Lo scorso 26 febbraio la National Intelligence statunitense ha diffuso un report secondo il quale il mandante dell’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi sarebbe Mohammad Bin Salman, principe ereditario del Regno dell’Arabia Saudita. L’intelligence statunitense sostiene che quanto successo nell’ambasciata saudita di Istanbul il 2 ottobre 2018 sarebbe avvenuto su ordine di un principe che dal 2017 esercita un controllo assoluto sulle organizzazioni di sicurezza e intelligence del suo Paese e che ha più volte impiegato la violenza nel tentativo di eliminare i dissidenti in patria e all’estero. Già nel sommario, il report definisce qualsiasi ricostruzione alternativa “altamente improbabile”.
Il film documentario The Dissident è uscito in Italia due settimane prima che l’intelligence statunitense confermasse sospetti diffusissimi sin dal giorno della scomparsa di Khashoggi. Anche nel nostro Paese il film ha dovuto superare l’ostacolo della distribuzione: le maggiori piattaforme di streaming hanno mostrato scarso interesse, costringendo il regista premio Oscar Bryan Fogel a una questua di otto mesi prima di rassegnarsi alla distribuzione on-demand. In un’intervista a The Hollywood Reporter il regista ha detto che media companies e distributori gli hanno fatto capire che “non avevano intenzione di toccare questo film”. In Italia il film può essere visto su MioCinema per otto euro.
La storia di Khashoggi è stata finora quella della sua morte, tanto efferata nell’esecuzione quanto metodica nella pianificazione. Di quanto successo il 2 ottobre 2018 nella sala conferenze dell’ambasciata saudita di Istanbul resta una registrazione audio che conserva ogni dettaglio dell’omicidio. Irfan Fidal, procuratore capo di Istanbul, nel film sostiene che la prima testata giornalistica alla quale le autorità turche passarono la notizia della morte di Khashoggi decise di non pubblicare la storia perché le circostanze erano “inverosimili”, e la brutalità dell’omicidio tale da non risultare credibile. Fogel ha dichiarato che la polizia turca ha messo a sua disposizione una copia della registrazione audio, ma lui ha rifiutato perché “Non abbiamo bisogno di ascoltare quella registrazione”.
Il rifiuto del regista di concentrarsi sugli ultimi sette minuti della vita di Khashoggi fa di The Dissident un epitaffio mancato: il film non dipinge un santino, non racconta un martire della libertà di parola né costruisce un posticcio patriota in esilio. Il titolo del film è in realtà il suo finale, il terzo atto di un’esistenza contraddittoria e conflittuale: Khashoggi è stato prima un sostenitore della monarchia saudita, poi un critico che si augurava riforme, infine un dissidente. Un uomo diviso tra la speranza dell’idealista e il realismo del giornalista: fu il primo a credere nella volontà riformatrice espressa dal piano Vision 2030 di Bin Salman e fu il primo ad ammetterne la trasformazione nell’espressione della volontà di potenza di un autocrate.
Khashoggi era un uomo spaesato, costretto a 60 anni a lasciare una vita e a cominciarne un’altra: “Quando anni fa furono arrestati diversi amici vissi un momento doloroso. Non dissi nulla. Non volevo perdere lavoro e libertà. Temevo per la mia famiglia. Stavolta ho fatto una scelta diversa. Ho lasciato la mia casa, il mio lavoro e la mia famiglia e ho deciso di alzare la voce”, scrisse nel suo primo pezzo sul Washington Post del settembre 2017. A cambiare la sua opinione sul futuro del Medio Oriente fu la Primavera Araba, il cambio di corso mai realizzato, impedito da controrivoluzioni che hanno stravolto la regione per poi mantenere lo status quo: un progetto che ha al suo centro il regime super conservatore di Riyad.
