C’è una particolare tipologia umana che incarna in tutto e per tutto lo stereotipo dell’italiano, visto e immaginato da chi gode di una visuale anche solo un po’ distaccata. Si tratta di un uomo dal fare scanzonato, allegro e vorace, falsamente galante e autenticamente sfacciato. Procede nella vita con un tono umoristico sempre intriso di un certo cinismo malinconico che non manca di far ridere chi ne segue le gesta, pur riconoscendone l’incapacità di superare uno stadio infantile della vita. È spesso un uomo affascinante, dall’accento romano e dalla parlantina sciolta, mosso da una certa prepotenza che anche se può dar fastidio non arriva mai a essere odiosa perché sul giudizio morale che si potrebbe esprimere di questo italiano si impone sempre il sorriso – espressione di una certa joie de vivre mediterranea – che questo personaggio sa provocare. Su quanto questo tipo umano sia veritiero o reale si potrebbe discutere a lungo, accanendosi contro tutta la produzione culturale nostrana che – dalla migliore commedia all’italiana al più scadente dei cinepanettoni – ha fatto di questa figura la vera protagonista di un modo italico di dire e ridere di sé. Ciò che importa è però che questo tipo umano così sfaccettato eppure immutabile, è innegabilmente portatore di una certa verità umana. Se c’è un film in grado di raccontarne vizi e virtù nitidamente, senza retorica, dipingendo, di passaggio, anche il Paese che ha prodotto questo modello d’uomo, è senza dubbio Il sorpasso di Dino Risi. Grande successo di pubblico, uscì nelle sale nel 1962, nel pieno del miracolo economico, che seppe raccontare alla perfezione – con tutte le sue folgoranti luci e le sue illusorie promesse. Il capolavoro di Risi rientra nella produzione della commedia all’italiana, genere che, come disse Mario Monicelli, era in grado di trattare in termini comici, ironici e umoristici argomenti molto drammatici.
Il linguaggio scelto da Risi in questa occasione è quello del road movie, dove la strada e il percorrerla è in questo caso tanto elemento fondante del procedere della storia, quanto metafora di una via imboccata da un Paese che si diverte senza sapere con certezza quale sia la sua destinazione e le sue conseguenze. Siamo nel Ferragosto del 1962, in una Roma afosa e deserta dove Bruno Cortona (personaggio pensato su Alberto Sordi, ma infine assegnato a Vittorio Gassman), quarantenne aitante e chiassoso, vaga al volante della sua Lancia Aurelia convertibile, alla ricerca di un telefono pubblico. Lo accoglie in casa Roberto Mariani (interpretato da un giovane Jean-Louis Trintignant), timido studente di giurisprudenza alle prese con la preparazione degli esami. Da qui la personalità travolgente di Bruno trascinerà l’esitante Roberto sui sedili della decappottabile e i due intraprenderanno un viaggio del tutto improvvisato e pieno di imprevisti che li porterà a passare per cimiteri, spiagge, ristoranti sul lungomare e night club, passando anche a far visita ad alcuni parenti di Roberto e all’ex moglie e alla figlia di Bruno. La guida spericolata e la maleducazione di Bruno mettono in soggezione il sempre misurato Roberto, di cui conosciamo i pensieri grazie a una voce fuori campo che ne rivela il disagio. Lo studente vorrebbe tornare a Roma sui polverosi manuali di Diritto amministrativo, ma è incapace di imporsi. Non solo per la debolezza di un carattere sempre preoccupato di “non disturbare”, ma anche per il fascino evidente che esercita su di lui la tracotante personalità di Bruno.
L’esuberanza del compagno d’avventure, la prontezza con cui si prende gioco delle autorità, il fare beffardo e truffaldino, il suo dinamismo astuto fatto di un’intelligenza tutta pratica e la sfacciataggine che usa nel tentare di conquistare ogni donna che gli si presenta davanti (fallendo sempre miseramente), svela al giovane studente un modo diverso di vivere, che pare adattarsi a ogni musica e a ogni luogo godendo dei piaceri della festa epocale che l’Italia sta vivendo. Se quindi Roberto si accorge presto che Bruno non ha meta né scopo, e che la sua spigliatezza esibita nasconde una malinconia sommessa, è comunque ammaliato dalla sua capacità di procedere cantando, sfottendo, conquistando, violando ogni regola e norma a suo personale vantaggio. Roberto, dal canto suo, rappresenta l’altra faccia della medaglia. Rappresenta l’italiano serioso, spesso noioso, che non sa ridere – nemmeno amaramente – delle grazie e le disgrazie che la strada porta con sé. È un uomo che rimane in disparte, ai margini del boom, più per incapacità individuale che per scelta reale o disinteresse. Roberto ha idealizzato l’infanzia e la famiglia, incapace di vederne i vizi e le contraddizioni borghesi, l’ipocrisia e la prepotenza di classe, cose che invece coglierà in un batter d’occhio Bruno quando i due andranno a far visita ai parenti di Roberto che vivono in una ricca tenuta in Toscana.
