“Noi siamo l’Italia che lavora, produce e paga le tasse” era il motto di un movimento che in Italia ebbe vita piuttosto breve ma il cui nome è diventato un’espressione ancora in voga. La Maggioranza silenziosa, usato tutt’oggi come contrapposizione alla “minoranza rumorosa”, concetti che si applicano molto bene anche alle dinamiche di internet e dei suoi prodotti mediatici, era un insieme di forze politiche conservatrici nate in opposizione alla sinistra rivoluzionaria del Sessantotto. Monarchici, membri dell’MSI, liberali, conservatori, membri della Dc: l’idea di fondo era che la buona borghesia, quella lombarda in particolare, fosse la vera sostanza della società, al contrario di chi creava scompiglio e provava a sovvertire gli ordini economici e sociali vigenti. Tra i militanti di questo movimento anticomunista e conservatore che puntava a ostacolare qualsiasi istanza progressista provenisse dalla sinistra, in un periodo in cui le proteste facevano sì che i diritti dei lavoratori, delle donne e dei giovani diventassero parte integrante della nostra società, c’era anche il nostro attuale presidente del Senato, Ignazio La Russa. L’11 marzo del 1972, infatti, La Russa era in piazza a Milano, a un comizio della Maggioranza silenziosa. E per uno straordinario quanto grottesco gioco del caso, il suo intervento è visibile ancora oggi in quanto parte del film di Marco Bellocchio di quello stesso anno, Sbatti il mostro in prima pagina.
Ci sono fin troppe ragioni per cui questo film andrebbe visto, al di là del prezioso cameo di un personaggio che ha attraversato tutte le epoche recenti della politica italiana, vestendo sempre i panni dell’orgoglioso esponente di estrema destra col busto di Mussolini in casa. Prima di tutto, perché si tratta di un’opera cinematografica di grande valore, con una regia cupa e cruda, nello stile di Bellocchio, sempre attento alla ricostruzione di momenti topici della storia del nostro paese. Poi, perché le interpretazioni di Gian Maria Volontè e di Laura Betti, rispettivamente nei ruoli del redattore capo di un giornale e di una donna vicina agli ambienti della sinistra extraparlamentare che viene usata come esca per condannare un giovane militante, sono un chiaro esempio di bravura e unicità nel cinema italiano che già da sole valgono tutto il film. Il lungometraggio, che mette in scena una Milano poco raccontata, quella delle proteste e dell’oscurità dei primi anni di piombo, ma anche quella della rivoluzione, dei picchetti, delle manifestazioni e della spinta propulsiva al miglioramento delle condizioni operaie che troppo spesso viene messo in secondo piano per dare spazio al solo racconto della violenza, è un dipinto vivido di una fase storica fondamentale per comprendere il presente.
Ma il valore di Sbatti il mostro in prima pagina e la sua stupefacente attualità vanno oltre questi elementi che già di per sé bastano a renderla una pellicola fondamentale per il canone cinematografico italiano. Ci sono infatti due temi centrali del film che, grazie al grande lavoro di scrittura e di messa in scena sia di Bellocchio che degli sceneggiatori Sergio Donati e Goffredo Fofi, fanno da pilastri narrativi in modo lucido e puntuale: la manipolazione dell’informazione, un fenomeno che oggi vive un periodo particolarmente florido grazie agli effetti collaterali delle nuove forme di comunicazione di massa, e la strategia propagandistica della destra italiana che, ieri come oggi, basa sul vittimismo gran parte della sua identità.
Il primo punto, quello legato alla manipolazione dell’informazione, trae ispirazione da una storia di cronaca nera realmente accaduta, ossia quella dell’omicidio di un’adolescente di buona famiglia, rapita e uccisa da un coetaneo. Nella storia del film, la ragazza vittima di violenza e poi ammazzata in un bosco nella zona industriale di Milano, rappresenta il caso perfetto per la stampa di destra: la redazione de Il Giornale, una redazione fittizia che anticipa di qualche anno il quotidiano fondato da Indro Montanelli, è una roccaforte della propaganda conservatrice che basa gran parte della sua comunicazione sul dissenso e l’indignazione nei confronti dei movimenti studenteschi e operai di quel periodo. La possibilità che questa ragazza sia stata assassinata da un coetaneo facente parte di un gruppo della sinistra extraparlamentare fornisce al redattore capo, interpretato da Gian Maria Volontè, un caso perfetto per montare una delle tante campagne di odio nei confronti dei movimenti.
Il giovane presunto colpevole viene così incastrato nel ruolo di assassino senza pietà, e a nulla servono i tentativi del giornalista Roveda, interpretato da Fabio Garriba, di portare avanti la verità fattuale, e non quella mediatica, che ormai ha scelto chi è il mostro. Lo spiega chiaramente Volontè, quando istruisce il nuovo arrivato sulle regole di giornalismo: gli articoli del giornale devono rassicurare il lettore medio, l’uomo onesto che lavora e produce e che non ne può più di vedere il proprio figlio ribellarsi con i moti giovanili di quel periodo. E così la stampa fornisce ciò che il lettore desidera, qualcosa che lo rassicuri, che gli dica che ha ragione e che fa bene a indignarsi di fronte alla deriva rivoluzionaria delle nuove generazioni. Volontè fornisce così anche una lezione straordinaria sull’arte della titolistica in una scena diventata di culto tratta da questo film che, già nel suo titolo, racchiude l’essenza del potere che manipola l’opinione pubblica grazie alla corruzione di chi utilizza la stampa come un mezzo privato e personale per diffondere le proprie idee e per il proprio tornaconto economico.
