loro rappresentazione. Oggi, che per scoprire le parole e i modi corretti da usare per parlare delle persone trans basta qualche secondo sui motori di ricerca, di scuse non ne esistono più molte.
Il racconto del road movie, con punte ironiche, surreali e buffe, si allontana dal voyeurismo e dalla morbosità con cui le storie sulla comunità trans sono state spesso raccontate, rendendo centrale alla storia non tanto il percorso di transizione di Bree, quanto i legami familiari e il conflitto genitori-figli. È il rapporto con Toby, infatti, a far scoprire a Bree di essere pronta a ricoprire un nuovo ruolo nel mondo, ed è la strada che percorrono lungo il loro viaggio a offrire la possibilità a incontri che altrimenti non avrebbero mai avuto luogo. Alcuni di questi mostrano spazi in cui viene riconosciuta la complessità dell’espressione di sé, come quando, ospiti a Dallas da Mary Ellen, un’amica di Bree, i due protagonisti si ritrovano in una riunione del “Comitato dell’Orgoglio di Genere che organizza una crociera ai Caraibi per il week-end di fine febbraio!”, in cui si parla liberamente di sesso, genere e sessualità. Altri, invece, servono a evidenziare la percezione che la società ha del genere, riflessa nei moti interiori di Bree. È il caso della visita a casa dei genitori, necessaria per poter chiedere in prestito i soldi per l’intervento chirurgico, in cui la madre di Bree prima si rifiuta di aprirle la porta e poi la accoglie in casa una volta scoperto di avere un nipote. Qui, le due donne si scoprono più simili di quanto si aspettassero, tanto da vestire negli stessi toni pastello e da assumere gli stessi ormoni.
Transamerica ha avuto il merito di esporre la complessa natura del genere e dell’espressione di sé – con cui una persona aderisce o rifiuta certe performance attese dalla società – prima ancora che il tema diventasse centrale nel dibattito come oggi. Invece di dare una rappresentazione generica dell’essere trans, ha raccontato una storia particolare, che diventa universale non nell’identità di genere della protagonista, ma nel suo essere genitore, nel bisogno di trovare il proprio posto nel mondo. Come spiega il regista, “Il film non riguarda l’essere trans, ma la crescita. Si tratta di trovare se stessi e imparare ad amarsi, ad accettarsi. E attraverso questo processo, diventare capaci di amare gli altri”. Oggi che il vocabolario e gli strumenti che abbiamo a disposizione per parlare e ascoltare la comunità trans sono aumentati, riguardare Transamerica ci offre allora uno spunto per cogliere i passi in avanti che abbiamo fatto come individui e come società, quelli che al tempo stesso non abbiamo fatto e quelli che potremmo ancora compiere. E soprattutto questo film ci ricorda che le storie che raccontano l’esperienza della comunità LGBTQ+ non devono per forza avere a che fare col dolore, perché la felicità può essere di casa ovunque.