È il 1994. Non un festival di Sanremo particolarmente memorabile. Si tratta dell’ennesima edizione condotta da Pippo Baudo, e a vincere è una canzone che tutti ricordiamo: l’indimenticabile “Passerà” di Aleandro Baldi. Fra gli ospiti spicca Elton John, che in una sobria giacca viola abbinata a una camicia gialla fantasia canta in un playback appena percettibile la versione dance di “Don’t Go Breaking My Heart“. Ad accompagnarlo, c’è un personaggio particolare, sconosciuto tanto ai dirigenti Rai seduti sulle poltrone dell’Ariston, quanto agli spettatori a casa: una drag queen di colore, altissima, con un’enorme parrucca bionda e un vestito in taffetà verde fluo. È RuPaul Charles, la persona che cambierà per sempre la percezione della comunità gay in America. All’epoca RuPaul era già molto noto negli Stati Uniti, non solo per questo featuring con Elton John. Aveva già scalato le classifiche con il singolo “Supermodel of the World” ed era apparso in varie serie tv e film, tra cui Crooklyn di Spike Lee.
A distanza di anni RuPaul, con il suo amatissimo programma RuPaul’s Drag Race, è considerato il re – anzi la regina – di buona parte della comunità LGBTQ+. Con il suo reality, in cui un gruppo di drag queen si sfida tra performance di ballo, canto, design e lip sync, ha sdoganato la libertà queer, creativa, rumorosa e indecorosa in televisione. Pochi giorni fa si è conclusa la decima edizione del programma, senza contare i vari spin off realizzati come All Stars, Untucked e Drag U.
La prima puntata di RuPaul’s Drag Race è andata in onda il 2 febbraio 2009 su Logo TV. Si parla di questa stagione come della “Lost Season”: si trattava infatti di una produzione a bassissimo budget e che aveva dovuto affrontare alcuni problemi di violazione del copyright per le canzoni presenti nello show. Fu solo dalla seconda edizione, quella del 2010, che RuPaul’s Drag Race cominciò a farsi veramente strada nel panorama televisivo statunitense. Nel 2017 il programma è passato da Logo TV al colosso VH1, guadagnandosi un’ulteriore fetta di spettatori abituati a reality mainstream come Project Runway o America’s Next Top Model. Il finale dell’ultima stagione è stato visto da 527mila persone, un risultato ottimo per un reality nello sterminato palinsesto televisivo americano. Nei suoi dieci anni di esistenza, RuPaul’s Drag Race si è guadagnato 10 nomination agli Emmy e 4 vittorie, di cui due assegnate a RuPaul come miglior presentatore di reality.
Quello che ha reso questo reality un programma così amato e trasversale, in grado di mettere d’accordo persone queer ed etero davanti alla tv, è stata la sua capacità di superare i confini di genere con ironia, gioia, divismo e positività. Il drag è una performance che è molto difficile da inquadrare o etichettare. In genere con “drag” ci si riferisce alla pratica di travestirsi con gli abiti dell’altro sesso, esagerando ed esasperando alcuni tratti tipici dei due generi. Il travestimento ha uno scopo performativo e quindi non è mai permanente, né è sempre espressione della volontà di esteriorizzare un’identità di genere diversa. Una drag queen è di solito un uomo gay che si traveste da donna per, ad esempio, ballare, cantare, recitare o fare intrattenimento, ma che poi dismette questi panni e torna ai consueti abiti maschili. Ma nel variegato universo drag non esistono solo i maschi: ci sono i drag king (donne che si travestono da uomini), le bio o faux queen (donne che si travestono da drag queen) e ovviamente drag queen e king transgender.
Le drag queen hanno svolto un ruolo fondamentale nella liberazione gay durante i moti di Stonewall e di San Francisco, tra gli anni Sessanta e Settanta. All’epoca, le drag e le persone transgender venivano emarginate dalla società ed erano costrette a guadagnarsi da vivere con la prostituzione. Spesso venivano arrestate senza motivo, perché la loro presenza era considerata disturbante per il buoncostume e la moralità. Furono loro le prime a organizzare le proteste che determinarono la storia delle persone LGBTQ+ in America. Negli anni Ottanta e Novanta, come raccontato nel documentario di culto Paris is Burning (miniera di citazioni per RuPaul’s Drag Race), le comunità drag cominciarono a riunirsi in “famiglie” con tanto di cognomi e dinastie e a organizzare dei balli e delle competizioni. Erano ancora persone indesiderate, in gran parte di colore e latine, e popolavano i quartieri poveri delle grandi metropoli statunitensi, dove la droga e la prostituzione erano le uniche vie di uscita da un’esistenza intollerabile. Proprio in quell’epoca, l’afroamericano RuPaul, con la sua enorme parrucca bionda, cominciava a farsi strada nel mondo televisivo. Usciva dalle leggendarie serate dei Club Kid ed era uno dei volti più noti dell’azienda di cosmetici Mac.
