La ragione per cui si guarda un prodotto come The Kardashians non è certo quella di avere ispirazioni di alcun tipo, né esempi da seguire. Sin dal suo inizio, ormai quasi vent’anni fa, quando era ancora Keeping Up With The Kardashians e le protagoniste avevano un aspetto molto diverso da oggi, le intenzioni sono sempre state dichiaratamente quelle di fare puro intrattenimento, o televisione trash se vogliamo. Motivo per cui, nel guardarlo senza troppo impegno in pausa pranzo, non prestando attenzione alla trama a tratti anche implausibile, non molto tempo fa sono rimasta molto stupita da un elemento del racconto che fino a quel momento non era mai stato sfiorato. Kim Kardashian, la celebrità simbolo per eccellenza del consumismo contemporaneo, la quintessenza del “Not bad for a girl with no talent”, avanguardia del mondo degli influencer, a un certo punto della serie parla del suo esame per diventare avvocata. Bocciata svariate volte, iscritta lateralmente alla Law School californiana, tutt’altro che studentessa modello, Kim spiega che ha scelto di voler diventare un avvocata a più di quarant’anni perché desidera aiutare il prossimo, oltre che seguire le orme del padre, il famosissimo avvocato di O.J.Simpson, scomparso nel 2003. Non so se Kim Kardashian stia effettivamente proseguendo con i suoi studi in legge, ma il solo fatto che in un contenitore del genere si parlasse di una donna adulta, ricca, già autonoma di suo, che per pura passione e voglia di emancipazione intellettuale si mette a studiare qualcosa, non dico che mi abbia riacceso una speranza, ma dal punto di vista narrativo mi ha molto colpita. Ed è la stessa identica sensazione che mi è rimasta guardando Povere creature!, l’ultimo film di Yorgos Lanthimos che ha vinto il Leone d’oro a Venezia lo scorso settembre.
Può sembrare un paragone molto azzardato, quello tra Kim Kardashian che fa l’esame per avvocato e la storia di Bella Baxter, la protagonista del film tratto, con le dovute differenze, dal romanzo del 1992 di Alasdair Gray, interpretata da Emma Stone, fresca di Golden Globe e candidata agli Oscar per la performance. Chiaramente lo è, anche se credo che quando si parla di racconti, alti o bassi che siano, i parallelismi non sono mai troppo azzardati nel momento in cui qualsiasi cosa, anche un programma televisivo trash, può stimolare una riflessione. Nel caso di Poor things, inutile specificare, a stimolare gli occhi e la mente degli spettatori non c’è solo un unico tema o una sotto trama marginale, ma un intero apparato di scrittura, messa in scena, colonna sonora e recitazione che esprimono tutta la bravura di uno dei registi più accreditati del presente. Per parlare di Povere creature! però, vorrei partire dalla fine, cercando di fare lo slalom tra gli spoiler – ammesso che di spoiler si tratti, visto che la storia è già vecchia di quasi trentadue anni – ossia dal momento in cui la protagonista arriva alla conclusione che non c’è una vera emancipazione senza lo studio e la conoscenza.
Bella, giovane donna che vive inizialmente nella casa-studio di uno scienziato che ha dedicato tutta la sua vita alla medicina, fino a diventare lui stesso cavia di suo padre, nonché mostro deforme, deturpato dalle cicatrici, ci viene presentata come una sorta di tabula rasa. È una povera creatura, una delle tante che popolano la casa del medico, salvata da qualcosa che sappiamo esserle stato quasi fatale; cammina come un bambino di pochi anni, mangia come in una mensa all’asilo, è goffa, sconclusionata, non riesce a parlare. Scopriamo, man mano che la storia va avanti, che il suo essere così infantile, al confine con una qualche forma di patologia mentale, non è altro che una condizione determinata da un esperimento del dottor Baxter. Una condizione che però, al contrario del classico topos in stile mostro di Frankenstein, ha una via d’uscita che risiede tutta nel miglioramento, nell’apprendimento, appunto.
Non siamo di fronte a un energumeno creato in un laboratorio vittoriano, nonostante l’ambientazione di Povere creature! sia calata in modo preciso e impeccabile in quelle atmosfere gotiche che si legano a una modernità post-apocalittica e steampunk. Il mostro di Frankenstein che ci racconta Mary Shelley, al contrario di Bella, soffre perché non ha via d’uscita dal suo stato di minus habens, e l’unica soluzione al suo dolore è l’amore: chiede al dottore che lo ha creato una compagna, niente di più. Bella invece, in un percorso di formazione itinerante che parte da Londra e si estende in giro per l’Europa, tra Lisbona e Parigi, più cresce come individuo, nonostante le sue difficoltà che la rendono spesso grottesca agli occhi del mondo, più capisce di voler sapere. Il primo strumento di conoscenza nella sua nuova vita da povera creatura emancipata è il sesso, esplorato inizialmente con approccio infantile e famelico, libertino fino al punto di diventare insaziabile, e poi come vero e proprio mezzo di produzione da lei detenuto a pieno. La sessualità spregiudicata e istintiva di Bella, priva della trappola delle convenzioni sociali vittoriane, ma anche molto attuali, è così al contempo il suo passaporto per l’emancipazione materiale e l’arma più potente che ha nei confronti del genere maschile, ipnotizzato dalla sua indole, spaventato al punto di volerla fisicamente imprigionare o mutilare, sulla scia di vecchie pratiche da diciannovesimo Secolo che non risparmiavano atrocità nella deturpazione fisica, specialmente sui corpi delle donne.
