Essere se stessi richiede un prezzo da pagare, ma la libertà è inestimabile. Come in "Rosalie". - THE VISION

Davanti alla sovrapproduzione odierna di contenuti – sui social, al cinema, in libreria – mi interrogo spesso se non stia portando soprattutto all’allontanarci sempre più dai film, dai libri, dai contenuti di valore. Non è solo una questione di indecisione davanti a una scelta infinita o più banalmente di discorsi elevati sulla qualità di ciò che si pubblica o produce ma, almeno per me, ha a che fare con un appiattimento delle storie – avevo scritto per errore “stories”, perché ormai forse non esiste più davvero differenza tra le due cose: oltre a sembrarmi tutte inevitabilmente simili fra loro – d’altronde, cosa possiamo inventarci di nuovo oggi che tutto sembra essere già stato pensato – a mancarmi, tranne in rari casi, è la possibilità di ritrovare in quei racconti un tentativo – non importa se riuscito o meno – di disinnescare il mondo, invece di invitarci ad accettarlo così com’è, senza domande. Rosalie, il nuovo film della regista e sceneggiatrice francese Stephanie Di Giusto, nelle sale italiane dal 30 maggio e selezionato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes dello scorso anno, di interrogativi, invece, ne pone molti.

Il film si ispira a una storia vera, alla vita di una donna straordinaria qual era Clémentine Delait, vissuta a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento e conosciuta come “la donna barbuta più famosa di Francia” o “l’esempio perfetto di donna barbuta”. In tutte le foto che circolano online, Delait appare sempre fiera della sua peluria, tanto che da uno scambio con il suo barbiere dell’epoca emerge come lo convocasse addirittura tre volte a settimana per farsela curare con lozioni e oli speciali e si racconta che lo guardava con uno sguardo feroce, “da aquila” scrive lui, ogni volta che si accingeva a sistemarla con le forbici, così che non tagliasse più del dovuto. Non partecipò mai a fiere o esibizioni, scegliendo di “essere nella vita”, di rimarcare la sua femminilità, di non assecondare lo sguardo di chi la considerava un animale esotico. Oggi diremmo che Delait era una donna affetta da irsutismo, una condizione caratterizzata dall’eccessiva crescita di peli sul corpo femminile in alcune zone tipicamente maschili, come l’area sopra il labbro superiore, il torace, la schiena. Con lei, Rosalie condivide alcuni punti in comune – l’essere una donna barbuta, il gestire un café, il non volersi nascondere –, eppure Di Giusto non realizza una semplice biografia, ma mantiene della vicenda i punti che più le interessano per creare una storia nuova, appassionata, capace di interrogare i confini sociali della femminilità, l’amore, la libertà e il prezzo da pagare, che oggi ci sembra insormontabile, per costruire una relazione con l’Altro.

Per paura di essere rifiutata, Rosalie ha sempre dovuto radersi. Sin da quando era bambina il padre l’ha prima tenuta nascosta e poi ha cominciato a depilarla. Le braccia, il volto, la schiena. Gli abiti dell’Ottocento aiutano, certo. Chiusi fino al collo, composti di strati e strati che non permettono alcuna trasparenza, consentono di ridurre il compito alla sola barba. Prega stringendo un piccolo crocifisso in legno che porta sempre con sé. Sulla croce, una donna: Santa Vilgefortis. “Fa’ che mi tenga con sé”. “Fa’ che mi ami”. Si riferisce ad Abel, l’uomo che il padre paga affinché la prenda in sposa, senza conoscerne il segreto. Dopo una iniziale ritrosia, Rosalie però desidera essere vista come una donna normale, nonostante la sua differenza. Non vuole più nascondersi. In lei, né il timore del rifiuto né il disperato bisogno di sentirsi amata di un amore incondizionato contribuiscono mai a renderla un oggetto dello sguardo altrui. Rosalie è libera, afferma la sua femminilità senza porsi mai come vittima. Anzi, trasforma la sua unicità in un punto di forza, contrastando il continuo movimento della società che non vuole altro che ridurla a essere un “mostro”, un capro espiatorio per ciò che non si riesce – o non si vuole – comprendere, per le sfortune del mondo.

