Quando, nel 1993, l’universo di Super Mario Bros venne stravolto per essere traslato sul grande schermo in un adattamento diretto da Rocky Morton e Annabel Jankel che riuscì nell’impresa di non piacere né alla critica né al pubblico, in molti non capirono perché. Il gioco aveva venduto milioni di copie, creando uno dei personaggi più riconoscibili della storia, eppure lo stesso non poteva dirsi del film. Era la prima volta nella storia che si cercava di portare un videogame al cinema, e il risultato, se non per gli effetti speciali, fu imbarazzante. Certo, non fu l’unico. Il rapporto tra gaming, serialità e pellicola è sempre stato particolarmente controverso, se non per qualche rara eccezione. Ciò che accade nella maggior parte degli adattamenti, infatti, è che o si esagera, aggiungendo passaggi inverosimili a una storia che magari nel videogioco si sviluppa per dieci minuti, perché le restanti otto ore sei impegnato a sparare, saltare, trovare munizioni, cercare dei medicamenti, capire come andare avanti; o si riprende senza alcun cambiamento, creando un film di due ore e mezza dove l’unico intento è non averne uno – o fare soldi, che è più o meno la stessa cosa. Tutto si riduce alla mancanza di confidenza di registi e produttori con i videogiochi: nonostante il settore valga oltre 300 miliardi di dollari, resta di fatto una “grande nicchia”, il più delle volte sminuita perché considerata da bambini. Comprendere la portata di un videogioco significa non valutarne solo il gameplay, lo storytelling, la qualità della grafica, ma il mutuo scambio tra personaggi e giocatori: mentre vediamo, ascoltiamo e tocchiamo il videogioco, questo vede, ascolta e tocca noi, in una sorta di immedesimazione per cui quella storia è la nostra storia. The Last of Us, la serie tv prodotta da HBO a partire dall’omonimo videogioco e disponibile su SKY e NOW TV, sta finalmente cambiando le cose.
La trama potrebbe sembrare banale e ripetitiva: in un mondo post-apocalittico dove un fungo parassita del genere Cordyceps ha infettato gli esseri umani, prendendone il controllo e trasformandoli in creature mostruose, Joel (Pedro Pascal), un uomo adulto che ha perso la figlia ed è tormentato dal passato, si ritrova costretto ad attraversare gli Stati Uniti per accompagnare Ellie (Bella Ramsey), un’orfana adolescente immune all’infezione, alla ricerca di un team di esperti che, studiandola, potrebbe trovare una cura. Nel 2023, infatti, non solo abbiamo assistito alle più svariate rappresentazioni di contagi e universi catastrofici, da Resident Evil a The Walking Dead, ma abbiamo anche attraversato una pandemia, vivendo in prima persona la paura del lutto, del rischio e della contaminazione. Come accade per le storie migliori, però, non è tanto il cosa a fare la differenza, quanto il come. In una scena dei primi episodi, Joel descrive Ellie non come parte della famiglia, “ma un carico”, da trasportare e consegnare. Il come si concretizza proprio nello stravolgimento di questa affermazione, nel passaggio di Ellie da essere un pacco a venire trattata e sentirsi come una figlia; nel guardare crescere questa cura e compassione reciproca in un mondo dove sarebbe facile farne a meno. The Last of Us è infatti al contempo una storia molto più piccola e più grande del disastro globale in cui esiste: invece di lavorare sullo stereotipo dell’eroe, supera la dicotomia tra bene e male, mettendo in scena degli esseri umani che non devono solo sopravvivere all’infezione da funghi o ai nemici, ma anche fare i conti con le conseguenze delle proprie azioni, portandoci a chiedere, alla fine, se i personaggi che abbiamo tanto imparato ad amare siano davvero meritevoli di quell’affetto, e come e se si possa giustificare tanta violenza, sollevando dubbi etici sulle scelte fatte, o sulla loro assenza.
È una domanda significativa nel contesto in cui viene inserita, e a cui non può esistere una risposta univoca. Nonostante ogni aspetto del videogioco rinforzi la sensazione negativa dei momenti di violenza – il silenzio degli ottimi nascondigli, le urla degli infetti, l’impossibilità di salvarti senza una determinata arma e poi, soprattutto, la sensazione costante di non essere in pericolo solo tu nel personaggio di Joel, ma di non riuscire a proteggere Ellie –, la ripetizione insita nell’azione del giocare – morire, ricominciare, morire, ricominciare – finisce per rendere gli esseri umani degli ostacoli da superare per procedere con la storia. Nella serie tv, ancor di più, la violenza non è mai gratuita, appare anzi sempre pesante, sempre evitabile fino a quando è possibile.
Inoltre, mentre nel gioco quanto accaduto nel resto del mondo poteva essere ricostruito solo attraverso dialoghi parziali e pochi indizi – si sa che tutto ciò che di catastrofico accade nel cinema coinvolge solo gli Stati Uniti –, la serie, nell’incipit di alcuni episodi, si muove liberamente nel tempo e nello spazio. Il grande pregio dell’adattamento televisivo di The Last of Us, infatti, sta nella capacità di mantenerne intatto l’universo d’origine, espandendolo per creare una narrazione più ampia, che superi i limiti imposti da ciò che può essere un videogioco.
L’esempio più chiaro di questa dinamica – ma non l’unico – è il terzo episodio, Long Long Time, in cui gli sceneggiatori, in mezzo a un’apocalisse zombie e solo per permettere a Joel di trovare una batteria per auto funzionante, trovano tutto il tempo per coltivare e sviluppare una storia d’amore queer – a conferma di quanto già la rappresentazione di The Last of Us fosse importante anche per la comunità LGBTQ+. Se nella versione del videogioco Bill lascia intendere solo di sfuggita di aver avuto una relazione con un uomo, la serie tv la fa vivere pienamente, in uno degli episodi migliori non solo del progetto in cui è contenuta, ma della serialità recente. “Prestare attenzione alle cose è il modo in cui mostriamo amore”, dice Bill (Nick Offerman) a Frank (Murray Bartlett) in una scena del film. Sono due uomini di mezza età che si prendono cura l’uno dell’altro in uno scambio reciproco che mostra come non esista un limite per cambiare idea sul mondo o per trovare la forza di salvare le persone che per noi vale la pena salvare. Una scelta non comune, considerata la scarsa raffigurazione e importanza data alla sessualità delle persone mature nel cinema e nella serialità mainstream. Viviamo, così, il modo in cui si sono innamorati, le lotte a cui sono costretti per poter provare le gioie intense che derivano dall’amore, i dolori che nascono dai sentimenti intensi. Mentre il mondo attorno va a farsi fottere, Bill e Frank trovano la felicità nell’assaggiare le fragole che sorprendentemente sono riuscite a crescere nel loro orto. “È come se il montaggio di apertura del film Up fosse esteso a circa 45 minuti e poi calato nel mezzo di World War Z”, ha sintetizzato il New York Times.
Tutto ciò che accade in The Last of Us, dall’inizio alla fine, torna prepotentemente al significato più intenso di us, cioè noi. Un termine che non denota genericamente una specie – quella umana – o una condizione – quella di superstiti –, ma che richiama la vicinanza, la condivisione, la famiglia. “Cosa sogni di fare quando tutto questo sarà finito?”. Qualunque cosa sia, la farò con te, è la risposta che sembra aleggiare continuamente nell’aria. Un noi che condensa tutta la fatica, l’egoismo, la contentezza, la commozione che servono per salvaguardarlo. Perché anche quando tutto attorno viene distrutto, è a questo che si riduce l’importanza dei nostri gesti: prenderci cura, costi quel che costi.