Ci sono storie che non ci sappiamo immaginare. Non sono storie incredibili, sono le storie qualsiasi delle persone che ci stanno vicine, a volte anche molto vicine, magari sotto lo stesso tetto. Non ci sappiamo immaginare la vita del nostro collega, della nostra vicina di casa, spesso – ancor più dopo l’allontanamento causato dalla pandemia – non ci sappiamo immaginare nemmeno la vita dei nostri amici, dei nostri nonni, dei nostri figli, se ne abbiamo, o dei nostri genitori. Facciamo poche domande, abbiamo poco tempo, dobbiamo concentrare al massimo le nostre risorse e la nostra efficacia, misurata coi parametri dell’economia, il famoso capitale umano. Così tutto si scolora, si impoverisce.
Ricomincio da me (in originale Toni, en famille), diretto da Nathan Ambrosioni e in uscita nelle sale italiane il 28 dicembre, sembra parlare proprio di questo. E mi fa sorridere che venga etichettato sia come commedia che film drammatico. Ma effettivamente, miracolosamente si direbbe, grazie a quella strana alchimia che sa tuttora creare il cinema francese, è proprio così. Ricomincio da me fa sorridere, ridere, piangere e riflettere, e non solo le mamme, sulla cui vita punta la macchina da presa. Antonia, interpretata dalla fantastica Camille Cottin, che avrete già visto nei panni dell’agente parigina spietata in Dix pour cent, oppure in Conasse (Stronza), ha cinque figli e quarantadue anni, una carriera – non voluta – nella musica pop alle spalle, che le permette di tirare avanti grazie alle ultime diradate royalties, e un rapporto problematico con la madre. Non ha più un compagno, invece.
Toni non è esaurita, è molto di più, ma non potendo permettersi di esserlo tira avanti, anche nei momenti peggiori, tra lavatrici, faccende di casa e lavori notturni ben poco soddisfacenti per un’artista, o quantomeno per qualsiasi persona sensibile. Toni sembra ormai essere rassegnata alle valanghe di merda che la vita e gli altri ti tirano addosso quotidianamente, consapevolmente e inconsapevolmente. A volte, infatti, sono in primis i nostri cari a sabotarci, a far vacillare il terreno sotto i nostri piedi, e a volte, dal canto nostro, lo facciamo anche noi, spesso pensando di farlo a fin di bene.
È ciò che accade ripetutamente nel corso del film: un’amica troppo sincera, una madre troppo risoluta e brutale, dei figli spaventati che ripetono esattamente i comportamenti che sono stati riservati a loro, più o meno giustamente, dagli adulti. Si crea così uno scenario sfaccettato con un ritmo tutto suo, che mescola musica colta a musica pop anni Novanta, immerso nella provincia francese del Sud, vicino a Nizza, lontano dalle promesse di Parigi, del lusso, degli scintillii. Alle estreme propaggini dell’impero, ai margini. Toni incassa, coi suoi occhi azzurri, la voce cristallina e il profilo marcato. Sembra profondamente consapevole che le cose importanti della vita non siano nel campo del visibile, di ciò che è facilmente riconoscibile da occhi e orecchie distratti, da traguardi grossolani e pezzi di carta. Si sente quasi in colpa quando ammette che a lei non interessava la carriera di cantante, e in quella scena ricorda quasi Charlotte Gainsbourg, mentre parla con sua madre, Jane Birkin, nel suo primo documentario, uscito nel 2022, Jane By Charlotte.
Toni è stata una star, lo ripete quasi per convincere gli altri. Toni è stata qualcuno, anche se non voleva esserlo, ma lo è stata. E ora vorrebbe provare a diventare sé stessa, per davvero. A quanto pare “autentico” è stata la parola più cercata del 2023 sul dizionario Merriam-Webster, e se sicuramente questa parola è legata alla società della performance e dello spettacolo, così come al mondo dell’apparenza, la sua etimologia rivela un significato ancor più profondo, fisio e tecnologico, di quanto ci si potrebbe immaginare, che attinge a radici di pensiero antichissime, da sempre nutrite dagli esseri umani, maestri di maschere e fantasmi. “Autentico”, infatti, ci arriva dal greco αὐϑεντικός, derivato di αὐϑέντης, che significa “autore”; “che opera da sé”, e quindi, in senso lato, descrive chi “ha autorità su di sé”, chi sa operarsi, modificare la propria forma, trasformarsi dall’interno, seguendo quel movimento che poi fu tanto caro a Goethe, che va dall’ossatura all’immagine, dalla sostanza alla forma. Autentico è quindi moralmente vicino a onesto. La parola è composta da autòs (se stesso) ed entòs (in, dentro) e quindi è ciò che si riferisce alla nostra vera interiorità, al di là di ciò che ci convinciamo, o crediamo di essere, così come da quello che vogliamo apparire. Tutta la trama di Ricomincio da me sembra muoversi su questa riflessione fondamentale della nostra esistenza.