“Un mostro è un corpo che avrebbe dovuto essere sottomesso, ma che è diventato una smisurata minaccia: un mostro è una donna che si è sottratta al controllo (dell’uomo)”, scrive l’autrice femminista Jude Ellison Sady Doyle nel saggio Il mostruoso femminile. Rosalie, infatti, inizia a essere considerata tale proprio nel momento in cui, sfuggendo i tentativi maschili di sedurla, rifiuta gli uomini e si prende gioco di loro. Sono maschi biechi, incapaci di accettare l’attrazione che nutrono nei suoi confronti se non quando sono ubriachi, quando cioè la rigidità morale e religiosa che hanno introiettato, con cui sono stati educati e con cui educano e attraverso cui esercitano il loro potere – che sia sulle mogli o sui dipendenti della fabbrica che possiedono – si fa più malleabile, si scioglie. D’altronde, accettare di essere attratti da un corpo mostruoso, un corpo che, pur essendo biologicamente femminile, senza alcun dubbio, è lontano dall’aspetto standardizzato che allora – e oggi – noi uomini e la società patriarcale imponiamo come diktat, può significare per molti avere un segreto da nascondere, sentirsi minati nella propria mascolinità. Non a caso Pierre, uno dei garzoni della fabbrica, il primo a scommettere con Rosalie che la barba le sarebbe effettivamente cresciuta, in una delle scene più violente del film si avventa contro Abel chiedendogli se le donne “gli piacciano così”, se “ha i coglioni sotto ai peli”, mentre mima il verso di una scimmia.

Con questi rimandi, è impossibile non pensare a Human Nature, il primo lungometraggio di Michel Gondry, in cui Lila, una donna molto bella, è costretta fin dall’infanzia a convivere con un corpo ricoperto di peli, anelando un ambiente privo dal giudizio della norma; o ancor di più a La donna scimmia, capolavoro degli anni Sessanta di Marco Ferreri, con cui il regista milanese esplorava tematiche considerate veri e propri tabù da parte del pubblico, raccontando tutta l’inadeguatezza dell’uomo nel rapporto con la donna e condannando gli stilemi sbagliati della cultura maschilista. In tutte e tre le opere la condizione di irsutismo della donna è irrimediabilmente accostata anche al sesso: se per Lila la soddisfazione del desiderio sessuale è la spinta a tornare dalla foresta in città e per Maria, protagonista della pellicola di Ferreri, la voglia di sfogare gli appetiti sessuali cresce mano a mano che acquista consapevolezza di sé, ripudiando la falsa condizione di mostro a favore di quella di donna, in Rosalie l’erotismo e il desiderio costituiscono in modo inaspettato ma sorprendente alcune delle tensioni più forti che guidano la storia. Il seno bagnato e coperto di peli, la mano di Abel che le sfiora una coscia non rasata. La sensualità dei corpi emerge dove meno ce la si aspetta o anzi, meglio, dove meno siamo abituati a considerarla, provarla, vederla, uscendo dai codici abituali di ciò che viene rappresentato. 

“Un film è spesso una risposta ai tempi in cui viviamo. Credo che l’amore sia diventato una battaglia essenziale in un modo di vivere che si sta gradualmente disumanizzando,” racconta Di Giusto. “Sempre più donne osano mostrare la loro particolarità sui social network, soprattutto le donne con questa malattia genetica. Allo stesso tempo, c’è anche una controtendenza, che è quella di voler vivere nella menzogna creando una persona liscia con i filtri, una standardizzazione del corpo in cui si ha l’impressione che tutti abbiano lo stesso aspetto”. Rosalie parla infatti molto – e di molti – temi attuali, eppure mi sembra che abbia a che fare soprattutto con due questioni che oggi sono diventate impellenti: l’amore, nel suo farsi bisogno, nell’esperienza di cosa implichi amare ed essere amati quando si è considerati dei mostri, degli outsider, del peso che l’amore acquista in una vita continuamente vissuta ai margini; e la libertà, non solo quella di essere se stessi o quella negata in nome di determinati obblighi sociali, della religione, della morale, ma la libertà di poter creare se stessi in continuazione, di essere in costante divenire, contro e nonostante uno sguardo altrui che invece ci ingabbia e riduce in un ruolo, un personaggio, un margine che non vogliamo abitare. Perché, come per Rosalie, non è l’unica cosa ad appartenerci, a rappresentarci.


Questo articolo è realizzato da THE VISION in collaborazione con WANTED CINEMA in occasione dell’uscita italiana di “Rosalie”, della regista e sceneggiatrice francese Stephanie Di Giusto, selezionato per la sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes dello scorso anno e distribuito nelle sale dal 30 maggio.

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