In questi giorni che definire “strani” è decisamente riduttivo, trovare piccoli momenti di svago che riescano a distrarre le nostre menti sature di informazioni, aggiornamenti, bollettini e preoccupazioni per il futuro – oltre che paura per il presente – non è facile. Per quanto mi riguarda, guardare meme su internet, cosa che faccio anche quando non c’è una pandemia in corso, è un’attività che per qualche istante riesce a farmi distrarre dalla gravità di ciò che sta succedendo, ricordandomi quanto l’ironia possa essere una salvezza in momenti difficili. Di recente ne ho visto uno che mi ha fatto particolarmente ridere, e non solo perché riguarda ciò che stiamo vivendo: il meme in questione ipotizza che qualcuno si sia smarrito nel bosco a gennaio e che abbia avuto modo di ricaricare il telefono solo adesso, per poi chiedersi “Cosa mi sono perso?”. Descrivere gli ultimi quattro mesi sul pianeta Terra senza sembrare uno sceneggiatore di disaster movie non è semplice, ma la parte più divertente della risposta all’ipotetica domanda del meme è la conclusione, ossia l’arrivo nelle nostre vite in quarantena di un personaggio allucinante come il protagonista della serie documentario di Netflix Tiger King.
Immaginarsi che l’inizio del secondo decennio del Ventunesimo secolo sarebbe stato fatto di miliardi di persone era molto difficile; aggiungere a questo quadro già piuttosto surreale di per sé anche l’enorme successo – e coesione di spettatori – che ha creato in un momento simile la storia di un redneck omosessuale poligamo dell’Oklahoma con la fissa per le tigri era decisamente impossibile. Era da un po’ di tempo che Netflix non distribuiva un prodotto davvero innovativo e unico. Il fatto che Tiger King sia uscito proprio in questo momento in cui tutti abbiamo molto più tempo per lo streaming, di certo ha contribuito alla viralità, ma non nega i suoi meriti. Tiger King, che piaccia o meno, è un documentario che ribalta le carte sul tavolo dell’entertainment e lo fa non solo per l’assurdità a tratti surreale delle storie che racconta, ma anche perché ci pone di fronte a un pezzo di Stati Uniti che spesso tendiamo a dimenticare e che, sorpresa, è invece la ragione per cui personaggi come Donald Trump arrivano a diventare Presidente del Paese. Le sette puntate di questa docuserie, infatti, contengono alcune delle caratteristiche più emblematiche e contraddittorie della cultura statunitense, solo che, nel momento in cui vengono rappresentate da una serie di plot line ai limiti del visionario, diventano tanto paradigmatiche da sembrare finte. Invece, chi ha visto anche solo il trailer o un semplice meme che riguardi le avventure del protagonista Joe Exotic e del suo universo grottesco si trova davanti al fatto che non si tratta di finzione. Tiger King mostra realtà difficile da accettare come vera, ma proprio per questa così esemplificativa di un Paese che davanti a un’emergenza sanitaria come la diffusione del Coronavirus sceglie di depredare le scorte nazionali di carta igienica e contemporaneamente anche quelle di armi da fuoco. Come si dice, ‘Murica.
La trama inestricabile e stratificata fino all’inverosimile di Tiger King – Murder, Mayhem and Madness – questo il titolo completo – è un piccolo miracolo realizzato sotto il segno di quel principio che negli ultimi anni è diventato una delle parole più inflazionate negli studi di tatuatori: serendipità. Due registi, Eric Goode e Rebecca Chaiklin – anche se nella serie vediamo apparire solo il primo – cinque anni fa stavano filmando un documentario sul commercio di rettili negli Stati Uniti e per puro caso si sono trovati di fronte a un altro fenomeno inspiegabile ed estremamente diffuso, ossia il giro di rivendite e allevamenti di felini, ribattezzati in inglese come “big cats”. Da questo punto di partenza scoperto per caso comincia il racconto di alcuni personaggi e delle loro rispettive attività nel campo delle tigri e dei leoni, che si rivelano essere parte di un sistema che definire complesso è un eufemismo. In Tiger King, infatti, a dettare le regole dello svolgimento della trama – che già da sola basta a fornire ottimo materiale per almeno una decina di spin-off – sono i macro-temi che fanno da sottofondo costante alla narrazione, legati tra loro dalla follia che li accomuna e che rende possibile questo concentrato di paradosso all’americana.
Il primo di questi leitmotiv è lo spettacolo inteso come una perenne performance di vita, elemento che in ogni secondo di questo documentario ci fa domandare come sia possibile che queste persone abbiano scelto di costruire la propria vita su questo flusso indomabile di assurdità fatta di animali esotici, droga, assassini, vendette, sette, campagne politiche fondate sul nulla. Non mancano le armi e il rapporto inconcepibile – ma reale – che lega i protagonisti all’idea data per scontata di farsi giustizia da sé, cosa che li aliena in modo quasi totale da qualsiasi concezione di legge superiore a quella dettata da loro stessi, di Stato e di regole condivise. Domina anche il legame morboso che c’è tra i protagonisti di Tiger King e i soldi, il guadagno a tutti i costi, l’avidità spacciata per beneficenza, l’idea data per scontata che prima di tutto venga il profitto, non solo a discapito di esseri viventi che dovrebbero stare ovunque tranne che in parchi a tema, ma anche del genere umano. Tutti questi ingredienti messi insieme creano un cocktail di verità che permette a un documentario su un allevatore di tigri con il mullet di diventare una parata di carri allegorici statunitensi in grado di sconvolgere soprattutto noi spettatori europei.