Così Toni è madre e figlia a un tempo, è sicuramente sola, eppure non lo è, è stata una cantante famosa, e oggi non è più nessuno, ancor più che piano piano sta dismettendo i suoi panni di mamma, dato che i figli crescono, e tra ostacoli, insicurezze, paure e difficoltà seguono la loro strada. È proprio scorrendo l’elenco dei vari corsi universitari che Toni, a quarantadue anni, capisce di poter cambiare ancora, di essere qualcosa di diverso, di inaudito, nonostante tutto le remi contro, dalla società alla famiglia. Nessuno sostiene il suo desiderio, perché fa paura, perché la società ci vuole stabili, non accetta di assumersi i nostri rischi, ci preferisce infelici, ma uniformi. I sogni sono colpi di testa. Allo stesso modo chi ci sta accanto proietta su di noi le sue aspettative. A una madre poi viene concesso ancor meno. In primis deve dedicarsi al lavoro di cura, e al massimo al lavoro tout-court. Una madre non può essere egoista, non può essere qualcos’altro, non può avere uno scopo oltre a quello della sopravvivenza e della felicità della propria prole. Non è così. Può non esserlo.
Il film ci mostra in maniera semplice e straziante questo iato, e tutta la centratura e la forza che serve per ricominciare da sé, per darsi quello slancio e mantenerlo, quanto sia prezioso per tenere accesa la propria fiammella interiore, anche in mezzo al vento, anche quando qualcuno ci soffia sopra. Toni si sente in colpa per aver ottenuto ciò che molti avrebbero desiderato, in primis sua madre, ma che a lei non interessava. Per questo forse appare così risoluta nell’andarsi a prendere un’altra chance, dopo aver accontentato sua madre, dopo essersi occupata di cinque figli. Adesso è il suo turno, nessuno può negarglielo.Eppure, il mondo non le riconosce alcuna capacità “utile”, le riserva solo scetticismo, lo stesso che spesso gli adulti riservano ai ragazzi. Nessuno crede in lei, e forse è proprio per questo, un po’ per sfida, che lei inizia a credere in sé, e mano a mano finisce per convincere tutti gli altri, in una sorta di spirale positiva, che da centripeta si fa centrifuga, andando a influenzare tutto l’ambiente circostante.
Le scelte estetiche di montaggio, scenografia, ritmo e colonna sonora di Ambrosioni danno forma a una sorta di stile ibrido, a metà tra il realismo e le atmosfere oniriche che richiamano a tratti l’immaginario di Michel Gondry, forse a suggerirci che la storia che racconta è davvero una favola, come se ogni difficoltà possa essere superata. Come ripete costantemente Toni: in qualche modo si farà. Il sogno nutrito e mai realizzato di tante donne, perché purtroppo in molti casi, nella realtà, lo sviluppo di questa trama resta un desiderio irrealizzato, ricacciato indietro, un’illusione per tirare avanti in qualche modo, e forse è proprio per questo che alla fine ci consola, ma con malinconia.
E forse è proprio questo il fulcro dell’essere madre (biologica o meno, madre simbolica), creare un piccolo mondo, di valori, di energie, di atmosfere, e mantenerlo vivo, anche nel cambiamento, tenere tesi i fili che lo tengono in forma, cosa possibile se invece che sulla gerarchia ci si concentra sulle relazioni e non sulle immagini, spesso tanto fuorvianti, soffocanti e al tempo stesso fragili. Essere una famiglia significa coltivare istante dopo istante la presenza.