Tutti noi abbiamo sognato almeno una volta nella vita di essere qualcun altro. O meglio, magari non proprio qualcun altro, ma che alcune caratteristiche apparentemente irraggiungibili che vedevamo in un’altra persona facessero parte di noi, si integrassero nel nostro Io facendoci essere proprio come desideravamo, come se fossimo irrimediabilmente e perennemente mancanti di qualcosa, di una certa qualità. È su questa tensione atavica, che poi a ben vedere, ci porta anche ad evolverci e a cambiare, che fa perno tutta la retorica attuale del diventare la versione migliore di noi stessi, in cui peraltro non è chiaro se si debba tendere a qualcosa situato nel futuro, o nel passato, il fantomatico “autentico sé” – che semplicemente è qualcosa che non può esistere, dato che il nostro sé è tale proprio per via delle esperienze che ha vissuto e delle impronte che gli ha lasciato l’incontro-scontro col mondo. È su questo filone che si innesta la storia di The Substance, film di Coralie Fargeat vincitore come miglior sceneggiatura al Festival di Cannes di quest’anno e distribuito da I Wonder Pictures nelle sale dal 30 ottobre. “Hai mai sognato una versione migliore di te? Sei sempre tu. Semplicemente, migliore, in ogni senso. Davvero. Devo provare questo prodotto rivoluzionario”. The Substance, appunto, un farmaco che “ti cambia la vita”, generando una nuova versione di te, più giovane, bella, perfetta, con cui dividere il tuo tempo, una settimana a testa.
Uno dei temi principali del contemporaneo, oltre alla positività tossica e alla ricerca di un canone estetico digitalizzato impossibile da raggiungere nella realtà se non facendo un pesato ricorso alla chirurgia estetica, ma che si interseca con questi, è quello dell’invecchiamento. La nostra aspettativa media di vita si è allungata di molti decenni rispetto al passato, e questo dovrebbe essere qualcosa di buono, ma se viviamo più a lungo è chiaro che vivremo una parte sempre più importante della nostra vita in quella che viene definita terza età, insomma, da vecchi e soprattutto da vecchie, andando incontro a un profondo cambiamento del nostro corpo e delle sue “performance”, così come a una serie di malattie degenerative che un tempo, morendo prima, non avevano il tempo di manifestarsi e di insorgere.
Eppure, prima della prevenzione legata alla nostra salute, ciò che ci preme è prevenire l’invecchiamento estetico. Per farlo, in teoria, e sono tutti d’accordo, è necessario coltivare uno stile di vita sano, il ché nella stragrande maggioranza dei casi significa cambiare le nostre abitudini. Secondo alcuni libri basterebbero solo venti giorni, eppure è più facile a dirsi che a farsi. Cambiare è difficilissimo. Lo sanno bene i medici, che infatti, hanno ben chiaro che per ottenere risultati su larga scala è molto più facile affidarsi a dei farmaci – anche se magari con gravi effetti collaterali – piuttosto che aspettare che i pazienti attuino un cambiamento, solido e soprattutto duraturo. È come se fossimo dipendenti dalla nostre “cattive” abitudini. Il farmaco quindi, The Substance, ci trasforma, come una pozione o una formula magica. Semplice, no?
Tutto ciò impatta in maniera ancor più invasiva sul corpo femmile. Corpo-oggetto per eccellenza. Corpo succube del body-scanning, non quello che si fa meditando, ma quello estetico, lo sguardo autocritico che le donne sono state educate a coltivare, che spesso si rivolgono inconsapevolmente ogni volta che si guardano, dissociandosi, appunto, come la protagonista del film, interpretata da una pazzesca Demi Moore nella sua versione cinquantenne e nella sua versione “perfezionata” da un’incredibile Margaret Qualley, che viene dall’esperienza di un altro grande prodotto cinematografico femminsta come la serie MAID, così come da Povere creature. “Ricordati che tu sei una,” recita lo slogan stampato sui cartoncini che accompagnano The Substance.
Ma questo per una donna rischia di non essere mai vero, proprio per questa costante autoanalisi estetica. Il corpo è un dispositivo di seduzione, erotico anche quando non consuma rapporti, anche quando non ne gode. “[…] Noi, in quanto donne, siamo portate a pensare di non avere scelta se non essere perfette/sexy/sorridenti/magre/giovani/belle per avere valore nella società,” dichiara la regista. E non importa quanto siamo istruite, intelligenti, indipendenti, il nostro sguardo è stato distorto chirurgicamente fin da quando eravamo piccole, sfuggire a questa logica risulta spesso impossibile. A darci forma è la fantasia dell’Altro, a cui obbedienti rispondiamo, che a volte confondiamo per la nostra. Solo se siamo magre, giovani, sexy ci meritiamo amore, successo, felicità. E ovviamente non è così.
