Il primo poster nella mia camera è stato quello di Harry Potter. Dopo una breve cotta per Russel Crowe ne Il gladiatore, Daniel Radcliffe è diventato l’oggetto dei miei desideri, poi Spike di Buffy, e infine, Alex Turner, il cantante della mia band preferita in adolescenza, gli Arctic Monkeys. A sedici anni, l’idea di incontrare questo sconosciuto di cui sapevo tutto e che credevo di amare nonostante non avessi mai trascorso neanche un minuto in sua compagnia era il sogno più fervido che avevo. Nella mia fantasia, io e Turner ci saremmo conosciuti da qualche parte prima o poi e, per forza di cose, lui si sarebbe innamorato di me, portandomi con sé in giro per il mondo, per sempre insieme. La mitologia del cantante che diventa un sex symbol per intere generazioni, generando fantasie simili alla mia e un vero e proprio culto attorno a sé, esiste da quando esiste Elvis Presley. E la cosa incredibile è che la fiaba del colpo di fulmine con una fan, quella che tutte sognano a un certo punto della loro vita, sostituendo l’amato in base ai propri gusti ma mantenendo identico lo schema di venerazione, nel suo caso è reale.
Credo che Sofia Coppola come regista abbia la grande qualità di aver saputo creare una sua estetica, riconoscibile e precisa, e che abbia diretto dei film che sono ormai dei cult dell’industria cinematografica indipendente americana – Marie Antoinette, Il giardino delle vergini suicide, Lost in translation, per citare i migliori – ma che al contempo tenda anche a replicare i suoi stessi stilemi fino a diventare in alcuni casi stucchevole o ripetitiva. Quando ho saputo che avrebbe diretto un film tratto dalla biografia di Priscilla Presley, in contemporanea con l’uscita di un grande film su Elvis come quello diretto da Baz Luhrmann e uscito nel 2022, ho subito pensato si trattasse di un’operazione poco originale, che rischiava di cadere proprio in quei cliché alla Sofia Coppola che spesso mi respingono da spettatrice e in questo caso soprattutto da grande fan di Presley. Ciò che invece mi sono trovata davanti diverso tempo dopo l’annuncio della lavorazione di questa pellicola, dopo aver sentito molti pareri discordanti in seguito alla presentazione a Venezia di Priscilla, è stata una sorpresa. Priscilla, infatti, è la perfetta messa in scena di quel sentimento che avevo provato da adolescente, quella fantasia che si concretizza in un poster appeso, in una collezione di dischi, di magliette, di oggetti che dimostrano la forza di un sentimento totalmente astratto ma al contempo così reale. In sostanza, Priscilla è la fiaba di una fangirl, con tutto ciò che di più assurdo può succedere quando un sogno così surreale si avvera.
A quasi cinquant’anni dalla sua morte, Elvis Presley rimane il simbolo per eccellenza del divismo americano del Novecento. Prima dei Beatles, prima di Michael Jackson e prima di qualsiasi boy band, Elvis è il volto e il corpo del rock and roll, del boom economico del dopoguerra, la quintessenza della rivoluzione culturale che ha investito l’Occidente dagli anni Cinquanta in poi, mutando sia il suo assetto antropologico che economico. Raccontarlo in un film, dal momento che è una delle star mondiali più imitate e più iconograficamente riprodotte, rischia di diventare una riproposizione infinita delle stesse immagini, rendendole grottesche come una statua di cera. La grandezza del film di Baz Luhrmann, infatti, è stata quella di restituire la natura epica della storia di questo cantante attraverso una narrazione schizofrenica, veloce, barocca, iper-simbolica: Luhrmann, e soprattutto Austin Butler, l’attore che lo ha interpretato, hanno reso Elvis ancora più Elvis, in una versione massimalista ed estrema delle sue caratteristiche principali, dallo stile ai movimenti, passando per una colonna sonora perfettamente strutturata sulla rivisitazione dei suoi classici più famosi. Per tutta la durata di Elvis, ossia quasi tre ore, la vita del protagonista scorre a una velocità inarrestabile, in questo flusso iperattivo ambivalente: ciò che porta Elvis sulla vetta del mondo, rendendolo l’uomo più famoso e riconoscibile di sempre, è anche ciò che lo scaraventa nel baratro della depressione, fino alla morte. Morto ad appena quarantadue anni, prima ancora di poter invecchiare, Elvis è l’animale sacrificale dello spettacolo americano, prodotto del consumismo sfrenato, della sete di novità, della rincorsa all’essere sempre il numero uno, mai fermo, il King del rock and roll, per l’appunto.
Dall’altra parte del racconto, ferma a casa ad aspettare che ritorni dai tour e dai set, c’è Priscilla. Il film di Coppola e quello di Luhrmann, da questo punto di vista, sono complementari. Tanto il movimento frenetico e ossessivo fa da perno alla storia di Elvis, quanto l’immobilità e la vacuità lo fanno a quella di Priscilla, o perlomeno fino a un certo momento della sua vita. Se da un lato abbiamo un uomo che viene divorato vivo dall’esigenza di essere costantemente su un palco, a prescindere da ciò che gli succede attorno, spremuto da un agente che lo sfrutta fino a portarlo allo sfinimento fisico e psicologico; dall’altro la vita di Priscilla si consuma nella prigione dorata di Graceland, con infinite attese del suo ritorno e un’esistenza che sprofonda nella noia e nell’impotenza di un amore che le causa non poche sofferenze. Sostanzialmente prigionieri di due gabbie diverse, Priscilla ed Elvis vivono insieme una dimensione esistenziale opposta ma convergente nel paradosso della solitudine, nonostante abbiano tutto quello che desiderano.
