
C’è stato un tempo in cui ho vissuto sospeso tra ciò che ero e ciò che avrei voluto essere. Me ne sono accorto solo qualche anno dopo, quando ormai avevo assunto altre forme e desideri ancora. Immagino sia un passaggio universale, più o meno tardivo, che forse per la mia generazione, quella dei Millennial, è diventato un’esperienza particolarmente comune, forse più lunga e continua. Osserviamo le vite altrui, schiacciati da un lato dalla pressa del capitalismo, dalla fatica della performance, e dall’altro dall’impossibilità, forse la più frustrante, di non poter ricalcare le tappe fondamentali della vita dei propri genitori, non potendocele permettere. Quando restavo intrappolato in quel limbo, in quella sensazione d’essere sempre altro da ciò che mi circondava, di non riuscire mai ad appartenere a qualcuno o qualcosa, a un luogo o a un sogno, tutto intorno a me diventava un simbolo. Leggere le ore doppie sul cellulare, per esempio, si trasformava in un segnale di cambiamenti imminenti, così che a un certo punto beccarle sul telefono diventava più il risultato di un’ossessione che della casualità. A volte è questo che facciamo: ci raccontiamo storie, leggiamo segni, trasformiamo incidenti in conferme delle nostre speranze. Holly, la protagonista de Il rapimento di Arabella, il nuovo film di Carolina Cavalli con Benedetta Porcaroli, quel segnale prorompente lo trova quando, ferma in un parcheggio, incontra una bambina di nome Arabella. È in quel momento che si convince di aver trovato se stessa da piccola. La pellicola, che sarà proiettata dal Cinema Godard di Fondazione Prada, a Milano, venerdì 5 dicembre, alle 20.30, alla presenza di Cavalli e Porcaroli, aveva partecipato nella sezione Orizzonti alla Mostra del Cinema di Venezia 2025, dove l’attrice ha vinto il premio per la miglior interpretazione femminile.


Il rapimento di Arabella si muove su un crinale fra surreale e quotidiano, proponendo un viaggio che è allo stesso tempo fuga e ricerca, delusione e tentativo di riscatto. Holly, che ha ventotto anni, è una giovane donna segnata da un senso persistente di fallimento e inadeguatezza, convinta di essere sempre “la versione sbagliata” di se stessa. Quando incontra Arabella, una bambina insofferente e ribelle, scatta in lei una percezione quasi irrazionale – che sia la sua sé d’infanzia, appunto. Per lei, che di quel presente non ne vuol più sapere, che è stanca e lontana da tutti, è soprattutto un’occasione per riscrivere errori, rimpianti, scelte sbagliate. È l’inizio di un viaggio picaresco, onirico, che si snoda attraverso spazi indefiniti, sospesi, in cui la geografia ha il sapore di una condizione emotiva: confusa, instabile, nostalgica. Holly non vuole danneggiare qualcuno, non “rapisce” Arabella nel senso più tradizionale del termine ma cerca piuttosto un riscatto verso se stessa, come fosse un tentativo di ricucire un passato che non ha vissuto pienamente.


Arabella, dal canto suo, è lungi dall’essere una figura passiva o ingenua, secondo la rappresentazione retorica per cui bambini e bambine non possano essere già soggetti attivi. La sua presenza, infatti, è pienamente consapevole, che osserva, reagisce, pretende. Come quando, mimando la madre, prende in giro suo padre Oreste, che accusa di soffrire della sindrome di non essere Jonathan Franzen, perché i suoi libri non sono altrettanto letti. La ribellione di Arabella, spesso inaspettata e feroce, ha il potere di svelare la fragilità di Holly, portando alla luce la sua disperazione e il suo profondo bisogno di redenzione. È in lei che emerge con forza la solitudine di una generazione bloccata in un mondo che esige prestazioni, successo e realizzazione immediata e allontana ogni possibilità di fare i conti con il fallimento, lasciando spesso come unica eredità rimpianti e desideri inespressi. Nonostante i temi generazionali attorno a cui ruota, Il rapimento di Arabella è un film malinconico, certo, ma anche grottesco e molto divertente, come quando entrate per la prima notte insieme nella receptionist di un residence, Holly inventa di chiamarsi “Britney The Pooh”. Britney come Britney Spears e Pooh come Winnie The Pooh, dice per farsi capire. Niente urla più millennial di due idoli simili.



Grazie a una scrittura e una regia che sembrano aver già trovato la propria identità, Cavalli costruisce una pellicola che non si potrebbe che definire viva, attraversata da un’energia che mi sembra attraversare, felicemente, il nuovo cinema italiano. È un’energia giovane, curiosa, internazionale, che non ha paura di sperimentare linguaggi, atmosfere e identità ibride. Negli ultimi anni è diventato evidente come stia nascendo una generazione di attori e attrici, registe e registi, che fa film piccoli ma densissimi, interpreta personaggi imperfetti e complessi, pretende di raccontare un’Italia che non è quella delle cartoline né quella dei drammi familiari tradizionali. È un movimento spontaneo, dal risultato sorprendente: il cinema italiano sembra finalmente parlare una lingua nuova. Cavalli ne è un esempio lampante, ma penso anche a Francesco Sossai, che con Le città di pianura ha saputo portare l’Italia in luoghi narrativi che sembravano preclusi, o a Margherita Vicario, Francesco Costabile e Giovanni Tortorici, che con Gloria!, Familia e Diciannove che sono stati capaci di costruire immaginari deflagranti. Lo stesso accade a chi si trova di fronte alla camera da presa: Porcaroli, sicuramente, ormai uno dei talenti più solidi di una generazione di attori che include anche Filippo Scotti, Tecla Insolia o Carlotta Gamba, per nominarne alcuni.


Porcaroli e Cavalli, tra l’altro, avevano già collaborato in Amanda, primo lungometraggio della regista, inserito dal New York Times nei Critics’ Pick e dal Guardian al quindicesimo posto dei migliori 50 film del 2023. Una pellicola molto diversa da Il rapimento di Arabella, con cui però condivide il tono che la contraddistingue, come ha dichiarato Cavalli in un’intervista. “Ho un rapporto ambivalente con Amanda, certe volte penso di esserne distante, poi vedo delle ragazze in metro o al parco e spero tantissimo che lo abbiano visto, in fondo vorrei ancora condividerlo. Credo ci siano delle similitudini di tono con il secondo film, perché è un tono che amo molto. Non ho mai immaginato che fosse lo stesso mondo, anche se entrambi non hanno veramente una collocazione geografica precisa, o un’epoca esplicita, ma a livello visivo probabilmente ci sono delle coincidenze”.



Vivere nell’equilibrio tra realtà e speranza non significa ignorare ciò che è concreto, ma imparare a riconoscere le possibilità che il mondo offre, anche quando non sono perfette, anche quando arrivano in forme impreviste. In questo modo la vita smette di essere solo un susseguirsi di eventi da sopportare o analizzare e diventa invece una scenografia ricca di dettagli da osservare, piccole luci da cogliere, storie da costruire e raccontare. Ne Il rapimento di Arabella, la consapevolezza di Holly cambia quando si rende conto che crescere, diventare adulti, non significa per forza dover dare un senso al mondo, ma anche saperlo trasformare in un gioco. Non sempre facile, non sempre divertente, ma forse più lieve. Perché non serve trovare conferme in ogni cosa, non serve che tutto sia perfettamente chiaro: ciò che conta, forse, alla fine è la capacità di continuare, sempre, a camminare con un passo leggero e occhi attenti.