“Sulla Terra leggeri” ci ricorda che amare, anche se spaventoso, allarga i confini dell’esistenza - THE VISION
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Forse è perché ho studiato musica fin da piccola che quando ho iniziato a praticare yoga per me è stato spontaneo avvicinarmi alla bhakti, ovvero quella via di “liberazione” che immerge le sue radici nell’India dei primi secoli dopo Cristo e che riguarda tutto ciò che è legato alla pratica devozionale, privilegiando la sfera emotiva come canale per avvicinarsi alla trascendenza e al divino. La bhakti quindi diventa un’esperienza di ricerca mistica personale, molto intima. Cantando si cerca di portare la divinità nel proprio cuore, e di sperimentare quella fede amorosa che si manifesta nel desiderio appassionato di unione al divino, in totale abbandono. Qualcosa di simile ritorna in altre pratiche mistiche di altre parti del mondo, come nella forma di meditazione dei dervisci. E qualcosa di simile, molto simile quasi che si direbbe lo stesso a livello percettivo, avviene quando amiamo qualcuno. Ma tornando ai sufi, si dice che dalla stasi prima ci si avvicini al divino, poi ci si danzi insieme fino a mescolarsi con esso, perdendo il proprio senso di identità e mescolandosi alla totalità, per poi lentamente riallontanarsi, fino ad arrivare di nuovo al silenzio, profondamente cambiati. Queste esperienze “curano” nel profondo (se con profondo intendiamo parti della nostra coscienza difficilmente raggiungibili dal logos) e se a millenni di distanza vengono ancora praticate evidentemente i loro effetti positivi su di noi esseri umani sono tutt’altro che trascurabili.

L’amore, e la passione, e il tapas, l’ardore, d’altronde muovono forse più che il divino “il Sole e l’altre stelle” della nostra piccola personale galassia. È impossibile non vedere il parallelismo con qualsiasi attrazione e qualsiasi amore, sia mentale che fisico, ed è qui che mi pare si innesti la storia di Sulla Terra leggeri, film di Sara Fgaier che verrà proiettato al Cinema Godard di Fondazione Prada l’1 dicembre. All’interno di un flusso narrativo che assembla fiction, immagini di archivio e documentario prende forma la vicenda di Gian, un professore di etnomusicologia di sessantacinque anni affetto, in seguito a un lutto, da amnesia dissociativa che grazie alla figlia – che non riconosce più – riscopre un suo vecchio diario, andando a toccare temi come il passaggio tra giovinezza e maturità, la perdita, e la forza rigeneratrice dell’amore. L’amnesia porta Gian a vivere in un mondo parallelo, ritirato, attutito. Quel diario sembra restituirgli una vita ricca di sensazioni, eventi, descrizioni, pensieri e sogni, e tutti ruotano intorno a Leila, una ragazza franco-tunisina di cui Gian è stato – è – innamorato.

Non so se effettivamente chiunque abbia la fortuna di aver vissuto una storia tanto densa, ma sicuramente tutti sappiamo quanto siano forti le tinte che prende la vita quando siamo innamorati, come se tutti i nostri sensi diventassero più acuti, più sensibili, una sorta di improvviso stato di grazia, di superpotere. Così agganciamo la storia di Gian attraverso la registrazione di una musica stambeli, proveniente dalla Tunisia, ma che è presente con vari nomi in tutto il nord africa. Una danza con gli spiriti. Musicoterapia ante litteram, la definisce Gian, attraverso il movimento, la voce, il pianto, si induce proprio attraverso musiche ripetitive e ipnotiche una sorta di trans nel paziente per “guarirlo”, liberarlo dal suo stato di “possessione”. I danzatori, guidati dal maestro d’orchestra e dalla Arifa, colei che canta e balla fino alla trance prima di essere raggiunta da tutti gli altri, entrano in contatto con gli spiriti, chiamati “jinn”, che si manifestano attraverso di loro con canti, danze e gesti. Come ogni trance è un’esperienza che conduce a un’emozione estrema, che lascia svuotati, stremati, e che porta alla sensazione di essere effettivamente andati e tornati da un’altra dimensione. Proprio come Gian, che fluttua in una realtà di fantasmi, i cui significati, messaggi e relazioni sembrano essersi sfibrati. La trance diventa dunque un mezzo per comunicare con l’aldilà, ricevere benedizioni e trovare sollievo da sofferenze fisiche e psicologiche, ed è così che Gian guarisce dal suo “mal d’amore” per Leila, ed è per questo che le immagini del rituale tornano e ritornano, solcano e scandiscono la narrazione, mescolandosi a quelle di un antico carnevale sardo – un culto di origini arcaiche dedicato al Dioniso dell’Oriente, molto vicino alle danze dei mistici musulmani ancora presenti nel Maghreb (che la regista ha filmato successivamente) –  vissuto con Leila in cui loro due grazie al loro amore appena nato si sono sentiti eterni, immortali.