Ma noi, giustamente, vogliamo essere viste, e – meno giustamente – siamo disposte a fare qualsiasi cosa per esserlo. Fageat con il suo film solleva la paura di essere cancellate dalla società, escluse, ignorate, ricacciate agli estremi dell’invisibile, senza diritti, senza potere. Perché quando smettiamo di essere considerate, e apprezzate, per la nostra capacità di rispondere a dei canoni sempre più assurdi e irraggiungibili, essendo state abituate a esistere sempre e solo negli occhi degli altri, del pubblico, perdiamo consistenza, valore. “Credo fermamente che questa sia la nostra prigione. Una prigione che la società ci ha costruito intorno e che è diventata uno strumento potentissimo di controllo e dominio. Una prigione che crediamo di volere,” continua la regista. “Non conosco nemmeno una donna che non abbia una relazione complicata col suo corpo, che non abbia avuto un disturbo alimentare in qualche momento della propria vita, che non abbia odiato ardentemente il proprio corpo e sé stessa perché non è come la società le dice di essere. […] Alla soglia dei miei 40 anni mi ha pervaso una grande tristezza perché pensavo che fosse la fine. Che la mia vita fosse finita. Non sarei più piaciuta a nessuno, non avrei avuto più alcun valore, nessuno mi avrebbe più amata, notata, trovata interessante. Ero convintissima che a una certa età non avrei avuto più alcun valore. Allo stesso modo in cui, da giovane, ero convintissima che se non avessi avuto un corpo magro e perfetto, non avrei avuto alcun valore. Assurdo, no?”.
Fargeat allora ci disturba, ci caccia fuori dalla nostra zona di comfort, ci segna in maniera altrettanto forte, come a voler tracciare un nuovo solco nella nostra coscienza, una deviazione. Con uno sguardo e delle dinamiche che ricordano il Cronenberg di Inseparabili, ci spinge verso l’eccesso, libera tutti i nostri demoni interiori, come in una sorta di rito ancestrale sguinzaglia – senza pudore né contegno – tutte quelle parti del femminile considerate mostruose dalla società, che siamo state educate a nascondere per essere accettate, benvolute, amate: le imperfezioni, la vecchiaia.
In questo film il corpo femminile viene tiranneggiato (alzando ulteriormente l’asticella rispetto al reale), messo in ridicolo, distrutto, per metterci sotto agli occhi, senza filtri, il modo in cui la società quotidianamente, fin dalle azioni che sembrano più piccole, distrugge le donne, sostenuta da tutto quel complesso sistema di regole che ci hanno convinte subdolamente a seguire. Fargeat ottiene questo risultato immergendosi nello splatter, nell’horror più grottesco e ridicolo, ci mostra attraverso una satira feroce l’assurdità delle imposizioni che facciamo subire al nostro corpo, ridotto a simulacro. Basti pensare a quel filone che va molto di moda di questi tempi sui social, in particolare TikTok, in cui varie influencer, anche giovanissime, mostrano la loro routine di montaggio/smontaggio di ammennicoli per restare in forma mentre dormono: un complesso incastro di oggetti pensati per mantenerci e non farci sciupare dall’abbandono del sonno, come cerotti, pad, maschere, cappucci, gogiere, pancere, reggi-mento, maschere, tappi, bigodini, che a ben vedere si prestano a una quantità di output comici tendente all’infinito, e che sono quanto più lontano dall’eros e dalla vita ci si possa immaginare.
Molti di noi, ma soprattutto molte di noi, si identificano in maniera potente col proprio corpo. E se da un lato è inevitabile farlo, dall’altro è fondamentale imparare a scorgere i confini e le ombre di questa tensione magnetica. Spesso, infatti, non ci identifichiamo nel nostro corpo, ma in un’idea di perfezione fisica che ci è stata inculcata dalla società, in un’immagine, in un fantasma che pare infestarci. E anche quando riusciamo – per caso, fortuna, impegno o sacrificio – a rispondere ai dogmi dell’estetica contemporanea, dobbiamo riconoscere e avere ben chiaro di non essere in salvo, anzi, tutt’altro, lo strappo, la caduta, probabilmente, come mostra alla perfezione Moore, saranno in quel caso ancora più violenti e dolorosi, perché quando inizieremo la nostra trasformazione ci sembrerà di dissolverci, frantumarci, se non ci saremo esercitate prima a essere davvero la versione migliore di noi stesse, non quella che gli altri si aspettano, una versione realmente liberata dalla forma e dal dominio che qualsiasi sguardo ci rimanda, capace di darsi forma da sola, dall’interno, non più in balia di un mondo vittima delle immagini.