Per centoventicinque chilometri, dal distretto più occidentale di Qingpu fino al Waibaidu Bridge, uno dei più antichi ponti costruiti a Shanghai, il fiume Suzhou attraversa la metropoli da ben prima che diventasse la più famosa della Cina. Le sue sponde, dove un tempo le persone si ritrovavano per godere dell’acqua o pescare gli esemplari di pesci e gamberi che il fiume ospitava, negli anni si sono trasformate in un serbatoio di caos e inquinamento: la scarsa corrente non permetteva infatti al fiume Suzhou di autopurificarsi, tanto che negli anni Ottanta l’unico modo per attraversarlo era quello di fare un bel respiro e tapparsi il naso, o convincersi che l’odore che si sentiva fosse altro. Fu solo verso gli albori del Duemila che venne lanciato un progetto per riqualificare la zona. La povertà a quel punto si era infatti ormai stretta intorno alla storia del luogo, segnandone la vita che brulicava sulle sue rive. Fu tra le fabbriche e i magazzini abbandonati che lo sceneggiatore e regista Lou Ye ambientò il suo secondo film, concentrandosi sulle ombre dell’Asia e sul ventre urbano della sua città natale, intitolandolo Suzhou River.
Uscito per la prima volta nel 2000 e riproposto in questi giorni in una nuova versione restaurata, il film non venne mai proiettato in Cina, dove anzi costò al regista un divieto di realizzare altre opere per due anni – convintamente disatteso sin dall’inizio – a causa della scelta di proiettarlo all’estero senza attendere l’autorizzazione ufficiale del regime. Spinto da numerosi premi internazionali – tra cui il Tiger Award al Rotterdam International Film Festival, il Grand Prix al Tokyo Filmex, il Fipresci Award al Viennale e il Grand Prix e il premio come Miglior attrice al Paris Film Festival per la protagonista Zhou Xun – Lou Ye si sofferma sulla precarietà, sull’implosione dei sentimenti, sul disincanto verso un futuro che getta un’ombra di incertezza sulla società. Il fiume Suzhou è infatti metafora della fusione tra la vecchia e la nuova Cina: le sue acque ormai inquinate scorrono senza sosta, vomitando rifiuti e cadaveri e i caseggiati prebellici e abbandonati vengono demoliti e sostituiti da blocchi anonimi tutti uguali.
Lou appartiene alla cosiddetta sesta generazione di registi cinesi e se i suoi predecessori raggiunsero la maggiore età a metà degli anni Sessanta, durante la Rivoluzione Culturale, e ambientarono le loro epopee nel passato della Cina o nelle campagne rurali, sottolineando i costumi e la cultura tradizionale del Paese, cineasti come Lou hanno iniziato a girare dopo il massacro di piazza Tienanmen, quando nel giugno 1989 l’esercito cinese aprì il fuoco contro studenti, intellettuali e operai con fucili d’assalto e carri armati. Sono poi cresciuti durante un periodo di liberalizzazione economica senza precedenti, tanto che per identificarli si usa spesso l’appellativo di generazione a 386 MHz, come il processore per computer più veloce di allora. I loro film abbandonano la campagna per diventare sfacciati e urbani e le loro influenze spaziano da Dziga Vertov e Jean-Luc Godard, passando per Alfred Hitchcock e MTV, tutte chiaramente visibili in Suzhou River. “Non ho bisogno di fare un dramma in costume per dimostrare che si tratta di un film cinese”, dice Lou, “Spesso stavo alla mia finestra e guardavo le persone [sulla riva del fiume]. Ho inventato tante storie su quei passanti. È da lì che è nata l’idea per questo film. È venuto fuori da storie che ho vissuto e raccontato agli amici tanti anni fa”.
