“Il teorema di Margherita” racconta il tentativo di confrontarsi con l’infinito e addomesticarlo - THE VISION

Alla mia prima prova d’orchestra sbagliai una nota, la sbagliai due volte, alla terza la direttrice di quel gruppetto di bambini del conservatorio mi minacciò, urlandomi in toscano e sputandomi sullo spartito, tornai a sbagliare e corsi via. La sera doveva esserci il saggio. Aspettai che qualcuno mi chiamasse. Almeno la mia compagna di leggio. La mia amica. Niente, non mi chiamò. Non mi chiamò mai più in effetti. Ero quella che aveva sbagliato quattro volte il fa diesis di un qualche concertino arrangiato per orchestra di un autore sconosciuto. Un errore idiota, bastava ricordarsi quella nota. Tutto l’aneddoto, anzi, il dramma che ne scaturì, è abbastanza ridicolo a pensarci oggi. All’epoca però non mi fece ridere per niente. Raramente controlliamo i percorsi sinaptici che collegano la nostra esperienza presente alla nostra memoria, e sicuramente la percezione gioca un ruolo importante, quindi non so perché Il teorema di Margheritadella regista franco-svedese Anna Novion, presentato in Special Screenings al Festival di Cannes 2023 e distribuito da Wanted nelle sale italiane dal 28 marzo – mi ha riportata lì. Forse perché la musica e la matematica hanno molto in comune, a partire dall’organizzazione grafica di un concetto, alla prospettiva che un solo segno sottende, e – almeno nel mio cervello – quella costante sfida e verifica con sé stessi che prevede appunto ogni dito appoggiato su una nota o su un tasto, così come un calcolo, una parentesi, il posto esatto di un segno. Quella precisione è fondamentale per trasformare il meccanismo in arte, padroneggiarlo, ma al tempo stesso può essere una trappola autodistruttiva.

Un’altra cosa a cui mi ha fatta pensare Il Teorema di Margherita è il breve romanzo Lo zio Petros e la Congettura di Goldbach – il classico libro che la prof o il prof di matematica ti dà da leggere per le vacanze estive al liceo – e non solo perché Margherita, la protagonista, si confronta con quella stessa affascinante, pericolosissima e tuttora – dopo più di 250 anni – irrisolta congettura. Lo sviluppo della narrazione è molto affine, tanto che si sospetta voluto, così come le diverse citazioni cinematografiche che costellano la storia. Zio Petros, considerato la pecora nera della famiglia, spreca il suo talento per rincorrere l’impossibile e fallire. Proprio come sembra fare Margherita (personaggio liberamente ispirato alla grande matematica francese Ariane Mézard), quando dopo essere stata svergognata davanti a una classe intera di ricercatori all’ENS (l’École Normale Supérieure) di Parigi, uno dei migliori istituti di ricerca matematica del mondo, abbandona il suo assegno di ricerca e si trasferisce a vivere nel Quartier Asiatique, seguendo una mezza sconosciuta, la danzatrice Noa, a cui la accomuna sicuramente un profondo senso di giustizia. Margherita, infatti, non accetta l’illogicità del mondo. Quando qualcosa è illogico allora non è “giusto”, allora è falso, e quindi non esiste, non merita la sua attenzione, la sua comprensione. Ciò però non evita che Margherita sia estremamente emotiva, e questo è un tratto fondamentale del personaggio, interpretato magistralmente da Ella Rumpf, che per il ruolo ha ricevuto il César Award 2024 come Miglior rivelazione femminile. Forse perché anche le emozioni, tanto disprezzate dal suo professore-mentore, Werner (Jean-Pierre Daroussin), seguono una loro logica ben precisa, quindi la loro esistenza può essere dimostrata.

Dopo che Margherita rinuncia a quello che la maggior parte dei matematici del mondo desidererebbero, può finalmente crescere e misurarsi con l’immisurabile. Scopre così che la matematica, fuori dalle università, ma anche nelle aziende, è una sorta di potentissimo super potere. Lo capisce giocando a Mahjong, gioco d’azzardo cinese “simile al poker ma meno legato alla fortuna”, che le permetterà di vivere, oltre che di ripagare senza problemi i 44mila euro che deve restituire alla Normale dopo aver interrotto la sua ricerca. Inizia così un processo di indipendenza di Margherita, dal professore che considerava qualcosa di simile al padre che non aveva mai avuto, dalla madre, dalla scuola, dalla solitudine, dalla verginità. Anche se tutti pensano sia impazzita, Margherita sa quello che fa, o meglio, sa ciò che vuole: risolvere la congettura di Goldbach. Confrontarsi con l’infinito e possibilmente addomesticarlo, comprenderlo. Margherita sa in cosa crede, sa quali sono i suoi valori, sa cosa le interessa e soprattutto, sa cosa la fa sentire bene e cosa invece non sopporta e la mette a disagio e sembra averglielo insegnato l’algebra. Ha una lucidità, insomma, che sembra mancare ampiamente alla maggior parte delle persone “normali” – cioè quelle che non sanno fare le equazioni di secondo grado.