The Dissident è quindi la storia di un uomo che faticava a rimettere insieme i pezzi della sua esistenza, a trovare un compromesso tra il Paese in cui avrebbe voluto vivere e il prezzo da pagare e l’impatto sulla sua esistenza: “Noi sauditi ci meritiamo di meglio”, scriveva. Rifiutava di essere considerato un esule o un rifugiato: la sua permanenza negli Stati Uniti era un viaggio (“temporary trip”), un momento che sarebbe finito con il suo ritorno a casa. Proprio la volontà di rimettere insieme i pezzi della sua vita è stata la debolezza sfruttata dai suoi assassini il 2 ottobre 2018, quando Khashoggi si trovava nell’ambasciata saudita di Istanbul per ottenere alcuni documenti necessari per sposare la fidanzata Hatice Cengiz.
Il Khashoggi che emerge da questo film è una persona vittima delle scelte fatte lungo una vita intera. I suoi primi contatti con i dissidenti sauditi fuggiti negli Stati Uniti e in Canada sono segnati dalla sfiducia nei confronti di un uomo che per 30 anni ha lavorato per la monarchia: “non ci si può fidare di lui”, si legge in uno dei messaggi mostrati da Omar Abdulaziz, attivista, blogger e youtuber saudita fuggito in Canada, 29enne ormai veterano del dissenso, che aiutò Khashoggi ad ambientarsi lontano dall’Arabia Saudita.
Il regime ha molti mezzi per coprire la voce di un giornalista, soldati seduti davanti a uno schermo che combattono per il re con le armi dell’engagement social, dei trending topic, degli hashtag. Fino a quando Abdulaziz non gli svelerà l’esistenza dell’esercito di troll al servizio della monarchia (“le mosche” come le chiama lui), Khashoggi vivrà il dolore di voler appartenere a un popolo che lo rifiuta, lo ripudia e lo disprezza. Ma questa non è la realtà: in un Paese in cui l’80% della popolazione usa Twitter, in cui i social network sono il luogo di un dibattito che al di fuori di essi è punito dalla legge, la monarchia non può permettere che un giornalista come lui si convinca di essere ascoltato e apprezzato.
Ma per quanto i suoi cittadini usino i social media, l’Arabia Saudita non è quella che si vede su internet: quanto appare è solo una costruzione, la dimostrazione di forza di una macchina propagandistica moderna e dotata di grandi mezzi e fondi. Dopo l’omicidio di Kashoggi, il Ceo di Amazon Jeff Bezos interrompe il rapporto personale che fino a quel momento aveva intrattenuto con Bin Salman e congela investimenti miliardari previsti nella “Davos del deserto”: si scoprirà poi che tra i messaggi che il principe saudita invia al Ceo di Amazon per convincerlo a non rovinare la loro relazione ce n’è uno attraverso il quale lo smartphone dell’uomo più ricco del mondo viene infettato dallo spyware Pegasus, in grado di dare accesso assoluto al dispositivo colpito. Lo stesso spyware è stato trovato anche nel telefono di Abdulaziz, convinto per questo di essere il responsabile della morte di Khashoggi: lui lo aveva portato tra i dissidenti, lui lo aveva convinto a finanziare la costruzione delle “api”, una resistenza digitale da contrapporre alle “mosche” di Bin Salman.
Khashoggi però non è morto a causa del suo presente da dissidente, ma per quello che è stato: troppo vicino alle stanze del potere della corona saudita, troppo capace nel suo mestiere di giornalista perché gli fosse permesso di lavorare per un editore diverso dalla dinastia saudita. Se una lezione può essere tratta dalla vita e dalla morte di Jamal Kashoggi, questa è un avviso per chi trova in uomini come Bin Salman un riflesso della loro speranza o della loro convenienza, vedendolo sotto la luce del principe illuminato in grado di rivoluzionare e modernizzare il Medio Oriente, l’interlocutore politico e il partner commerciale a cui nessuno ha rinunciato, soprattutto negli ultimi settant’anni. Questa lezione si trova anche nelle parole di Wadah Khanfar, ex direttore generale di Al Jazeera e amico di Kashoggi: “[Jamal] Non aveva intuito il male, il diavolo in loro. Questo è un regime che considera le persone come schiavi. Tu sei uno dei servi nella terra che mi appartiene e hai osato sfidarmi”. Un monito per tutti coloro che si ostinano a vedere in Mohammad Bin Salman un alleato alla pari, un amico, o una speranza per il futuro dell’Arabia Saudita e del mondo.