Non molto tempo fa, il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi ha scritto un post in cui spiegava come cuocere la pasta a fuoco spento. Si chiama “cottura passiva” ed è una tecnica che esiste da sempre, nonostante la valanga di commenti indignati e risposte da autorevoli chef che ne hanno prontamente negato la legittimità. Al di là delle polemiche – tipiche di quel filone per cui in tutto il mondo gli italiani sono famosi per le loro sfuriate a tema cibo, Italians mad at food – il senso del post di Parisi era quello di prepararci a un inverno in cui le bollette saranno talmente tanto care che persino una pasta cotta a fuoco spento potrebbe aiutarci a risparmiare qualcosa. È il tema del momento: il caro bollette, la crisi energetica dovuta a una guerra in corso che non sembra proprio voler finire, il lento e inesorabile disastro annunciato che ci aspetta e che non riguarda solo questo specifico argomento. È stato così anche con la pandemia, è così ogni giorno con il cambiamento climatico. Il trailer dell’ultimo film di Paolo Virzì, Siccità, si conclude con Monica Bellucci che chiede a un accademico esperto di riscaldamento globale: “Che futuro ci aspetta?”. È una domanda che ci facciamo un po’ tutti, quando ci troviamo a contemplare il fatto di dover ricalibrare le nostre esistenze su un mondo in cui niente di ciò a cui ci siamo abituati negli ultimi sessant’anni come genere umano è più scontato, nemmeno il futuro.
Non è la prima volta che un regista contemporaneo mette in scena l’angoscia che scaturisce dall’idea di un’apocalisse climatica. Abbiamo molti esempi americani, campioni del genere disaster movie – pensiamo a The Day After Tomorrow, del 2004 – soprattutto grazie ai potenti mezzi tecnologici hollywoodiani che ne consentono la realizzazione. Non ultimo il film di Adam McKay, Don’t Look Up, che ha messo in scena attraverso una situazione paradossale, ossia l’arrivo di un asteroide sulla Terra di cui sembra non importare a nessuno, il senso di impotenza e di frustrazione che vivono tutti quelli che da anni cercano di innescare un piano di salvataggio del pianeta dai cambiamenti climatici: scienziati, attivisti, giornalisti, personalità impegnate nella causa. Per quanto riguarda il cinema italiano, invece, le pellicole con un tema simile sono molto meno frequenti, per non dire quasi inesistenti. La ragione è di chiara natura produttiva: da sempre il nostro cinema è improntato più sulla scrittura che sulla tecnologia, con tutti i pro e i contro che ne conseguono. La prima cosa che salta all’occhio guardando Siccità è che il film, nonostante sia un classico esempio di opera incentrata su sceneggiatura e performance degli attori, riesce molto bene nella rappresentazione formale di una città in preda a una catastrofe ambientale.
Un punto forte di Siccità, infatti, è che nel complesso, sia da un punto di vista formale che nel racconto, non è una rappresentazione così distante dalla realtà. Più che un film distopico sul futuro, questa Roma che ci racconta Paolo Virzì, senza acqua corrente, dove non piove da anni e dove le temperature fuori controllo scatenano un’epidemia tropicale, fa un certo effetto perché sembra del tutto plausibile – ed è anche ricostruita molto bene. Il Tevere prosciugato, dentro cui si ritrovano spazzatura e antichi reperti storici rimasti sepolti nei millenni – cosa che avviene regolarmente a ogni scavo per la metropolitana – o le immagini bibliche che accompagnano la trama, dall’invasione di blatte alle scene mistiche che sembrano voler omaggiare una certa estetica sorrentiniana, sono scenari che, pur dando un senso di esagerazione apocalittica non sono poi tanto distanti dalle ipotesi di futuro che ci aspetta a breve termine. E oltre all’aspetto climatico e pandemico che il film racconta, c’è anche un altro elemento centrale della trama, un lato del presente che non ha proprio nulla di distopico o di surreale: la privatizzazione spietata di qualsiasi bene pubblico.
Siccità si struttura infatti attraverso una rete di racconti intrecciati tra loro, distribuiti su diversi piani sociali; e in due delle tante trame proprio la privatizzazione è il motore delle azioni. C’è infatti una famiglia ricca e potente romana che, pur di tenere viva la sua catena di alberghi lussuosi con piscine e fontane, finge di avere un piano di sostenibilità perfettamente funzionante, mettendo in prima linea come portavoce la figlia ingenua e insicura, interpretata da Emanuela Fanelli, per fare pena ai giornalisti e ai protestanti che chiedono la chiusura di quell’oasi paradossale tenuta in vita da un bene pubblico come l’acqua. E poi c’è il personaggio di Valerio Mastandrea, Loris, ex autista di un politico, ridotto alla miseria dopo il taglio alle auto blu e reinventatosi tassista con un’app che ricorda Uber. Come Loris sia arrivato a quel punto molto basso della sua esistenza lo si apprende grazie a una serie di allucinazioni che infestano le sue giornate, ma una in particolare rivela un aspetto importante delle cause della sua condizione: il politico per cui ha lavorato molti anni rivendica il progresso, la modernità, il futuro, l’apertura e soprattutto le concessioni ai privati che il suo partito ha dato senza pensare alle conseguenze: “Ma vi abbiamo dato anche le unioni civili”, sottolinea il fantasma del passato che ricorda un po’ gli spiriti di Dickens.
