The Boys è la serie sui supereroi che distrugge i supereroi. Per questo bisogna vederla.
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Nel 2019 una decennale saga cinematografica composta da ben ventitré film raggiunge il suo climax con Avengers: Endgame che diventa il più grande incasso della storia al botteghino. Un dato significativo che conferma ancora il dominio dei supereroi nell’industria dell’intrattenimento – e più in generale nella cultura pop – degli ultimi anni. Tra grande e piccolo schermo abbiamo visto un po’ di tutto, da vigilanti street level a minacce aliene, e gli spunti originali, vista la mole di uscite cinematografiche e televisive di stampo supereroistico, iniziano a mancare. Amazon ha quindi capito che era il momento giusto per produrre uno show in totale rottura con l’inflazionato trend attuale, una serie in grado di demolire alla base l’archetipo dei “super”.  Per farlo si è servita di The Boys, fumetto di culto scritto dallo sceneggiatore nordirlandese Garth Ennis, che ha un gusto per l’eccesso e per la scorrettezza simile a quello di Irvine Welsh, e disegnato da Darick Robertson.

Pubblicato a partire dal 2006 da una sottoetichetta della DC Comics, dopo soli sei numeri The Boys fu costretto a passare alla Dynamite Entertainment – che pubblicò la serie fino alla sua conclusione nel 2012 – perché la casa madre di Batman e Superman non poteva tollerare una serie che mettesse così in cattiva luce i suoi stessi supereroi. Una serie in cui, tanto per dirne una, una parodia dell’Uomo Pipistrello di nome Tek Knight è presentato come un erotomane che, dopo aver molestato persino il suo maggiordomo, arriva a sognare di salvare l’umanità distruggendo un meteorite con una vigorosa penetrazione.

Ma questa distorsione del modello batmaniano è solo un tassello nell’enorme lavoro di demolizione realizzato da Ennis, uno che gli eroi in calzamaglia di certo non li odia, ma si rende conto che talvolta possono essere ridicoli, o quanto meno retorici. A differenza della decostruzione dei supereroi portata avanti a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta con Lo Squadrone Supremo di Mark Gruenwald, Miracleman e Watchmen di Alan Moore o Il ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller, opere in cui si era immaginato l’impatto dei super in modelli di società realistica – in Watchmen, ad esempio, Moore racconta un 1985 distopico in cui la presenza di un essere onnipotente come il Dottor Manhattan avrebbe portato gli Stati Uniti a vincere la guerra del Vietnam allungando il mandato di Nixon – Ennis ritiene che un superuomo calato nell’America del terzo millennio non avrebbe i dilemmi esistenziali del Dottor Manhattan o di Miracleman, ma sarebbe più probabilmente una vuota icona di falsi valori, pronta a godersi soldi e fama. I supereroi secondo Garth Ennis non sono più simbolo di rettitudine morale, ma personaggi gretti e insicuri ossessionati dalle apparenze, influencer al soldo di una corporazione miliardaria, la Vought International, che vuol vedere le sue galline dalle uova d’oro entrare a far parte dell’industria più redditizia, quella della guerra. Quello dei Boys, infatti, è un mondo in cui da grandi poteri non derivano grandi responsabilità bensì grandi interessi economici. Il confine tra verità e finzione diventa indistinguibile e nel colossale carrozzone mediatico messo in scena dalla Vought International, tra fake news e post sui social, i supereroi vengono percepiti dal pubblico come nuovi messia.

Partendo da questo assunto, come il fumetto aveva ridicolizzato il mito del super cartacei, così la serie televisiva si fa beffa delle tutine live-action. Le vicende si concentrano su Billy Butcher e sulla sua squadra, i Boys, un gruppo di vigilanti rigorosamente vestiti di nero (un dresscode in evidente contrapposizione con i coloratissimi costumi che prende in giro ) impegnati a tenere sotto controllo – e all’occorrenza eliminare senza pietà – proprio i supereoi. Bersaglio principale dei Boys sono i Sette, l’equivalente ennissiano della Justice League, guidati dal Patriota, un Superman contaminato dai disvalori degli Stati Uniti di oggi. In pratica i Boys sono la risposta alla domanda di Alan Moore “Who watches the watchmen?”.

