I racconti di formazione, nel cinema come nella letteratura, hanno sempre occupato un ruolo speciale. Forse grazie alla loro natura per definizione educativa, o per la facilità con cui ci immedesimiamo nei protagonisti e nei loro percorsi. Le loro storie ci rappresentano, portandoci a una consapevolezza che all’inizio appare solo come un accenno nascosto, un potenziale latente da coltivare. Quella raggiunta da Joshua e Benjamin Israel, i due gemelli protagonisti de La timidezza delle chiome – il docufilm di Valentina Bertani presentato quest’anno alle Giornate degli Autori della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – ha però qualcosa in più, che va oltre il senso stesso della crescita personale e che si è trasformato in un’opportunità anche per la regista che li ha diretti nei cinque anni di lavorazione di questo progetto. Opportunità nata per caso, che Bertani ha letteralmente incontrato camminando per le strade di Milano, incrociando per la prima volta Joshua e Benjamin e vedendo immediatamente in loro una storia che desiderava scoprire e raccontare.
Benji e Joshua sono due gemelli omozigoti di origine ebraica con una disabilità intellettiva. A differenza dei loro coetanei, i due diciannovenni non riescono a pianificare il futuro e vivono in una sensazione d’incertezza che si scontra però con il loro grande carisma e la loro attitudine ad assaporare ogni momento della vita, come viene mostrato fin dalle prime immagini del film: il costante senso di sfida e competizione fraterna che vivono anche nelle piccole cose, la passione per la musica e lo sport, il tifo per la Roma, la voglia di avere una relazione seria, la scoperta del sesso. Vivere con una disabilità come la loro, soprattutto a quell’età già di per sé molto delicata e complessa, non è per niente facile: i due lo sanno e lo percepiscono nella loro quotidianità, nelle loro amicizie ed esperienze personali. Sentirsi esclusi è una condizione complicata con cui confrontarsi, ma i due hanno imparato e non venirne influenzati e così ne soffrono meno il peso. Questa capacità dona una grande forza ai ragazzi, dando loro la spinta per affrontare i tanti limiti imposti dalla nostra società, senza il timore di assecondare gli altri, rompendo gli schemi e facendo ciò che li rende felici, non ciò che il mondo si aspetterebbe da loro.
L’opera prima della regista mantovana porta sul grande schermo uno stralcio di vita di questi due ragazzi, ripercorrendo un periodo in cui è compreso anche il primo lockdown. Momenti, immagini, dialoghi ed episodi non rischiano mai di sfociare nell’abilismo, pericolo che viene sfiorato molto spesso quando si racconta tuttora la disabilità. Il racconto di Bertani riesce a mettere in scena una fotografia singolare attraverso una forma di narrazione caratterizzata dalla neutralità di giudizio e da un limpido realismo. L’indole dei protagonisti sembra permettere loro di vivere a pieno questa esperienza, mostrandosi senza filtri e al tempo stesso scoprendo qualcosa di sé.
Il documentario è inoltre arricchito dalla presenza costante della famiglia di Joshua e Benjamin, in particolare dei loro genitori, Sergio e Monica, che a loro volta si sono prestati a partecipare al film e che se da un lato appaiono come un solido punto di riferimento per i figli, dall’altro non si dimostrano mai invadenti, a differenza di certe figure genitoriali. Incoraggiano infatti i figli nelle loro scelte sul futuro e al contempo pongono dei chiari paletti con cui i due possono confrontarsi, decidendo indipendentemente da che parte stare, anzi, essendo invitati a prendere posizione, ma solo se frutto di una concreta consapevolezza, senza l’assillo della fretta o dell’imperativo sociale. Questo approccio risulta ancora più netto quando Joshua e Benjamin prendono la loro decisione più importante, proprio alla fine del film, che li porterà a dividersi e ad accettare definitivamente la possibilità di crescere senza il costante supporto dell’altro. I pensieri sul domani che accompagnano i gemelli, pur incerti e pieni di dubbi, vengono infatti diradati dall’impostazione educativa dei loro genitori, ma anche dal loro legame inossidabile. I due ragazzi, infatti, non possono fare a meno l’uno dell’altro e compiono insieme la quasi totalità delle loro esperienze, condividendo ogni aspetto della loro vita. Ed è proprio questa la sfida che in realtà sono chiamati ad affrontare, prima dell’accoglienza nella società, dell’integrazione nel mondo, dell’eventuale ricerca dell’amore: la consapevolezza di poter esistere anche separati, senza per forza aver bisogno l’uno dell’altro, trovando il coraggio e la forza di essere diversi e di intraprendere percorsi distinti e scelte individuali, con una visione più matura. Sergio e Monica veicolano un messaggio estremamente positivo in questo frangente, essendo presenti ma sapendo stare in disparte, stimolando giorno dopo giorno l’emancipazione dei due figli, seppur mantenendo quella forma di attenzione e di ascolto che conferisce un saldo equilibrio all’intera famiglia.