Il ritratto corale che Virzì mette in scena in Siccità è dunque un puzzle di racconti che spaziano tra diversi livelli di disagio contemporaneo, prima di tutto sociale e poi personale, che viene solo enfatizzato dallo stato di calamità perenne in cui si ritrova la Capitale. In questo dipinto, chi ha il potere ha anche la libertà di sopravvivere, la legge del più forte che si applica in una società evoluta e democratica come la nostra: per quanto non siamo ancora di fronte a un Tevere prosciugato, non è molto diverso da come vanno spesso le cose oggi. La trasversalità con cui Virzì passa dai piani alti agli scantinati del tessuto sociale italiano è forse il tratto più interessante di questo regista che, attraverso commedie leggere e godibili, da anni racconta il nostro Paese riuscendo a cambiare registro senza mai scadere. Non bisogna dimenticare infatti che il regista di Livorno è forse uno dei pochi eredi diretti degli sceneggiatori più importanti della commedia all’italiana, un genere che per diversi anni è riuscito nel difficile intento di essere divertente e profondo allo stesso tempo, Age&Scarpelli – non a caso ha girato un documentario su di loro.
Siccità si inserisce così in quel filone cinematografico autoriale che coniuga la scrittura comica – senza dimenticare che Virzì con Il capitale umano ha dato prova di sapersi misurare con il genere drammatico – e la rappresentazione cinica delle nostre realtà lavorative e familiari. Pensiamo a un film come Caterina va in città, del 2003, in cui la protagonista, un’adolescente che si trova da un paesino laziale a una scuola del centro di Roma, fa da spettatrice tra due mondi coinvolti in un finto conflitto, declinazione dello stesso stato di privilegio che si veste con due maschere diverse: l’eterno scontro tra zecche e parioli, che oltre alle mode giovanili incarnano anche le famiglie, lo status da cui provengono. Né Caterina né suo padre, un grillino ante litteram, riescono a inserirsi davvero in nessuno dei due ambienti, perché in fondo resteranno sempre dei semplici provinciali, troppo piccolo borghesi per essere accettati dai piani alti dell’alta borghesia romana. Una trama che Virzì aveva percorso in modo simile, anche se con esiti e sviluppi diversi, con Ovosodo, nel 1997, ambientato a Livorno, sua città natale: anche in questo film il protagonista, un ragazzo che viene dal sottoproletariato della città operaia toscana, esplora il mondo di chi nasce con i mezzi per poter diventare ciò che vuole nella vita, e mentre gli altri spiccano il volo, alla fine lui rimane dove è sempre stato. Sia Caterina va in città che Ovosodo che Tutta la vita davanti, del 2008, sono lungometraggi che potremmo definire film di formazione fallita: seppur divertenti e leggeri, gli eroi di Virzì dimostrano che non basta credere di potersi affrancare dalla propria condizione di origine per uscire davvero da quello stato di frustrazione e impossibilità, dal momento in cui è il contesto sociale ed economico in cui viviamo che crea queste disuguaglianze insanabili, non solo la responsabilità del singolo soggetto.
Anche Siccità racconta qualcosa di simile, in linea con le trame fallimentari, disilluse e autoironiche di Virzì. La sconfitta di tutti i suoi personaggi non è un insieme di sconfitte individuali e slegate: tutto è intersecato, dalla vita di un barbone a Termini alla casa di un primario d’ospedale, dal terrazzo di un’attrice famosa all’appartamento di un’infermiera, ogni pezzo della realtà si concatena in un rapporto di causa ed effetto. Non è la singola trama a tenere in piedi il mondo, ma la collettività e l’insieme delle nostre azioni. Per quanto questa ragnatela di storie tenda in alcuni punti a diventare debole per via forse dell’eccesso di materiale narrativo, Siccità è un ottimo esempio di come si possano stimolare certe riflessioni senza fare prediche né essere paternalisti. Il messaggio più interessante che lancia Virzì con questo film, al di là della lettura immediata, un chiaro monito sul cambiamento climatico, forse è proprio questo: nessuno è padrone della sua trama, nessuno è un semplice individuo staccato dal mondo. È la coralità del tessuto sociale che determina i cambiamenti, sia in negativo che in positivo: ed è forse qua che possiamo trovare la risposta alla domanda “Che futuro ci aspetta?”.