Oltre a trame e temi che si articolano in questa composizione tanto varia e imprevedibile da rendere Tiger King una delle poche serie in circolazione non spoilerabili, anche i personaggi giocano un ruolo centrale in questo spettacolo che va oltre il senso stesso dell’aggettivo “circense”. A partire proprio dal protagonista attorno a cui si struttura la storia principale, Joseph Allen Maldonado-Passage-George Schreibvogel (questo il nome completo di Joe Exotic), un uomo di cinquantasette anni che tra le altre cose al momento è anche in isolamento per un sospetto di Coronavirus – giusto per attualizzare questo show ancora di più – e che ha nel suo curriculum una carriera da cantante country, una televisione che andava in onda in streaming con le sue prodezze nello zoo felino che aveva fondato – e popolato di avanzi di galera come un circo di freak –, un percorso da candidato alle elezioni governative dell’Oklahoma, un matrimonio poligamo con ragazzi più giovani di trent’anni, una spiccata propensione per l’uso improprio delle armi da fuoco e un’evidente dipendenza da metanfetamine.
Dall’altro lato della barricata si trova la sua acerrima nemica, nonché fonte di tutte le disgrazie che si succedono nei cinque anni di riprese e causa principale dell’incarcerazione di Joe Exotic, Carole Baskin. Con il suo Big Cat Rescue la donna fattura milioni di dollari e salva gli animali dai maltrattamenti delle gabbie mettendoli in altre gabbie, ma è anche sospettata di aver dato suo marito in pasto alle tigri: una sorta di versione premium della cat lady che, ironia della sorte, è anche allergica ai gatti e indossa solo abiti rigorosamente maculati mentre gestisce il suo impero fondato sul patrimonio del consorte scomparso. Non si può tralasciare anche Doc Antle, un altro allevatore di big cats e animali esotici che, per quanto mi riguarda, merita lo scettro di personaggio più inquietante in tutto Tiger King e che in assoluto mi ha più sconvolta durante tutto il racconto proprio per la sua apparente normalità e trasparenza. L’allevatore, infatti, oltre a essere uno dei principali fornitori di tigri e leoni per Hollywood e celebrità varie come Britney Spears – e quindi ben inserito nel mondo dello spettacolo – è anche il proprietario di un rifugio-zoo in cui convive con decine di donne-concubine, tutte parte di una strana dinamica da setta in cui lui è il santone illuminato, come testimoniato da una ragazza che è stata diversi anni in questo Myrtle Beach Safari. Una parte della serie è dedicata anche a Jeff Lowe, socio in affari di Joe Exotic noto per la pratica di infilare cuccioli di tigre dentro ai trolley e portarli in lussuosi alberghi di Las Vegas per rimorchiare donne.
Tiger King è un’opera corale, e come tutti i racconti stratificati non sarebbe quello che è senza il supporto prezioso della mole di assurdi personaggi minori: il ragazzo che si ritrova da addetto ai proiettili del reparto armi di Walmart a fare da campaign manager di Joe Exotic definendo questa esperienza come la cosa peggiore della sua vita, o l’allevatore di animali esotici sudamericano che infilava la cocaina nei pitoni per contrabbandarla. A questi si aggiungono gli impiegati dello zoo, chi senza gambe, chi senza mani ma tutti rigorosamente con precedenti penali o dipendenze da sostanze stupefacenti che Joe Exotic ha usato a suo vantaggio, come nel caso dei suoi ex mariti.
Tiger King non è solo la storia di alcune persone animate da una malsana passione per tigri e altri felini, ma un vero e proprio affresco degli Stati Uniti sommersi, distanti anni luce dal filtro borghese del progresso e della civiltà con cui vengono di norma raccontati nel cinema e nelle serie tv. La versione più selvaggia e paradossale – ma anche estremamente reale – di un Paese che si fonda anche su principi animaleschi e predatori, molto più esotici e perturbanti di qualsiasi documentario di Discovery Channel. In questa docuserie non c’è nulla di confortevole né di armonico, nessun manicheismo stereotipato in lotte tra bene e male, ma solo una gigantesca corsa all’oro in versione contemporanea in cui l’unica cosa che conta è accaparrarsi la pepita più grossa. Gli Stati Uniti raccontati nello stesso modo in cui verrebbe descritta la natura vendicativa e spietata della giungla sono un ottimo promemoria del fatto che, dopotutto, per quanto civili e progrediti continuiamo a convivere con una natura bestiale che fingiamo di nascondere ma siamo ben lontani dall’aver estinto.