Ognuno di noi ricorda almeno una volta in cui è stato costretto a intrattenere conversazioni noiose o imbarazzanti con persone avide di dettagli sulla propria vita privata: i raduni di famiglia sono forse i più emblematici di questa situazione, oltre che una delle occasioni su cui è più facile fare dell’ironia, in letteratura, al cinema, a teatro e sui social.
Il film di esordio della regista Emma Seligman, Shiva Baby, è la perfetta trasposizione cinematografica dell’incubo di qualsiasi persona introversa – o anche semplicemente riservata –, costretta a interagire con un’orda di persone che, educate ma indefesse, si informano su potenziali “fidanzatini”, esami e progetti per il futuro. In Shiva Baby l’introversa vessata da domande stupide è una giovane studentessa universitaria, Danielle (interpretata da Rachel Sennott), per la quale lo shiva del titolo, il funerale ebraico a cui è costretta a partecipare, diventa il teatro di una grottesca rimpatriata che include un’infinità di parenti e amici dei suoi genitori, nonché la sua ex ragazza e l’uomo più grande di lei con cui ha avuto rapporti sessuali a pagamento, che arriva alla cerimonia accompagnato dalla biondissima moglie shiksa (ovvero non ebrea), Kim, e con la loro adorabile figlia. Mentre cerca di mantenere il controllo sul caos emotivo in cui questi incontri l’hanno gettata, Danielle sembra perdere quello sulle sue azioni: un selfie in topless, un telefono dimenticato in bagno e una serie di battute, sguardi e maldestre manovre con caffè e vasi da fiori sono gli ingredienti con cui Seligman porta sullo schermo la totale inettitudine e inadeguatezza di Danielle in un mondo che la vuole educata, socievole, elegante, realizzata sul piano lavorativo e personale.
I dialoghi serrati e brillanti, coronati sempre da una battuta caustica o da una freddura, si inseriscono nel solco della migliore tradizione della commedia newyorkese a là Woody Allen, mentre gli ambienti chiusi e la sensazione di claustrofobia ricordano il Roman Polanski di Carnage. Seligman sviluppa il cortometraggio omonimo che aveva girato ai tempi dell’accademia cinematografica a New York, mantenendo la cornice dello shiva e l’impostazione teatrale classica, circoscritta nel tempo, nel luogo e nell’azione scenica. La sceneggiatura, però, ricorda molto di più quella di uno spettacolo del teatro dell’assurdo, dove il protagonista è del tutto in balia di agenti esterni che ne annichiliscono la volontà, l’energia e la forza vitale. Se nel teatro dell’assurdo il disagio è legato generalmente alla condizione esistenziale dell’uomo, privo di punti di riferimento e certezze storiche e filosofiche, qui il senso di impotenza è determinato da un contesto sociale ben determinato, ovvero la dispotica e invadente famiglia di Danielle, che più la riempie di attenzioni e più la fa sentire inadeguata e fragile. È proprio su questo meccanismo che si consuma lo scontro tra due generazioni di donne, quelle che sono riuscite a “realizzarsi”, cioè ad appagare almeno in parte le aspettative sociali, e le ragazze prive non solo di un futuro, ma anche di modelli di crescita a cui ispirarsi.
Ognuna, infatti, dalla casalinga degli anni Cinquanta all’imprenditrice in tailleur e tacchi alti che ostenta un certo tipo di emancipazione femminile, mostra tutto il suo anacronismo: Danielle è insofferente non solo verso la madre, ma anche verso Kim, che incarna la perfetta donna emancipata e indipendente, ricca, affascinante, realizzata tanto nel lavoro quanto nella vita privata. Quando sua madre la incoraggia a chiederle di lavorare con lei, una donna che “si è fatta da sé”, Danielle risponde con malcelata superiorità che un lavoretto di favore nel settore marketing non è esattamente ciò che cerca nella vita, suscitando nei presenti un certo sbigottimento, nonché l’indignazione per quello che probabilmente alcuni politici italiani definirebbero “essere choosy”. Cosa potrebbe cercare una ragazza se non un’occasione per inserirsi in un’azienda affermata, fare “tanta gavetta” per poter ambire a un lavoro prestigioso e diventare una splendida madre trentenne in carriera?
