Se c’è un prodotto mediatico per cui il 2020 verrà ricordato, questo è senza dubbio La regina degli scacchi. È un caso strano che, nell’anno della pandemia – dove sembrava che l’attenzione di tutto il mondo culturale fosse rivolta al virus – sia una serie su una bambina prodigio appassionata di scacchi a trionfare in maniera così dirompente. In meno di un mese, The Queen’s Gambit è stata vista da 62 milioni di account Netflix (contando che gli account sono condivisi da più persone, i singoli spettatori sono molti di più), diventando con le sue sette puntate la miniserie più vista di sempre sulla piattaforma e raggiungendo il primo posto nelle classifiche dei più visti di Netflix in 63 Paesi. Oltre a quello del pubblico, poi, in generale ha incontrato anche il parere favorevole della critica e degli scacchisti. In poco tempo La regina degli scacchi si è imposto non solo come un prodotto culturale di successo, ma come un vero e proprio fenomeno di costume: nelle prime settimane dal lancio della serie, negli Stati Uniti le vendite di scacchiere sono aumentate del 125% e l’interesse per gli scacchi non sembra mai essere stato così alto.
David Llada, portavoce della Federazione internazionale degli scacchi, ha raccontato al New York Times che anche prima di The Queen’s Gambit i curiosi erano in aumento: sui siti specializzati per le partite online, la media dei giocatori giornalieri era aumentata di 5 milioni rispetto all’inizio dell’anno. In generale, la fascinazione per questo gioco sembra essere collegata al fatto che le persone stanno più in casa e sono sempre in cerca di nuovi passatempi, che magari le tengano anche lontane dagli schermi. Se a questo aggiungiamo le atmosfere estremamente curate e una storia che infonde speranza, si può dire che l’uscita di questa serie sia arrivata in un momento particolarmente favorevole e che probabilmente la miniserie non avrebbe avuto lo stesso impatto se fosse uscita prima. Ovviamente non basta il timing a decretare un successo del genere, La regina degli scacchi è anche una serie di alta qualità, con una regia e soprattutto una protagonista – la ventiquattrenne Anya Taylor-Joy – di indiscutibile bravura.
La serie, basata sull’omonimo romanzo del 1983 di Walter Tevis, racconta la vita di Beth Harmon, una giovane donna che da bambina scopre, cominciando a giocare con il custode dell’orfanotrofio in cui vive, di avere un enorme talento per gli scacchi. Durante l’infanzia Beth scopre però anche la dipendenza dagli psicofarmaci che vengono somministrati alle ospiti dell’istituto. Una volta adottata da una famiglia – o per meglio dire da una donna, Alma, con un marito estremamente riluttante all’adozione – Beth diventa una professionista, sconfiggendo via via i più grandi campioni del mondo. Mano a mano che il successo cresce, però, la protagonista si trova sempre più in difficoltà con la sua dipendenza, che influenza negativamente i pochi rapporti sociali che è riuscita a coltivare, a fronte di un carattere già estremamente chiuso.
Tutta la serie ruota intorno alla protagonista e al suo genio, con uno sviluppo minimo se non del tutto assente dei personaggi secondari. Questa scelta enfatizza ancora di più l’eccezionalità di Beth, una donna dotata di un’intelligenza quasi sovrannaturale e di un talento che non viene quasi mai messo in discussione. Nonostante sia molto difficile empatizzare con la protagonista, una donna che ci viene mostrata fredda e quasi anaffettiva, sin dal primo istante lo spettatore tifa per lei e per il suo successo. Non è affatto scontato che un’opera del genere con una protagonista femminile che incarna l’archetipo del genio sia apprezzata in maniera trasversale. Secondo la critica Marina Pierri, il motivo di tanto successo è che lo sceneggiatore Scott Frank (e prima ancora l’autore del romanzo da cui è stata tratta la serie, Walter Tevis) costruisce Beth con una parabola tipicamente “maschile”.