I due personaggi funzionano quindi per opposizione. Nulla li accomuna se non lo spazio dell’abitacolo dell’automobile che si trovano a condividere per caso. E, nonostante ciò, Bruno e Roberto si fondono e confondono, diventando l’uno per l’altro lo stimolo per una presa di coscienza. Se l’aspirante avvocato interpretato da Trintignant ha una personalità esclusivamente “mentale” e fatica ad agire, l’incontro con Bruno lo porta a prendere delle iniziative e a vivere un po’ più spensieratamente, ovvero “fuori dal pensiero” e “dentro all’azione”. Al contrario, Bruno, tutto istinto e frenesia, inizierà ad aprirsi spiragli di riflessione che gli erano prima totalmente estranei. I due quindi si fuggono, si rincorrono e infine si sorpassano, in un viaggio che non è solo quello verso le coste festive della Versilia ma anche quello interiore della riscoperta di un altra maniera di abitare il mondo e di guardare a sé. Il viaggio dei due si rivela però fallimentare, così come sono fallimentari i loro destini. Il contesto sociale ed economico, infatti, li travolge fagocitandoli senza rimedio.
Se i cosiddetti “tempi che corrono” – ovvero quel presente gioioso, frivolo e ebbro di canzonette, decappottabili e divertimento – vengono cavalcati sempre “a scrocco” nel caso del vitale e sfacciato Bruno Cortona, per quanto riguarda il timido studente Roberto Mariani, gli stessi tempi e la società edonistica che ne è l’espressione, vengono subiti in uno stato di perenne estraneità e inadeguatezza. Non è un caso che Bruno guidi spericolatamente un’Aurelia Sport, inserendosi così a pieno nel processo di motorizzazione del Paese che demarcava la linea tra chi negli anni del boom poteva credersi protagonista e chi, come invece Roberto che non ha nemmeno la patente, ne rimaneva consapevolmente escluso. Quella macchina è però per Bruno l’espressione stessa di una condanna alla precarietà e alla solitudine. Lo si capisce quando è lui stesso a definirla “casa”: l’unico luogo che gli è affine perché, dice, “è come stare in nessun luogo”. Bruno, infatti, è assente a sé stesso e a chi della sua presenza avrebbe più bisogno. Preso in un giro vorticoso di ambiziosi affari – che si rivelano invece misere operazioni truffaldine ai danni del primo commendatore che passa – l’esuberante quarantenne si dimena continuamente per non dover affrontare la pena di riflettere su di sé e sul gramo presente che ha costruito.
Nel momento in cui l’auto si ferma e sarebbe ora di tornare a casa, al personaggio interpretato da Gassman toccherebbe chiedersi dove sia casa e di cosa sia fatta. Quella che avrebbe potuto avere, con la donna che ha sposato a vent’anni e con cui ha fatto una figlia, l’ha rinnegata per mancanza di senso di responsabilità e incapacità di rallentare, soffermarsi e amare – sé stesso, con sincerità e senza esibizionismo, prima ancora che una moglie e una figlia. Bruno si trova così solo, senza famiglia né amici, narciso in apparenza e malsicuro nel profondo dell’animo, incapace di dare consigli alla giovane figlia che vorrebbe vedere in lui un padre ma sa bene di non potersi aspettare altro che un ragazzo cresciuto solo esteriormente. Quando Bruno la rivede dopo anni in cui non si è curato di lei, spaesato le dice: “Ma che hai fatto? Sei cambiata!”, “Beh, pare che si debba crescere”, è l’ammonizione che riceve.
Il sorpasso è anche la storia di una massa che travolge gli individui. Una società, quella del miracolo economico, che nell’imperativo dello spendere e del divertirsi non lascia spazio e tempo al raccoglimento e alla ricerca di un senso. Questo è particolarmente evidente in una delle scene finali, quando Bruno e Roberto, sorpresi dalla notte senza aver trovato una pensione in cui dormire, si sdraiano in spiaggia e finalmente parlano a cuore aperto, dando spazio ai loro intimi timori e rimpianti, confidandosi come due veri amici. La mattina seguente vengono però travolti e risvegliati da una pallonata accompagnata dalla musica allegra dell’estate e da una massa di bagnanti in bikini che sottrae loro, e in maniera figurata all’individuo, ogni possibilità di ritagliarsi uno spazio intimo, prezioso per l’elaborazione del proprio vissuto. Ricomincia la festa: chi non balla è fuori.
Questo film è il perfetto esempio di un cinema fatto di ossimori, che ha saputo raccontare la spensieratezza in maniera pensosa, la leggerezza con profondità. Tra sorriso ammiccante e critica sociale, Dino Risi, non si pone al disopra delle parti come un professore da una cattedra o un giudice dal pulpito, non supera i suoi personaggi per darne conto, striscia invece fra loro, senza severità, e li ama anche quando sono imperfetti e a tratti sgradevoli, perdonandone gli eccessi e le debolezze perché in loro coglie una certa malinconia e autocommiserazione, anche se fugace, in quei brevi momenti di solitudine in cui, guardandosi allo specchio, vedono il riflesso di un destino fallimentare.
Nel procedere di un viaggio che vede i due sempre sulla soglia di un luogo o un di un evento, ospiti fuori luogo di un divertimento al quale, per ragioni contrarie, non sanno prendere parte, il regista non ci presenta il destino di due anti-sociali, ma due frammenti speculari di ciò di cui la società di massa è composta e di ciò che ha creato: persone fuori luogo che, nel riconoscersi incapaci di stare al passo con i tempi, decidono di ballare ancora un’ultima canzone e aggiungere ancora un’ultima tappa al proprio viaggio, andando a dare forma a un divertimento apparente, composto di individualità alienate e angosciose. Il Sorpasso è il racconto di un tempo fondamentale per capire il presente del nostro Paese, un tempo che Dino Risi ha amato, intuendone in anticipo i lati oscuri, e che assomiglia molto a Bruno Cortona: miracoloso ma imbroglione, mai all’altezza delle sue promesse e spensierato solo in apparenza.