Quasi sessant’anni fa, nel 1961, usciva Divorzio all’italiana, il film di Pietro Germi con Marcello Mastroianni e Stefania Sandrelli che vinse sia a Cannes che agli Oscar. La trama del film ruota intorno a una combinazione macabra e comica di equivoci e sotterfugi dettati dall’impossibilità del protagonista di divorziare legalmente, visto che mancava ancora un decennio all’introduzione della legge per lo scioglimento del vincolo matrimoniale. Nel 1973, invece, esce Scene da un matrimonio, il film di Ingmar Bergman che racconta la lunga e articolata vicissitudine di una separazione, quella tra Marianne e Johan. I due film hanno ben poco in comune da un punto di vista formale o contenutistico, ma sono entrambi ritenuti capolavori nel loro genere, e narrano entrambi di un tema fondamentale per l’umanità: l’unione di due persone e la loro separazione.
Nel nuovo film di Noah Baumbach, uscito di recente su Netflix, Storia di un matrimonio, non siamo certo nella Sicilia del delitto d’onore, né nella Stoccarda anni Settanta di Bergman, eppure parliamo ancora di ciò che succede a due persone che decidono di interrompere una relazione molto importante. Scarlett Johansson e Adam Driver, che interpretano Nicole e Charlie, sono marito e moglie, hanno un bambino di sette anni, lavorano rispettivamente come attrice e come regista a New York. Sono giovani, hanno una carriera promettente di fronte a loro, hanno avuto un figlio senza pensarci troppo e si ritrovano a dover affrontare le conseguenze di una scelta, quella del divorzio, che cambierà in modo radicale le loro vite.
Noah Baumbach è uno di quegli sceneggiatori e registi americani che da una ventina di anni circa – il suo primo film, uscito nel 1997, Jealousy, è diventato un piccolo cult – ha contribuito alla formazione di un filone cinematografico indie dalle immagini calde e dai dialoghi surreali. Non è un caso che abbia co-diretto Le avventure acquatiche di Steve Zissou, il film di Wes Anderson, uno dei tanti che hanno fornito ad adolescenti “diversi” dell’ottimo materiale fotografico con cui decorare i propri social. Tra gli anni Novanta e gli anni Duemila, infatti, Baumbach ha diretto diverse commedie delicate, piccoli drammi familiari perfetti per la giuria del Sundance e ottimi rimedi contro la monotonia da effetti speciali ed eroi Marvel del cinema americano mainstream, che punta più allo spettacolo che a una scrittura introspettiva – Il calamaro e la balena, del 2005, è uno dei più famosi tra questi lungometraggi dalla trama psicologica ed esteticamente molto curato. Storia di un matrimonio segue alla perfezione la tradizione di queste rom-com indie, che è una definizione dentro cui rientrano anche film come Se mi lasci ti cancello o Her: un cinema statunitense contemporaneo che tiene conto anche di un pubblico che ricerca l’influenza “europea”, perfettamente replicata ad esempio da registi come Woody Allen.