C’è un’altra cosa però che Bella impara mentre cresce, diventando un essere senziente e sempre più autonomo, lasciandosi alle spalle la sua vita da “mostro”: il mondo è un posto pieno di crudeltà, sofferenza, ingiustizie. Devastata da questa scoperta che le arriva tutta in un colpo, interrompendo il suo viaggio avventuroso fino a quel momento fatto solo di sensazioni di piacere, è la lettura di testi filosofici e politici che la salvano dallo stato di disperazione in cui crolla non appena si rende conto della quantità di dolore che la circonda. Il socialismo a cui viene introdotta nella casa chiusa in cui comincia a lavorare a Parigi non è altro che la chiave di lettura per tutta la sua storia di formazione. Il futuro di Bella è migliorabile, così come lo è quello dell’essere umano, grazie alla scienza e grazie a principi di uguaglianza e giustizia, se condivisi all’unanimità. Il lieto fine di questa storia che comincia in forma di tragedia, con una donna che sembra essere destinata a rimanere per sempre prigioniera di un uomo, che sia il dottor Baxter, un nuovo marito o un amante folle, è nella dimostrazione che non esistono esseri umani meno intelligenti o meno brillanti di altri, tutto dipende dal modo in cui si cresce e in cui si fa esperienza, tutto è frutto della contingenza nella quale si è calati come individui parte di una società. Anche Bella, che parte dall’età mentale di un poppante, arriva a voler diventare una chirurga, e tutto questo solo grazie alla curiosità e agli stimoli che riceve. La vita di Bella Baxter è, in altre parole, la metafora favolesca e steampunk, raccontata da Lanthimos con un’estetica dissacrante, del sogno socialista.
C’è chi ha paragonato Povere creature! a Barbie, e in un certo senso possiamo inquadrare questo film in un filone contemporaneo di redenzione femminile – pensiamo anche all’enorme successo di C’è ancora domani. Sicuramente la storia che ha scelto di raccontare Lanthimos ha diversi aspetti che lo collocano in un genere a oggi molto richiesto, ossia quello delle narrazioni femminili che vertono sul riscatto, sull’emancipazione, sull’autonomia. Eppure, io credo che questo film vada oltre questa categoria, nonostante Bella possa apparire inizialmente come una bambola prigioniera e priva di giudizio, un po’ come una Barbie dell’Ottocento.
Il percorso di Bella è un percorso universale, che nel suo caso incontra più ostacoli per via del fatto che è una donna, e in quanto tale ostracizzata per la sua libertà, intellettuale e sessuale. Ma la parabola di crescita e di evoluzione che lei mette in atto grazie alla volontà di apprendimento, la presa di coscienza che la inducono a voler diventare lei stessa una donna di scienza, si può applicare su chiunque, al di là del genere di appartenenza. Ed è un principio talmente trasversale che, paradossalmente, si applica in modo collaterale anche a un personaggio che non ha niente di rivoluzionario né di egualitario come Kim Kardashian, una donna che in alcun modo potremmo considerare una “povera creatura”, sebbene la sua vita alle volte appare asfissiante e artefatta per sua stessa volontà, come se vivesse in uno zoo dentro cui lei è l’attrazione principale. Pur rimanendo nella sua bolla di ricchezza ostentata e di vacuità, potrebbe mettere a disposizione del mondo la sua conoscenza, ottenuta grazie al privilegio di potersela permettere anche a quarant’anni, e in qualche modo rendersi utile al di là dei suoi scopi individualisti – vorrebbe riformare il sistema giudiziario, ha già aiutato una detenuta.
Ed è qui che arriva il socialismo, ripreso dal romanzo originale e usato come dettaglio nella storia di formazione di Bella, ma fondamentale per una lettura materialista delle metafore usate in questo racconto di fantasia: cosa possono fare tutte quelle donne, e tutte quelle persone in generale, che non sono Kim Kardashian e che vorrebbero comunque studiare, conoscere, esplorare? Un sistema pubblico dovrebbe garantirlo a chiunque, soprattutto a chi vive una vita da povera creatura. In una favola tutto ciò diventa possibile grazie alla volontà dell’autore, che sceglie cosa raccontare: Lanthimos ha creato un universo fantastico e al contempo grottesco dentro cui la mostruosità diventa l’arma per l’emancipazione. Nella realtà, esistono la volontà e la perseveranza nel credere che, attraverso alcune idee, la condizione dell’essere umano, al contrario di ciò che sostiene chi si abbandona a un nichilismo senza speranza, può essere migliorata, esattamente come ha fatto Bella Baxter con la sua vita.
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