La memoria appare nel film come un archivio, grazie al particolare montaggio delle immagini, ciascuna come riverbero di un ricordo, di un’emozione, di uno stato d’animo, che danno forma “a un collage lirico composto da materiali di diversa origine (riprese dal vero, archivi, immagini documentarie)”. Non a caso il titolo, e non solo, sembra richiamare quella potentissima lettera d’amore che è “E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto” di John Berger. L’amore che racconta Berger, come Fgaier è svelamento sensuale, mutuo accudimento di difese e fragilità, ma anche superamento dei confini e dei limiti individuali. L’arte sottile dello sconfinamento, avvicina gli innamorati ai migranti, a chi lascia tutto ciò che ha “gettando le fondamenta di una nuova casa nel molle terreno dell’altrove”, la stessa cosa che fa chi si innamora e che decide di affidarsi a questo sentimento, ma che fanno anche i più grandi artisti, capaci di “vivere un’identificazione metamorfica e sessuale con la materia” della loro stessa arte. L’amore di Berger è un porsi in bilico, tra presenza e assenza, eternità e impermanenza, tra ora e non più. Così anche Sulla Terra leggeri dal privato apre un discorso politico, mostrando quanto sia assolutamente forte il discorso sui sentimenti, su quanto uno sguardo amante possa rimodellare il reale, ridisegnando veramente il mondo, compiendo a suo modo una rivoluzione.

A causa della memoria vacillante, i frammenti del passato rievocati dal vecchio diario di Gian si confondono con immagini fantastiche che vorticano nella sua mente con l’apparenza sgranata e sfocata dei vecchi archivi, fonti inesauribili di suggestioni. Qualcosa di queste immagini legate a un passato, per cui anche senza averlo vissuto proviamo tuttora nostalgia, le rende ancora capaci di tessere un filo tra i vivi e i morti, aiutando Gian a dipanare la sua storia, e l’evento che sembra averla scompaginata, interrotta. Attraverso i suoi sé del passato, al ruolo della narrazione del diario e al profondo sentimento d’amore per la donna perduta, fantasma che infesta il suo sentire, Gian ritrova la forza di rientrare in se stesso, nel suo qui ed ora, di accettarsi padre, e vedovo, affrontando la prova più difficile: perdere qualcuno e imparare a ritrovarlo.

Questo film sembra mostrarci com’è che è possibile amare, con quale coraggio e intensità, con quale abbandono, e quanto questo darsi, che tanto sembra spaventarci di questi tempi, ci allarghi effettivamente i confini della percezione e dell’esistenza. È possibile amare come la prima volta, come quando avevamo quindici anni. Senza contratti, senza compromessi, senza risparmiarsi, è possibile anche perdersi, ma solo questa esperienza totalizzante ci fa vivere, ci rigenera, ci rinnova, ci cura. Dobbiamo semplicemente avere il coraggio di lasciar andare la paura della sconfitta, della caduta, assumerci il rischio – nella peggiore delle ipotesi – di errare e di doverci ritrovare. Passare attraverso un amore così grande da sciogliere i nostri confini è qualcosa a cui effettivamente è difficile sopravvivere, o meglio, è difficile sopravvivere immutati, è assurdo a pensarci bene pretenderlo, perché tutto ci muta, ci cambia, ci fa approdare a nuovi stadi dell’esistenza.

Chiudere gli occhi non ci salverà, rinunciare a una persona non ci salverà, ci farà semplicemente stare fermi. Ma la vita pulsa, sempre. La vita si espande e si ritrae, si infila in ogni fessura, spacca qualsiasi catrame, pur con gentilezza. Se non ci muoviamo i nostri tendini e le articolazioni si calcificano, ci fanno male, riducono l’ampiezza del nostro stare. Così il cuore, le emozioni, i pensieri, la capacità di percepire il mondo, sempre più sottile, o sempre più ottusa. “Che cosa succede quando qualcuno dimentica la cosa più importante della sua vita?,” ha detto la regista, “La difesa di Gian si rivela peggiore del dolore da cui tenta di sfuggire. E cosa succede all’altra persona quando non viene più ricordata? Diventa un fantasma, un’entità che scompare fino a diventare impalpabile. Gian, smettendo di ricordare, smette di dare vita a Leila, che così muore non una, ma due volte. Solo dialogando con l’Invisibile, Gian riesce a ritrovare se stesso”. Quando Gian smette di dimenticarla, Leila torna a esistere da qualche parte nell’universo, libera in quella stessa eternità in cui ci proiettano i nostri migliori ricordi. Per questo dovremmo permetterci di viverli, di farne esperienza, trovando la leggerezza di cui parlava Italo Calvino nelle sue Lezioni americane: “Planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”.

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