La peculiarità di questo film, e il suo merito, è quella di dare voce a una generazione ancora poco rappresentata sul grande schermo, se non in narrazioni semplicistiche e appiattite sulla retorica dei ragazzini che il Time ha definito “pigri, superficiali e narcisisti”. Danielle non è uno stereotipo, ma incarna in maniera attendibile il senso di disagio e smarrimento che ogni ventenne prova al suo primo contatto con il mondo degli adulti, è il personaggio del romanzo di formazione ideale che tutti noi viviamo nei periodi cruciali della nostra vita, come, per esempio, la scelta dell’università. La cosiddetta Generazione Z, povera, precaria, incerta, ma allo stesso tempo autoconsapevole del grado di libertà personale a cui può ambire, è una generazione che non chiede né giudizi né tantomeno una sorta di generosa comprensione da parte degli adulti: rivendica semplicemente il diritto a esistere, a modellare la propria vita secondo un sistema di valori e di aspettative che non possono coincidere, per motivi storici, economici, ambientali, con quelli dei loro genitori, perfino con quelli dei loro fratelli maggiori. Il narcisismo di cui parla il Time si riferisce a questo: a desiderare la massima libertà di scelta per orientarla prima di tutto su se stessi. Danielle, quindi, non è narcisista: il suo ripiegarsi in se stessa, il suo disagio nel rapporto con gli adulti, non sono indice di una compiaciuta auto ammirazione, ma di una faticosa ricerca di sé, spesso deludente, difficile tanto da portare avanti quanto da comunicare agli altri.
Il punto di vista del film, così vicino alla psicologia della protagonista, palesa tutti i limiti, le manie, le ossessioni, le ipocrisie dell’ambiente sociale in cui avviene l’azione e, per estensione, di un’intera struttura ideologica che vuole ragazze decise, indipendenti, sicure di sé, focalizzate sullo studio e sul lavoro, come poteva esserlo una giovane studentessa universitaria, per esempio, negli anni Ottanta.
Danielle, invece, ricerca una sua idea autonoma di femminismo, di sessualità, di appagamento sociale. Per esempio, il fatto che voglia mettere da parte del denaro lavorando come sex worker nonstante provenga da una famiglia benestante fa di lei una pessima femminista dal punto di vista di una donna manager come Kim, mentre, per Danielle, sembra essere un tentativo di rivendicazione del proprio corpo. Infatti, nonostante la liberazione e l’ampliamento delle identità, il corpo è ancora il punto su cui le ragazze continuano a sentirsi giudicate. Danielle sente su di sé lo sguardo indiscreto e preoccupato di una zia che le chiede se mangia a sufficienza, vista la sua corporatura minuta, quello della madre che la vuole in ordine e con un bel sorriso amabile sul viso, quello, imbarazzato e allo stesso tempo attratto, del suo sugar daddy: il suo giovane corpo è un terreno di scontro su cui convergono infinite aspettative sociali, dalla salute al sesso, dalla bellezza alla maternità.
Ecco perché la sua (volontaria) dipendenza economica da quest’uomo sposato e molto più grande di lei sembra essere una riappropriazione del proprio corpo, un modo per sfuggire alle pretese del suo ambiente, una critica all’idea di sessualità normata che le viene imposta. Addirittura, si potrebbe pensare che il modo in cui Danielle gestisce il suo “capitale erotico” abbia il fine di esercitare una forma di influenza, se non di controllo, proprio su quella generazione da cui si sente incompresa e rifiutata. Il rapporto con il proprio corpo è conflittuale solo quando è filtrato da punti di vista esterni, quelli di uomini e donne più grandi di lei, ma non quando lei ne è assoluta padrona. Sa – o forse intuisce soltanto – che con il suo solo esistere, il suo corpo è portatore di una intrinseca “mostruosità”, ovvero una sessualità scandalosa, una carica distruttiva che mette in crisi i rapporti sociali fondati su una solida morale perbenista.
È in quest’ottica che dobbiamo leggere il suo rapporto con Maya, la ex ragazza a cui Danielle è ancora profondamente legata, l’unico personaggio della stessa età della protagonista. Pur essendo molto diversa da lei, con il suo piglio cinico e deciso e la sua determinazione nel frequentare la facoltà di Giurisprudenza, l’insofferenza che mostra per gli adulti boriosi e grotteschi è la stessa provata da Danielle. Il loro amore, a tratti faticosamente represso, a tratti passionale e adolescenziale, è l’unica valvola di sfogo di una giornata assillante, la sola nota autentica nel teatrino di buona educazione che entrambe sono tenute a mantenere. Sarà infatti la mano di Maya che Danielle stringerà al culmine dell’imbarazzo e del cringe, quando suo padre, animato da buone intenzioni e del tutto ignaro del triangolo amoroso tra sua figlia, Maya e il suo “paparino di zucchero”, insiste per dare a tutti un passaggio a casa, stipandoli nel van di famiglia – un’ulteriore compressione dello spazio vitale di Danielle, un incubo senza fine di cui lo spettatore, pur amaramente, ride di gusto. Come Dustin Hoffman e Katharine Ross nella scena finale de Il laureato, le due ragazze sul sedile posteriore dell’auto si stringono la mano e guardano al futuro con un sorriso un po’ incerto, sentendosi sempre un po’ sole e malinconiche per l’infanzia perduta. Così, in un passaggio sottile dal particolare al generale, il ritratto del giovane che si affaccia sul mondo degli adulti perde ogni connotazione specifica e diventa un tema universale, la storia di ogni generazione in ogni tempo.