Il 31 dicembre del 2000 sono scaduti in Europa i diritti d’autore sull’intera opera di Arthur Conan Doyle. Questa data è stata epocale per i cultori dell’investigatore con la pipa e il deerstalker: da quel momento sono arrivate sul mercato migliaia di nuove opere con protagonista Sherlock Holmes, un personaggio che sin dalla sua prima apparizione nel 1887 è stato oggetto di una vasta produzione apocrifa. Le nuove avventure di Sherlock Holmes – scritte anche da autori illustri come Stephen King – spesso prendono spunto da uno dei tanti dettagli disseminati per i libri, anche se nessuna delle tante rivisitazioni è riuscita a rendere la complessità del personaggio e delle sue storie come Sherlock, la serie Bbc creata da Steven Moffat e Mark Gatiss e interpretata da Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, rispettivamente nei ruoli di Holmes e Watson. A dieci anni esatti dalla sua messa in onda su Bbc One e con sole quattro stagioni da tre episodi ciascuna più uno speciale, Sherlock è ancora tra le 20 serie più belle di sempre per Imdb ed è diventata un vero e proprio cult per gli appassionati, tanto che persino la Royal Mail ne ha celebrato il decimo anniversario con una collezione di francobolli.
Moffat e Gatiss hanno avuto l’idea di sviluppare una nuova serie sull’investigatore mentre lavoravano all’adattamento di Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (che è diventato la serie Jekyll) e a un episodio di Doctor Who dedicato a Charles Dickens. Secondo i due produttori, nessuna versione recente di Sherlock Holmes riusciva a eguagliare lo humour e l’intelligenza witty che attraversa i libri di Conan Doyle o i film degli anni Trenta e Quaranta con Basil Rathbone (a cui Sherlock rende omaggio con una scena ambientata in un palazzo chiamato “Rathbone Place”). L’idea fu quindi di ricollocare i famosi racconti di Conan Doyle nel presente: Holmes non avrebbe più usato i telegrammi e la lente di ingrandimento per risolvere i suoi casi, ma il gps, il cellulare e Twitter. Watson non avrebbe scritto, come narratore, i suoi racconti sullo Strand Magazine, ma su un blog. A fare da sfondo resta sempre Londra, una città ormai modernissima ma in cui rimangono ancora le tracce del suo passato, compreso ovviamente l’iconico appartamento al 221B Baker Street, non a caso uno dei pochi elementi a rimanere inalterati anche nella puntata speciale ambientata nel 1895.
Ciò che rende Sherlock una serie così bella è senza dubbio la sceneggiatura – scritta da Moffat e Gatiss insieme a Stephen Thompson – che ha saputo unire passato e presente senza snaturare i racconti originali e senza correre il rischio di collocarli semplicemente in un’ambientazione moderna. Gli autori sono infatti riusciti a integrare la “scienza della deduzione” di inizio Novecento con le tecnologie attuali, creando un intricato gioco di specchi con i racconti di Conan Doyle. Così mentre nell’originale Uno studio in rosso l’indizio sta nella parola “Rache” (in tedesco, rabbia), che gli investigatori di Scotland Yard pensavano fosse il nome “Rachel”, nell’episodio Uno studio in rosa della serie l’indizio è proprio “Rachel”, con Sherlock che prende in giro i poliziotti per essersi fatti suggestionare dall’idea che si trattasse della parola tedesca. Questo esempio spiega bene uno dei motivi ricorrenti della serie, ovvero l’“hidden in plain sight”, il nascosto in piena vista. Mentre tutti i personaggi che circondano Sherlock si impegnano a cercare le spiegazioni più astruse e fantasiose, Holmes riesce a cogliere i più semplici e banali dettagli del comportamento umano, che sono sempre anche le chiavi per risolvere i vari casi.