Negli ultimi anni la serialità televisiva ha dedicato grande spazio ai personaggi femminili, seguendo spesso quello che la scrittrice Maureen Murdock chiama “viaggio dell’eroina”, in un certo senso opposto rispetto a quello di Campbell nel suo famoso saggio. A differenza dell’eroe per il quale la libertà costituisce la premessa del viaggio, per l’eroina essa rappresenta l’obiettivo o la ricompensa finale. Vediamo questo schema nella maggior parte delle serie, dei film e dei romanzi con un personaggio principale femminile, da Fleabag, a Eleven di Stranger Things, a Enola Holmes. Beth invece, nonostante parta da una condizione sfavorevole all’interno di un orfanotrofio, sostanzialmente non incontra quasi mai nessun ostacolo esterno alla sua realizzazione, se non se stessa. Come fa notare Pierri, molti film sui “geni”, come Will Hunting – Genio ribelle o A Beautiful Mind, procedono con lo stesso schema che, invece, è molto raro per un personaggio femminile. A Beth non interessa essere libera, le interessano soltanto gli scacchi.
La questione di genere, nonostante si tratti della storia di una donna che si fa strada in un mondo estremamente maschile, viene sfiorata ma quasi mai affrontata. Nella scena in cui Beth si iscrive alla sua prima competizione professionale, ho subito pensato: “Ecco, ora le diranno che le donne non possono partecipare al torneo” e, invece, niente di questo succede mai nella serie. Il fatto che Beth Harmon sia femmina ha davvero poca importanza nello svolgimento della trama, a differenza di altre serie che riguardando donne geniali, come La fantastica signora Maisel, nelle quali la questione di genere ha un’importanza vitale.
Questo aspetto può apparire problematico, dal momento che tende a essere poco realistico che nessuno ostacoli o si opponga allo sviluppo della carriera di una donna, ma da un altro punto di vista La regina degli scacchi diventa così un modo nuovo di raccontare il successo femminile. Il risultato è efficace perché la parabola virtuosa di Beth Harmon è inserita in una cornice perfetta: la fotografia simmetrica, i colori freddi che richiamano l’immaginario del periodo storico in cui è ambientata, i costumi ricercati che sembrano usciti da una rivista di moda dell’epoca e non ultimo la fisionomia particolare di Anya Taylor-Joy. A volte, però, lo sguardo estetizzante del regista Scott Frank forse esagera: come ha scritto Jane Hu su Vulture, “Qualsiasi cosa potenzialmente traumatizzante o problematica viene assunta come mangime per la bellezza”. Ciò vale specialmente per la rappresentazione della dipendenza di Beth che è ora legata – se non indispensabile – al suo talento, ora “glamourizzata” in un episodio che ha fatto storcere il naso a molte spettatrici: anche nel momento più basso della sua vita, infatti, Beth è comunque bellissima e pettinata e la vediamo ondeggiare in mutande mentre balla “Venus” delle Shocking Blue.
Eppure, la forza dello show consiste anche in questa rappresentazione estremamente artificiale e irrealistica che ci viene ribadita in ogni elemento della serie: nell’aspetto di Beth (che chi conosceva già il libro di Tevis giudica troppo piacevole), nello sviluppo del suo arco narrativo, nel supporto incondizionato di quasi tutti i personaggi maschili, nei costumi e nelle scenografie di grande impatto, nella composizione delle inquadrature e persino nel ritratto dell’Unione Sovietica, una Russia brežneviana per nulla ostile, ma anzi accogliente e corretta. Anche queste cose, in un momento di grande tristezza e smarrimento collettivi, hanno contribuito all’enorme e inaspettato successo de La regina degli scacchi, inserendosi in maniera forse involontaria nel filone di quella che è stata chiamata “Peak Comfort Tv”, la serialità rassicurante che ci distrae dal caos della realtà che ci circonda.
In un certo senso, i limiti de La regina degli scacchi sono diventati i punti di forza del suo successo, senza che questo abbia intaccato la qualità complessiva della serie, che si posiziona senza dubbio in un’alta fascia qualitativa rispetto a molti altri prodotti che generalmente piacciono a un pubblico così vasto e trasversale. Il fatto che una serie del genere, con una protagonista femminile e che tratta di un argomento inusuale come gli scacchi, resti a molte settimane di distanza dall’uscita in cima alle classifiche di Netflix, in un panorama televisivo così affollato sembra un piccolo miracolo.
Foto courtesy Netflix