Oltre a questo manifesto di deontologia, raccontato attraverso una storia che racchiude in sé il senso dell’informazione che tratta i lettori come consumatori da compiacere – è Volontè stesso che, a casa con sua moglie, la rimprovera di essere così poco furba da credere alle parole che lui dice una volta interpellato in televisione – e della faziosità che da sempre risiede nel nostro giornalismo, a prescindere dalle epoche storiche in cui ci troviamo, Sbatti il mostro in prima pagina è la messa in scena perfetta della strategia vittimista della destra. Lo spiega sempre Volontè quando alle finestre del suo giornale arrivano le pietre dei manifestanti: è necessario avere qualcuno che attacchi la redazione, o in modo più ampio lo schieramento politico a cui appartiene, così da poter dire di essere martiri perseguitati dalla violenza dello schieramento altrui. Assistiamo a questo fenomeno da tempo immemore, e in modo particolarmente acuto negli ultimi due anni, da quando Giorgia Meloni è presidente del Consiglio e da quando dunque l’estrema destra, per la prima volta dopo la caduta del fascismo, è al governo in Italia. La retorica della sinistra che sa solo attaccare – ieri con le manifestazioni oggi con altri mezzi – e dell’egemonia culturale che avrebbe reso l’attuale maggioranza vittima di un’esclusione dalla società è il pane quotidiano della propaganda meloniana e salviniana, che grida ai complotti non appena qualcuno o qualcosa si frappone tra loro e il loro modo di governare, che si tratti di un’inchiesta di Fanpage sulle pericolose abitudini di apologia al fascismo nella sezione giovanile di Fdi o di dubbi sui rapporti tra la sorella della presidente del Consiglio e le nomine Rai.
Il caso Sangiuliano, tra quelli più recenti, è stato eclatante: nell’istante in cui è venuta fuori la presenza di Maria Rosaria Boccia all’interno del ministero della Cultura in una veste non ancora chiarita, il modo di difendersi della destra è stato subito delegato al grido del complotto. Sangiuliano, vittima di una abile manipolatrice, non avrebbe fatto niente di male se non essere troppo buono e accogliente nei suoi confronti; è questo il modo in cui la stampa di destra ha reagito alle interviste e agli sviluppi della vicenda che coinvolgevano l’ex ministro della Cultura e l’imprenditrice che avrebbe avuto accesso a informazioni riservate per non si capisce quale ragione.
Matteo Salvini, attuale ministro dei Trasporti, è un altro campione di questo atteggiamento quando si tratta di assumersi le proprie responsabilità. Se i Pm del processo Open Arms chiedono che venga condannato a sei anni di reclusione per i reati commessi anni prima, la sua risposta è un video di tre minuti girato come se fosse un monologo shakespeariano in cui il ministro si dichiara “colpevole di aver difeso i confini nazionali”, sottintendendo di essere una povera vittima di una giustizia infame che non tiene conto dei valori importanti come la patria, valori che superano di gran lunga qualsiasi priorità nel salvataggio di vite umane.
Anche la presidente del Consiglio allude ciclicamente al fatto che ci sia in ballo un disegno dei suoi oppositori politici per minare la sua autorità e il suo consenso politico, replicando all’infinito lo schema di cui parla Volontè nel film di Bellocchio: bisogna avere un utile capro espiatorio. Se il colpevole perfetto in Sbatti il mostro in prima pagina erano gli attivisti di sinistra, oggi possono essere le ONG che salvano i migranti nel Mar Mediterraneo – definiti da Salvini sempre e solo come “clandestini” e mai come esseri umani – o gli attivisti contro il cambiamento climatico, la stampa di sinistra, la teoria gender, gli infiltrati, o l’egemonia culturale di sinistra, un concetto assai astratto, dal momento che dagli anni Novanta in poi a fare egemonia culturale, o meglio sottoculturale, sono le televisioni di Berlusconi, molto più che i testi di Gramsci o i film di Bellocchio.
Dal 1972, da quei comizi in cui a parlare era Ignazio La Russa, quando la Maggioranza silenziosa si riprendeva gli spazi che già aveva, ma che sosteneva le fossero stati sottratti dalla sinistra, dal vittimismo della destra che si lamenta di essere stata esclusa ed emarginata, come se in un Paese che ha avuto vent’anni di dittatura fascista l’esclusione di queste forze politiche non fosse il minimo indispensabile, sono cambiate molte cose a livello di contesto storico, ma alcuni ritornelli sono rimasti identici. Dagli intellettuali di destra che si lamentano di non poter dire nulla quando sono ogni giorno su quotidiani e trasmissioni a dire di tutto, in un universo politico in cui un generale si candida facendo il segno della X Mas come se fosse una gag elettorale, ai presidenti del Consiglio che si sentono vittime di complotti solo perché qualcuno fa notare l’impresentabilità delle loro squadre di governo, passando per i ministri che rispondono alla giustizia con video che sembrano girati per una campagna di abbonamenti teatrali o per qualche brutta imitazione di Black Mirror. In qualsiasi decade della nostra storia recente, ci sarà sempre un mostro da sbattere in prima pagina per deresponsabilizzarsi dal fatto che forse, semplicemente, si è inadeguati a governare; e le uniche vittime, in tutto ciò, siamo noi.