Con la sua Race, RuPaul ha portato sugli schermi nazionali l’esuberante e appariscente mondo drag, rispettandone la storia e i valori, mostrandone i lati positivi e negativi. In questo senso, il suo grande merito è stato quello di normalizzare l’attività di drag queen come quella di un performer dalle mille risorse e capacità, in grado di incontrare il favore di ogni tipo di pubblico. Nei dieci anni di show, drag più o meno famose sono uscite dai locali gay per portare il loro talento in televisione, al cinema, a teatro, nelle pubblicità, travalicando i confini della comunità LGBTQ+. RuPaul’s Drag Race è riuscito a costruire un senso di comunità e di famiglia creando un linguaggio e una cultura propri, continuando la lunga tradizione delle drag families, la cui madre simbolica è RuPaul stesso.
RuPaul non è solo la regina delle drag queen, ma ne è anche la madre: amorevole, esemplare, autorevole e saggia. La forza di RuPaul’s Drag Race sta anche nel suo intento educativo: RuPaul, che è un ministro ordinato, promuove un messaggio d’amore e rispetto reciproco che è raro trovare espresso in maniera così efficace in un reality show. Allo stesso modo, educa le concorrenti e il pubblico a trasformare l’emarginazione, la violenza e il bullismo in punti di forza. Se da sempre gli uomini gay particolarmente effemminati sono stati oggetto di derisione ed esclusione persino all’interno della comunità, o sono stati rappresentati come “amici gay” di donne etero o semplici macchiette, un programma che li rappresenti per quello che sono – persone – non può che aiutare la loro inclusione sociale. RuPaul’s Drag Race ha funzionato proprio perché non si tratta di un programma qualsiasi, ma di un reality, nel senso più autentico del termine. Nelle chiacchiere delle queen mentre si preparano prima della runway emergono temi e discorsi che per anni sono stati esclusi dal circuito mainstream, come l’omofobia, la violenza domestica, lo stupro e le malattie sessualmente trasmissibili. Ed emergono con naturalezza e leggerezza, senza forzature e senza che si percepisca dietro un disegno pedagogico.
Assieme ai tanti meriti, però, RuPaul’s Drag Race ha anche qualche limite. Il primo, molto discusso, è quello della rappresentazione delle drag di colore, asiatiche o latine. Nonostante ogni anno il cast sia molto variegato in termini di etnia, il problema della discriminazione è stato sollevato più volte sia dalle concorrenti che dal pubblico. L’ultima stagione, in questo senso, è stata molto significativa. La drag afroamericana The Vixen, molto attiva nel campo dei diritti civili, ha fatto notare come spesso gli atteggiamenti dei giudici siano molto più indulgenti nei confronti delle drag caucasiche e che ogni volta che una drag di colore provi a contrastare questo trattamento, venga bollata come Angry Black Woman. Il problema del razzismo, però, sembra essere molto più radicato nel fandom che tra i giudici: le drag di colore che durante una puntata eliminano una drag bianca nel lip sync finale, vengono frequentemente attaccate con insulti razzisti sui social. Molte drag afroamericane sono relegate al mondo del paegent, ovvero dei concorsi di bellezza drag molto popolari nel Sud degli Stati Uniti, per cui le loro capacità artistiche vengono percepite come amatoriali o non all’altezza delle loro competitrici bianche. D’altronde le drag più popolari, le cosiddette fan favourite, sono quasi tutte bianche e delle tredici vincitrici (considerando le dieci stagioni e le tre stagioni All Stars, che vedono il ritorno di alcune concorrenti sconfitte nelle precedenti edizioni), solo cinque non sono caucasiche. RuPaul è stato accusato di rimanere in silenzio di fronte a queste problematiche e di non aver mai preso posizione contro i fan razzisti della Race. Un’altra controversia è emersa quando il conduttore ha dichiarato al Guardian che probabilmente non ammetterebbe nel cast delle donne transgender che abbiano già completato la transizione. Tuttavia, molte ex concorrenti si sono dichiarate trans durante o alla fine del programma, e una partecipante della nona stagione, Peppermint, è stata scritturata pur dichiarandosi donna trans prima dell’inizio delle registrazioni.
Resta il fatto che nessun altro programma è riuscito a rappresentare così bene la diversità e la gioia che ne consegue. “Il drag è un grosso fanculo alla cultura maschile dominante,” ha dichiarato RuPaul. È una celebrazione dell’unicità e del talento che possono nascere dall’isolamento e dall’esclusione. È la forza che ha cambiato per sempre la rappresentazione LGBTQ+ in America. Intanto in Italia siamo fermi più o meno a quel 1994 e a quel Pippo Baudo chiaramente imbarazzato. Nel nostro Paese continuiamo a chiamare le drag “travestiti”, termine che secondo il linguista Daniel De Lucia è associato alla perversione sessuale, e che ha un’accezione negativa, e non abbiamo molto chiara la differenza tra drag queen e persona transessuale. L’unica drag italiana di fama riconosciuta è Platinette, che considera la normalizzazione gay “un orrore”. Altro che la “mistica saggezza divina” di RuPaul, qui servirebbe un miracolo.
“Can I get an amen?” “Amen”.