Questa capacità, spiega lo stesso Sherlock, è dovuta al suo essere un “sociopatico ad alto funzionamento”. Sherlock si limita a osservare l’umanità senza sentirsene parte, trattandola al pari di qualsiasi altro “caso” gli capiti per le mani, spesso finendo con il mortificare chi gli sta intorno con le sue deduzioni. Chi ha un disturbo antisociale di personalità non rispetta le regole sociali, è indifferente se non proprio insofferente rispetto ai sentimenti altrui, spesso è misantropo e alienato, tende a manipolare le persone per il gusto di farlo. È il tipico profilo del serial killer: sia il “Lady Killer” Ted Bundy che John Wayne Gacy (il “Killer Clown” che ha ispirato Pennywise di It) erano sociopatici. E infatti subito si insinua il dubbio, in chi circonda Sherlock ma anche nello spettatore, che sia lo stesso Holmes a commettere i crimini per poi risolverli, in un delirio autoreferenziale. Per Sherlock, infatti, ogni crimine da risolvere non è un atto di giustizia, ma un gioco intellettuale, una messa alla prova della sua intelligenza. Così presto si passa dal risolvere crimini comuni a inseguire, volente o nolente, i sadici “giochi” della sua nemesi, James Moriarty. Proprio come nei romanzi di Conan Doyle, il professor Moriarty è un doppio rovesciato di Sherlock, un sociopatico dall’intelligenza incredibile pari a quella dell’investigatore ma che, per sua ammissione, non sta “dalla parte degli angeli”, ma è un “criminale a contratto”, cioè l’esatto opposto di Holmes, che è un “investigatore a contratto”. Moriarty – interpretato da un attore eccezionale come Andrew Scott, noto anche nei panni dell’hot priest di Fleabag – e Sherlock sono due facce della stessa medaglia, persi nel labirinto delle loro menti superiori al resto dell’umanità. Entrambi si prendono gioco della giustizia “terrena” incarnata dal fratello di Holmes, Mycroft, un agente dei servizi segreti inglesi che passa dalla fedeltà alla corona a negoziare con cellule terroristiche.
In Sherlock è evidente infatti la dura critica alle dinamiche politiche della Gran Bretagna, che spesso sfociano nell’imperialismo e nella corruzione internazionale. John Watson, come quello originale, è un reduce della guerra in Afghanistan che soffre di disturbo da stress post-traumatico: nei romanzi di Conan Doyle si tratta della seconda guerra anglo-afgana del 1880, mentre nella serie del conflitto ancora in corso cominciato nel 2001, “la stessa invincibile guerra di allora”, secondo Mark Gatiss (che, oltre a essere autore della serie, interpreta proprio Mycroft). Holmes, da detective improvvisato che si diverte nel dar fastidio all’ispettore di Scotland Yard Greg Lestrade risolvendo i casi prima di lui, di fronte alla minaccia degli attentati sempre più folli di Jim Moriarty diventa necessario alla sicurezza della nazione intera. Questo non solo perché Holmes è l’unica persona che possa tenere testa all’intelligenza di Moriarty, ma anche perché il governo inglese è ormai colluso a un tale livello con tutti gli affiliati del terrorista da essere ormai alla sua mercé. Holmes si trova così a vestire i panni dell’eroe nazionale, per non dire della celebrity che ha sempre i paparazzi fuori dal portone di casa, pronti a immortalarlo con il famoso cappello.
A fare da contraltare alla spietatezza incarnata non solo da Moriarty, ma anche dai vertici politici e finanziari di tutto il mondo, c’è il grande tema dell’amicizia e dell’amore. Sebbene Sherlock sia, almeno in apparenza, un antisociale incapace di provare sentimenti, quella tra Holmes e Watson è forse una delle rappresentazioni mediatiche migliori dell’amicizia tra adulti che una serie ci abbia mai fornito. Il dottor Watson è il responsabile dell’educazione sentimentale di Sherlock, che gli mostrerà non solo i lati positivi dell’amicizia, ma anche quelli negativi, che sono inevitabili tra due adulti: rendersi conto che le proprie vite prendono due strade diverse, rispettare le scelte dell’altro anche quando ci sembrano incomprensibili. Anche l’amore è una materia sconosciuta per Sherlock Holmes, che dice di non provare alcun impulso romantico o sessuale, ma rimane sconvolto e confuso da Irene Adler, “la donna”, che diventa “un granello di sabbia in uno strumento particolarmente delicato”. Su questa relazione, così come in generale sulla sessualità di Holmes, sono state fatte mille speculazioni: secondo l’attore che lo interpreta, Benedict Cumberbatch, Sherlock è asessuale, mentre per lo sceneggiatore Steven Moffat non è “né etero né gay” (sebbene la tensione erotica con Watson abbia fatto sospirare i “Johnlock”, i fan che tifavano per una loro storia d’amore), mentre altri lo considerano un’icona bisessuale.
Il fatto che dieci anni dopo la sua messa in onda ci sia ancora gente che bisticcia sull’orientamento sessuale di Sherlock fa capire quanto questa serie sia amata e importante e quanto unici e indimenticabili siano i suoi protagonisti. Ma forse questo, insieme a tanti altri, resta uno dei misteri irrisolti che rendono ogni rewatch di Sherlock un’esperienza ancora più affascinante della prima visione.