La prima cosa che salta all’occhio di Storia di un matrimonio – che poi, senza fare spoiler, è semmai la storia di un divorzio – è dunque l’atmosfera ben codificata che ci troviamo davanti, un ambiente familiare giovane, artistico e borghese, un ritratto molto newyorkese di un ceto sociale medio-alto in cui predomina il buon gusto per l’arredamento e per i vestiti, mai dozzinali o pacchiani. Charlie e Nicole sono una giovane coppia che vive a New York, lui è un regista, lei un’attrice di Los Angeles che è passata da un ruolo in una commedia da liceo californiana al teatro sperimentale; entrambi condividono una cosa, oltre a un figlio: il fatto di essere molto ambiziosi e talentuosi. La casa dentro cui entriamo è lo scenario di una vita domestica – il ritratto di una famiglia intellettuale e impegnata in teatro, ma non così dissimile da qualsiasi altra – che contiene in sé sia i vantaggi che gli svantaggi di quel che significa fare parte di un nucleo famigliare alle soglie del 2020. Sia Nicole che Charlie, infatti, sono due personaggi che esulano in qualche modo dalla classica rappresentazione marito/moglie: Charlie è un uomo che sa badare a se stesso e fare il padre, Nicole una donna che tiene molto al suo lavoro e non ha mai pensato di rinunciarvi per diventare una madre a tempo pieno. Se fino a pochi decenni fa lo schema familiare – anche in ambienti più progressisti – era spesso il classico incasellamento dei ruoli per cui una donna sapeva di dover rinunciare alla propria ambizione per raggiungere un equilibrio – inteso come la distribuzione delle responsabilità economiche sul padre e domestiche sulla madre – oggi le cose sono sempre meno definite, o almeno questo è l’obiettivo per cui donne e uomini del Novecento hanno lottato. La storia di Charlie e Nicole, infatti, racconta in un certo senso il conflitto che rimane tra ciò che è il passato della famiglia come istituzione borghese, ciò che è il presente, e tutto ciò che rimane in mezzo quando il matrimonio non è inteso solo come un contratto sociale ma come una condivisione di sentimenti, intenzioni e, soprattutto, esigenze individuali.
Storia di un matrimonio ha il pregio di mettere in scena non tanto l’odio che intercorre tra due persone che non si amano più, ma ciò che succede in un presente in cui – giustamente – il soddisfacimento personale, sia professionale che emotivo, viene prima di quello della coppia, che altrimenti significherebbe solo un sacrificio per uno o entrambi. La rinuncia delle ambizioni e delle esigenze della donna all’interno della coppia in favore del bene e dell’equilibrio del nucleo famigliare – che un tempo era la prassi – oggi si scontra con il concetto stesso di famiglia. Nicole e Charlie sono già ben oltre il modo classico di intendere la loro vita e la vita del loro nucleo familiare: sono al contempo vittime e alleati di una modernità che lascia uno spazio d’azione a entrambi. Vittime perché è comodo a volte non avere scelta, affidarsi a un’imposizione che viene dall’alto senza domandarsi se sia giusto o sbagliato ridimensionare i propri ruoli per un bene comune, mettendo da parte le proprie ambizioni, mantenendo la stabilità di uno stato di cose già ben collocato; alleati perché sanno entrambi che è solo attraverso la rottura del loro legame che potranno essere davvero appagati. Il dramma e il vantaggio del presente, ciò che un tempo era taciuto perché una volta fatta una promessa non si tornava più indietro, è che ci siamo resi conto che se in una coppia non si è entrambi felici, nessuno dei due può esserlo davvero. La sensazione di essere i co-protagonisti della vita di qualcuno, di avere un ruolo marginale e funzionale solo al raggiungimento di uno scopo altrui, se per alcuni può essere una scelta anche goduta e voluta, per molti altri non è così; ed è quello che succede ai protagonisti di Storia di un matrimonio.
Né Nicole né Charlie stanno sbagliando, nessuno di loro ha veramente torto, entrambi hanno le loro ragioni. Ed è proprio questo stato di limbo a essere un tormento per chi li guarda divorziare, il fatto di non avere davvero motivo per avercela con nessuno dei due, il fatto di non avere davanti un responsabile su cui scaricare la colpa, come succede in tante storie che finiscono. Nicole e Charlie – sebbene ci sia un tradimento di mezzo, che risulta evidentemente del tutto secondario – non hanno veramente ragione di odiarsi, né di farsi la guerra. La guerra tra loro, infatti, la fanno gli avvocati divorzisti che si contendono la vittoria: un altro scontro di individualità, di orgoglio e di successo personale che tralascia una visione di insieme. Nessuno ha bisogno di spennare l’altro, nessuno necessita di incoronarsi vincitore, eppure ci si ritrovano comunque in mezzo, trasportati da una dinamica conflittuale che fa da motore a qualsiasi momento di distacco. Quando l’avvocato di Nicole le spiega come deve comportarsi per dare l’idea di essere una madre perfetta e ottenere così più tempo da passare col figlio, è la modernità stessa del presente che si appella ai vecchi sistemi per sfruttare stereotipi e luoghi comuni. La guerra che combattono, per chi li guarda, non ha senso; ciò che ha senso, invece, è il dolore che provano entrambi nel rendersi conto che non possono più stare insieme. Los Angeles e New York, le città simbolo di due anime americane, un conflitto estetico e ontologico che Woody Allen ha sempre sottolineato, sono un po’ anche il simbolo dei loro due caratteri e della loro sostanziale incompatibilità.