L’obiettività dello sguardo della regista sulla storia, con la tipica forza del racconto documentaristico, porta lo spettatore a notare i particolari più piccoli e fondamentali delle esperienze dei ragazzi prima e dopo la fine delle superiori, durante una vacanza in campeggio, alle serate al luna park o alle partite di basket o ai videogiochi, ma anche le prime responsabilità, come le guide per prendere la patente, coinvolgendolo con empatia nel loro percorso di crescita verso la vita adulta. Durante il film emergono con semplicità i punti di forza e le fragilità di Joshua e Benjamin, distribuite attraverso piccoli episodi di vita quotidiana che compongono un puzzle di diverse emozioni, sempre condivise, e una limpida complicità, sia tra loro che con la macchina da presa e quindi con lo spettatore, che si sente così accolto e coinvolto in un mondo che riesce a fare proprio in ogni piccolo particolare, con le sue sfaccettature più grottesche e le sue sincere volgarità, invitando a mostrarsi a sua volta per com’è.
La diversità, in questo film, viene rappresentata in quanto tale, attraverso un oggettivo racconto del reale, che emerge ancora di più quando i gemelli caricano le loro reazioni sapendo di essere ripresi, come per esempio nella scena in cui Joshua inveisce contro sua madre perché non approva una festa in piscina per il loro ventesimo compleanno. L’opera – attentamente sceneggiata dalla stessa Bertani, insieme a Irene Pollini Giolai, Alessia Rotondo ed Emanuele Milasi – è condotta con il desiderio di raccontare prima di tutto una storia universale e non una storia sulla disabilità, e appare quindi come un vero e proprio racconto di formazione che non banalizza o sfrutta mai in maniera retorica il tema che tratta, ma lo avvicina senza pregiudizi e buonismi, con una forte libertà espressiva. Proprio come l’ambiente familiare costruito da Monica e Sergio, che per prima cosa supporta i ragazzi, ma al tempo stesso quando serve li mette in riga, come appare chiaro, per esempio, quando Sergio scopre che Joshua ha usato la sua carta di credito per acquistare online dell’intimo da donna e dei prodotti da un sexy shop.
Il ritmo con cui la macchina da presa si alterna alle inquadrature da smartphone riassume bene il lungo periodo che la troupe ha trascorso insieme ai gemelli, rendendo con precisione un periodo di girato di ben cinque anni – assieme al successivo salto temporale di dieci mesi – e la metamorfosi che ha portato con sé. In questo contesto, i gemelli entrano spesso in conflitto e le loro due personalità spiccano una di fronte all’altra, evidenziando inevitabili differenze di carattere e di aspirazioni. Le stesse che faranno emergere sempre di più nettamente le loro nuove strade individuali. Col proseguire della storia, infatti, ci si rende conto che due modi di fare ugualmente carismatici nascondono due diverse personalità che nel profondo sono ben distinte e interagiscono in modo simile agli alberi che crescono vicini. Durante lo sviluppo delle rispettive chiome, infatti, gli alberi non si toccano mai, probabilmente per evitare di farsi ombra a vicenda e creando un effetto visivo molto suggestivo, che ricorda proprio una sorta di mosaico spontaneo, un puzzle naturale. Questo fenomeno biologico, non ancora spiegato del tutto dalla scienza, viene denominato, appunto, “timidezza delle chiome”.
La ricerca della propria libertà personale, della possibilità di crescere lasciando spazio anche agli altri, per quanto vicini e attaccati a noi, rende il processo un rito di riconoscimento reciproco, che porta i due protagonisti non solo a compiere scelte che li fortificheranno entrambi, ma anche a farsi carico di una responsabilità ancora più grande, forse la più grande di tutte prima della soddisfazione della realizzazione individuale: una sensazione nuova, nata proprio grazie al compimento di un percorso di crescita e in un certo senso anche grazie al lavoro della regista e degli sceneggiatori, che viene evidenziata attraverso le parole degli stessi gemelli dopo la conclusione del progetto: “Ora ci sentiamo liberi di crescere, finalmente”.