E proprio la nostra usanza di inventare e raccontare storie – ripeterle fino a convincerci che siano vere o lasciare che i confini tra fantasia e realtà sbiadiscano sempre più – sembra essere uno dei nuclei centrali di Suzhou River. Narrato da un videomaker di cui conosciamo solo la voce, perché resta sempre dietro alla telecamera, il film si incentra su due coppie di amanti, le cui identità arrivano a sovrapporsi continuamente. La prima, all’apparenza avvenuta anni prima del racconto principale, è composta da Mardard – un corriere in motocicletta silenzioso e introverso – e Moudan – figlia di un contrabbandiere di alcolici, che viene affidata al ragazzo per essere portata a casa di una zia ogni volta che il padre è impegnato. Sebbene all’inizio il ragazzo resista ai corteggiamenti dell’adolescente, i due finiscono presto per innamorarsi. Ma un tradimento di Mardard spingerà Moudan a lanciarsi proprio dal Waibaidu Bridge, non prima di avergli promesso che sarebbe tornata trasformata in sirena. Il suo corpo non verrà mai rinvenuto. L’altra coppia, invece, è composta dall’anonimo narratore maschile del film e Meimei, una ballerina di un nightclub che nuota in un grande acquario vestita da sirena – e impersonata dalla stessa attrice di Moudan, in un chiaro rimando a La donna che visse due volte di Hitchcock e al cinema di Luis Buñuel. Senza la parrucca, Meimei sembra esattamente la fidanzata di Mardard, come se la sua promessa si fosse avverata. Quando il giovane motociclista la incontra per la prima volta, dopo anni passati in prigione, ne fa un’ossessione, tentando ogni cosa per farle ammettere di essere davvero Moudan.
Per tutta la storia di Mardar e Moudan, le parole utilizzate dal narratore ci ricordano che Mardar non è solo colui che la sta raccontando, ma ne è l’autore stesso: “Cos’altro? Fammi pensare”; “Il suo passato. . . potrebbe essere . . .”; “Ricordo di aver letto un articolo a riguardo sul giornale”, queste frasi compongono un mosaico che sembra poter prendere forma a suo piacimento, cambiando il corso – rappresentato – degli eventi. Il fatto che il narratore poi non sappia nulla del passato di Meimei appare sempre più indicativo di quanto non conosca il suo presente, pur essendo il suo fidanzato. Anche gli spettatori finiscono così per non sapere niente di lei, perché tutto viene filtrato attraverso la mente che controlla la telecamera e che quindi controlla il nostro accesso alle informazioni dei personaggi, ciò che vediamo e sentiamo.
Se secondo Walter Benjamin la fotografia e il cinema svelano l’inconscio ottico, la dimensione della visione originariamente preclusa, nascosta, perché “la natura che parla alla macchina fotografica è una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente”, in Suzhou River sembra di seguire un desiderio che rischia di scomparire fuori dall’inquadratura, un flusso digitale in cui anche il vero amore è una proiezione. La videocamera sembra registrare la verità ma nei fatti è solo una simulazione della realtà. “[Ho utilizzato la camera in prima persona] per cercare di inserirmi nella storia. Ma in ogni caso, quando racconti [la storia] di un’altra persona corri sempre il rischio di venirne coinvolto”, spiega Lou Ye, che nei suoi film descrive l’amore e il sesso come forze distruttive, che non ammettono guarigione, piacere, futuro, ma solo ossessione e impossibilità.
“Se un giorno ti lasciassi, mi cercheresti come Mardar ha cercato Moudan?”, ripete Memei al narratore, un ragazzo che più che a inseguire l’amore è pronto ad aspettare la prossima storia da raccontare. D’altronde, come scriveva Roland Barthes, l’amore si manifesta soprattutto attraverso il linguaggio, nell’ossessionato tentativo degli innamorati di dare voce alla vitalità del loro sentimento – o al suo appassire –, in un paradosso in cui ciò che si dice non riesce mai a rappresentare appieno ciò che si prova. Una tensione, quella verso il raccontare, che nei secoli ha dato vita a ogni latitudine a grandi narrazioni letterarie. L’amore, infatti, almeno agli inizi, non è altro che questo: una storia che raccontiamo a noi stessi, su noi stessi, sulla persona che amiamo, su una possibile vita insieme. Vogliamo che non finisca mai, mentre un racconto, qualsiasi esso sia, deve finire. Spesso capita che questa attitudine prosegua anche col maturare della relazione, quando ciò che ci raccontiamo diventa più reale delle persone che amiamo. Non facciamo altro che questo: attaccare le parole alle cose, rendendole immutabili e facendole diventare un destino, come per Moudan e Mardar. E invece, al contrario, nel ripeterle dovremmo imparare a lasciarci andare a una risata, ridere di loro, di quello che fingono d’essere e di rappresentare, e soprattutto di quello che noi fingiamo di essere quando le usiamo. Si dice che l’amore conduca sempre in qualche luogo e allora, forse, non resta che seguirlo lungo un fiume, in attesa della prossima storia, senza lasciare che diventi un’ossessione, senza girarci per rispondere a chiunque ci chieda: “Se un giorno me ne andassi, non ti fermeresti fino a quando non mi hai trovato?”.