Eppure, la matematica raccontata in questo film è un’immensa fase maniacale, una dimensione in cui si vive agli estremi del dominio della neutralità, nel bene e nel male, è la passione a muoverla, sia essa felice, sia triste. È qualcosa di molto simile a uno sforzo agonistico, fisico. Una brama fatta di notti insonni, pranzi frugali, alienazione, isolamento, pulsione ossessiva verso un oggetto. Per non perdersi bisogna saper mantenere una rotta. Anche per questo il film tocca delicatamente il tema della salute mentale. Come dice la regista “ogni matematico ha una storia da raccontare risalente al college in cui è diventato pazzo, o schizofrenico, o di come non si sia mai ripreso dopo un errore, o che ha tentato un suicidio. [Questo] lavoro richiede così tanto impegno che il cervello in alcuni casi sembra implodere. Dare sempre il massimo provoca una sorta di costante euforia, ma anche molta pressione”. Bisogna sviluppare i propri strumenti per restare in equilibrio, che non significa evitare le onde, tutto il contrario: essere perennemente in grado di riadattare la propria configurazione nello spazio.

Novion racconta la storia di una donna in un mondo di uomini. Le umiliazioni, grandi e piccole che deve subire, il costante senso di insicurezza, di incompletezza, che supera alla fine trovando il coraggio di allontanare Lucas (Julien Frison), il dottorando chiamato inizialmente per sostituirla nella ricerca di Werner. Margherita ama Lucas, ma la congettura di Goldbach deve risolverla da sola, può risolverla da sola, per quanto sia bello ed entusiasmante inseguire insieme la stessa meta. Sfatando quell’adagio silenzioso che la società sembra aver attentamente inoculato a noi donne: che non riusciremo mai a fare certe cose da sole, avremo sempre bisogno di qualcuno che ci aiuti.

Secondo André Weil – fratello della famosa Simone, definita da un collega “troppo colta e magra” per sopravvivere – il suo dovere era fare il matematico, non la guerra. E sicuramente aveva ragione – basti pensare al ruolo di Alan Turing durante quello stesso conflitto. Quando Simone chiese ad André di spiegare a una profana come lei ciò di cui si occupava, dato che nel 1940 lui si trovava rinchiuso nel carcere civile di Le Havre per renitenza alla leva, per tutta risposta il fratello le disse che sarebbe stato come spiegare a una sorda una sinfonia. Alla fine, però, di fronte all’insistenza della sorella cedette, capendo che era molto meno sorda di quanto pensasse – d’altronde oggi è considerata soltanto una delle più grandi mistiche del Novecento. Due fratelli, apparentemente agli antipodi delle possibilità della mente umana si ritrovarono a parlare di Gauss. Penso ci sia un punto preciso in cui la stessa mente sceglie la strada dei numeri o quella della poesia, non parlo volutamente di letteratura, ma proprio di poesia. Mi rendo conto possa sembrare un paragone azzardato, ma penso ci sia più di un fondo di verità. La matematica vuole controllare l’infinito, o quanto meno avvicinarcisi, anche la poesia. Alcuni matematici possono passare una vita intera a cercare di risolvere un problema senza alcuna certezza di riuscire a farlo. I poeti scrivono con la certezza che quasi nessuno li capirà, e che i loro libri venderanno 30 copie. Eppure scrivono. Il punto non è questo. Ma gli effetti che suscita questo esercizio. Guardando il Teorema di Margherita, tuttavia, ci si accorge di quanto la nostra società sia analfabeta su entrambi questi fronti, e forse è proprio per questo che servono film del genere.

In matematica, una congettura è una proposizione dimostrata vera in taluni casi e della quale non si sia riusciti a dimostrare la falsità in nessun caso e che perciò si presume vera in ogni caso. Detta così sembra qualcosa di molto simile alla sospensione di incredulità in cui viviamo. La nostra “esperienza” non è altro che questo, una verità presunta in seguito ad alcune occasioni. Studiando matematica si capiscono molte cose sulla verità, dice Chiara Valerio nel suo La matematica è politica, per esempio si capisce che le verità sono partecipate e pertanto i principî di autorità non esistono; che le verità sono tutte assolute, ma tutte transitorie, perché dipendono dall’insieme di definizione e dalle condizioni al contorno. Svolgere un problema matematico è un esercizio di democrazia, perché chi non accetta l’errore e non si esercita nell’intenzione di capire il mondo non riesce né a cambiarlo né a governarlo. E non penso ci possano essere parole più precise per sintetizzare l’essenza di questo film, e della parabola di Margherita, “una donna sensibile e determinata, sincera e affabile, che irradia attorno a sé una forza incredibile insieme a una forte vulnerabilità e a una grande consapevolezza di sé, senza saccenza”.


Questo articolo è realizzato da THE VISION in collaborazione con WANTED CINEMA in occasione dell’uscita italiana di “Il teorema di Margherita”, della regista franco-svedese Anna Novion, presentato in Special Screenings al Festival di Cannes 2023 e distribuito nelle sale italiane dal 28 marzo.

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