Quando finalmente la bomba esplode e Nicole e Charlie riescono a tramutare il loro conflitto composto e silenzioso in un vero e proprio litigio, la catarsi si compie. La scena più intensa del film, infatti, è quella in cui finalmente sono loro due a parlare dei motivi che li hanno spinti a dividersi, e non un avvocato divorzista. Tra i due finalmente riusciamo a vedere uno spiraglio di vita, un momento in cui siamo ancora in grado di capire sia il perché del loro amore sia il perché della sua fine. Non litigare, però, sembra ancora peggio che litigare troppo: fino a quel momento i protagonisti sembravano aver vissuto uno stato di immobilità, una paresi dei sentimenti che non aveva consentito a nessuno dei due di elaborare realmente quello che stava succedendo. Ma il dubbio su chi abbia realmente ragione rimane, così come il sospetto che se le vite di entrambi fossero state diverse, ognuna delle due piena e soddisfacente secondo le rispettive aspettative, non sarebbero arrivati a lasciarsi. Il problema però è che oggi non acconsentiamo più a mettere sotto al tappeto le nostre esigenze, ci siamo liberati – seppur ancora non del tutto – di gabbie sociali mascherate da doveri irrevocabili, e le conseguenze di questa libertà possono anche farci male.
Il punto di Storia di un matrimonio e di qualsiasi storia reale è che in una coppia le esigenze di entrambi dovrebbero essere una forza, non il nemico. Chiedersi chi ha dato cosa a chi, chi ha reso migliore l’altro, chi ha insegnato di più non ha senso se insieme si rende meglio e si è più forti: Nicole rivendica il merito del successo della loro compagnia teatrale arrivato grazie alla sua presenza e alla sua notorietà, Charlie il fatto di averla trasformata in un’attrice vera, di averle dato la possibilità di fare teatro. “Insegnare” qualcosa al proprio partner per poi morire di invidia se la fa meglio di te non è amore, è vanità; i loro litigi, le rivendicazioni e i meriti che si arrogano rispetto al successo delle rispettive carriere è l’epilogo triste di una collaborazione sentimentale, prima ancora che professionale, finita per quel senso di contrasto che si genera quando non c’è più un intento comune. Se in una coppia subentrano liste di quello che si ha dato, come a presentare un conto, vuol dire che probabilmente è perché l’amore è andato via. La storia di Nicole e Charlie è così struggente, perché non ce la possiamo prendere davvero con nessuno, né con uno di loro, né con il destino, né con amanti e tradimenti. Non c’è un nemico, non c’è una colpa facilmente identificabile. L’unica cosa con cui possiamo avercela è la realtà dei fatti per cui quando si è in due ci si può mettere uno accanto all’altro, o uno contro l’altro. Entrambe le cose sono un modo di stare insieme, solo che la seconda prima o poi fa cadere inevitabilmente uno dei due, come in qualsiasi duello.
Il divorzio è una grande conquista civile, ed è spesso anche la chiave per la pace di una famiglia, oltre che il centro di tante grandi narrazioni, da Bergman a Germi, i più distanti nel modo di raccontarlo, passando per registi come Woody Allen o cult come Kramer contro Kramer ai quali Storia di un matrimonio si avvicina molto. Baumbach ha deciso di raccontarci il suo aspetto più triste ma anche più vero, ossia che l’amore non vince proprio su tutto, e le separazioni possono essere struggenti proprio per la loro pacificità.