Lo show di Amazon ha delle sostanziali differenze rispetto alla controparte cartacea in cui i Boys lavorano per la Cia e hanno essi stessi dei superpoteri. La serie, al contrario, è impostata più come una origin story del quintetto di Butcher e i Boys (tranne uno) non hanno alcun potere e sono parecchio disorganizzati. Non essere sullo stesso piano fisico dei supereroi li mette in un’evidente posizione di svantaggio che giova alla narrazione costringendo Butcher ad aguzzare l’ingegno invece di risolvere i conflitti sempre a suon di  pugni.

The Boys è stata fortemente voluta in tv da Seth Rogen e Evan Goldberg, affiatato duo dietro un altro adattamento seriale di un fumetto di Ennis, e cioè Preacher. Stavolta però i due sono rimasti legati al progetto solo in veste di produttori esecutivi e hanno lasciato il timone a Erik Kripke, già creatore e showrunner della longeva Supernatural. Proprio come accaduto con Preacher la trama del fumetto è stata sostanzialmente modificata e la cronologia degli eventi stravolta, ma quel che più conta è il fatto di aver rispettato il materiale sorgente cogliendo perfettamente lo spirito dell’opera originale.

Come il fumetto, anche lo show televisivo è pieno di momenti eccessivi che non avrebbero potuto essere messi in scena in una serie per la tv generalista. La satira sui supereroi, piena di note splatter, patologiche ossessioni sessuali e momenti di genuino umorismo demenziale (vedi lo “struggente” e maldestro salvataggio di un delfino dall’acquapark), ha consentito allo showrunner Erik Kripke di passare con disinvoltura la lente d’ingrandimento su molti altri aspetti della società americana degli anni Duemila, dalla manipolazione delle notizie, alle ingerenze delle multinazionali nella politica, passando per la strumentalizzazione/spettacolarizzazione della religione.

Nell’affrontare questo variegato campo tematico Kripke ha dato solidità a The Boys, ha scandito nel migliore dei modi i tempi della narrazione e ha messo a fuoco sia i personaggi che le loro interazioni. È il caso, ad esempio, del rapporto instauratosi tra due dei Boys, il Francese (Tomer Kapon) e la Femmina (Karen Fukuhara), o della caratterizzazione dei membri dei Sette, su tutti Abisso, una parodia di Aquaman che ha il volto di Chace Crawford, ex star di Gossip Girl, o del Patriota, reso credibile nei suoi deliranti capricci e nelle sue insicurezze dall’interpretazione di Antony Starr. Molto bene anche Butcher, il cui ruolo è stato affidato a Karl Urban, uno che negli ultimi anni ha preso parte a franchise di grande successo al botteghino, dalla trilogia de Il signore degli anelli in cui interpretava Eomer, allo Star Trek di JJ Abrams in cui vestiva i panni del dottor “Bones” McCoy, fino al Marvel Cinematic Universe in cui è stato Skurge L’Esecutore in Thor: Ragnarok. Ma il cast riserva anche la presenza di Elisabeth Shue, indimenticabile star di Via da Las Vegas e Ritorno al futuro parte II e III, nei panni di una dirigente manipolatrice della Vought International e Simon Pegg, che aveva ispirato il character design di uno dei personaggi del fumetto, il piccolo Hughie, e che nella serie interpreta, guarda caso, proprio il padre di Hughie. Ma non vanno trascurati i piccoli ma significativi ruoli di Giancarlo Esposito, iconico villain di Breaking Bad, o Haley Joel Osment, l’ex bambino prodigio de Il sesto senso. Un investimento anche sul cast che testimonia quanto Amazon abbia puntato su The Boys che, non è un caso, è diventata da subito una delle sue serie più viste e che punta a diventare uno dei titoli bandiera della piattaforma assieme a Jack Ryan e all’inarrestabile successo de La fantastica signora Maisel, una delle migliori serie comedy in circolazione.

The Boys è una serie dissacrante e iconoclasta che piace soprattutto perché fa scendere i supereroi dal loro piedistallo di paladini dai nobili intenti e dalla condotta incrollabile, rendendoli semplici esseri umani pieni di difetti, ma soprattutto perché non scade mai nella banale retorica di presentare i Boys come antagonisti positivi, personaggi che ottengono catarsi combattendo moderne divinità fuori dalla loro portata, come fossero Davide contro Golia: nessuno si salva, tutti devono scendere a compromessi e anche gli uomini di Butcher – persino il piccolo Hughie che dovrebbe rappresentare il baricentro morale della serie – sono bugiardi, opportunisti e all’occorrenza spietati. Un’ambiguità morale, questa, che unita a una scrittura solida e a un umorismo potente, contribuisce a ritracciare le coordinate di questo genere ormai classico.

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