Nel film di Sofia Coppola, regista che spesso affronta il tema della noia, soprattutto legata a donne che si ritrovano in una dimensione esistenziale che ricorda quella di una casa di bambole, vediamo il momento preciso in cui Priscilla Beaulieu è diventata un’icona di stile e di bellezza, ma anche ciò che questa ambizione, più o meno consapevole, ha comportato. Lei ed Elvis si conoscono quando Priscilla ha solo quattordici anni, mentre si trovano entrambi in Germania in una base militare americana. Elvis è là di stanza per due anni, Priscilla vive con la sua famiglia in una realtà che riproduce in modo artificiale la vita di uno statunitense degli anni Cinquanta. Prigioniera del grigiore e lontana dalla sua vera casa, Priscilla vive già la sua adolescenza come una ripetizione stanca e priva di stimoli. La svolta arriva quando viene notata da un militare più grande che la invita a una festa a casa di Elvis, e il sogno di ogni teenager di quel periodo diventa così reale. Tutto ciò che una ragazza di quattordici anni può desiderare, nelle ore di contemplazione delle foto e di ascolti ripetitivi delle stesse canzoni, per Priscilla diventa vita vera: il suo idolo si è innamorato di lei, e non c’è niente che potesse desiderare di più.
Che la storia tra Elvis e Priscilla sia a dir poco controversa, specialmente se guardata con gli occhi del presente, è cosa ben nota. Dieci anni di differenza, tra un ventiquattrenne e una quattordicenne, sono un tema problematico, e su questo non si discute. Ma oltre a considerare che negli anni Cinquanta vigevano ben altri tipi di regole e valori, soprattutto sulle donne, il punto focale della storia di Priscilla non è tanto il giudizio a posteriori su ciò che quel matrimonio ha comportato. Il senso del film, infatti, è semmai quello di raccontare la forma che la vita della protagonista ha preso nel momento in cui ha deciso che il suo futuro sarebbe stato accanto all’uomo più famoso del mondo. Decisa fino all’ultimo ad abbandonare la sua famiglia per tornare negli Stati Uniti, Priscilla sa esattamente quello che vuole, ossia essere la moglie di Elvis. Ma ciò che non sa, dall’altra parte, è cosa sia davvero Elvis. Lo impara a sue spese, nell’amore viscerale che prova per lui e che lui prova per lei in una forma del tutto disfunzionale: Priscilla è la stabilità, è la ragazza che lo aspetta a casa, è la donna verginale che non deve sedurlo, è la bellezza pura e materna che veste solo di azzurro, perché i colori sgargianti non stanno bene su di lei e perché deve essere lui a decidere come deve apparire. Priscilla, in sostanza, è il porto sicuro a cui approdare, è l’intimità nella vita di un uomo che non ha privato. E la domanda sorge spontanea: cos’è allora Elvis per Priscilla?
Nel racconto di Coppola, come già detto prima, non prevalgono note di giudizio rispetto a tutto ciò che di discutibile ha fatto Elvis nei confronti di sua moglie. La chiave di lettura inedita di questa storia però, elemento che completa la visione d’insieme con il film di Luhrmann, è il punto di vista di Priscilla. Per la prima volta, vediamo Elvis con gli occhi della persona che gli è stata accanto, e per la prima volta lo vediamo anche nei suoi aspetti più ridicoli, goffi, tragicomici. Se Austin Butler ha vestito i panni del Re del Rock calandosi nel ruolo fino a diventare quasi più Elvis di Elvis stesso, Jacob Elordi ha fatto l’esatto contrario. Tanto sinuoso e seducente, quanto rigido e sbruffone, l’Elvis di Elordi non punta a un’imitazione ma quasi a una parodia. Non lo sentiamo mai cantare, né lo vediamo ballare, al contrario, il fisico statuario di Elordi rende la sua versione di Elvis quasi come un cartonato, un poster in una camera, appunto. Un’immagine che, andando avanti con la storia, comincia a sbiadirsi anche per Priscilla stessa, che dopo anni di matrimonio deciderà di lasciarlo, iniziando una nuova vita. Non capita spesso di incontrare i propri idoli, ancora meno spesso di conoscerli davvero. La vita di Priscilla a Graceland rimane una fiaba affascinante da guardare, luccicante e splendida proprio come le canzoni e i costumi di Elvis. Ma come sappiamo le fiabe sono storie inventate, e la vita reale non ha schemi narrativi così precisi né ruoli definiti. Priscilla di Sofia Coppola è una panoramica sulla vita di una ragazza che ha visto con i suoi occhi un poster appeso nella cameretta uscire dalla parete e diventare realtà, con tutto ciò che questo comporta, nel bene e nel male.