
Una delle caratteristiche distintive dei film thriller è il modo in cui suonano, il loro rumore, la loro musica che anticipa il destino. Chiunque si ricorderà del modo in cui probabilmente è entrato in contatto per la prima volta con questo genere, ovvero da lontano, appunto, sentendo e basta, sentendo che al di là di ciò che conosceva stava accadendo qualcos’altro. Il paesaggio sonoro dei thriller nella nostra infanzia ha definito due spazi ben distinti. La nostra cameretta e la sala, in cui i nostri genitori li stavano guardando. Quei suoni, che evocavano una realtà pericolosa, inquietante, dominata dall’angoscia e da un pericolo imminente che stava per manifestarsi, per la prima volta nelle nostre vite, probabilmente, ci suggerivano una dimensione altra dell’esistenza. Quello che non tutti sanno è che uno dei più grandi compositori di colonne sonore di questi film è italiano, si chiama Pino Donaggio e sarà ospite per una conversazione con Manlio Gomarasca al Cinema Godard di Fondazione Prada, a Milano. La rassegna #Nocturna – spazio concepito per indagare “la notte del cinema”, i suoi impulsi più oscuri, sadici e sofisticati – dedica infatti un approfondimento alla sua opera, e sabato 29 novembre ci sarà la doppia proiezione di A Venezia… un dicembre rosso shocking (Don’t Look Now), film del 1973 di Nicholas Roeg, e di Vestito per uccidere (Dressed to Kill), iconico quanto controverso film di Brian De Palma del 1980.


Ci sono autori che lavorano con le parole, e altri che scelgono i suoni. Pino Donaggio, nato a Burano nel 1941, appartiene a questa seconda categoria: quelli che non hanno bisogno di un volto perché la loro voce, diffusa in sala dalle casse, è sufficiente a dettare una temperatura emotiva, un brivido, a plasmare un diverso ritmo respiratorio, battito cardiaco. E forse Donaggio – compositore di alcune delle colonne sonore più riconoscibili del cinema di genere italiano e internazionale – è così capace nel suscitare questi effetti proprio perché ha iniziato la sua vita artistica come violinista e cantautore. Prima di diventare l’architetto musicale di Vestito per uccidere, Carrie o A Venezia… un dicembre rosso shocking, collaborava con i Solisti Veneti e studiava nei conservatori di Venezia e Milano, si esibiva a Sanremo e scriveva canzoni pop che sembrano piccole sinfonie. Per citarne giusto una, così, una cosa da poco: Io che non vivo (senza te), canzone che ha attraversato tutte le radio del mondo, trasformata da centinaia di cover, tra cui quella di Elvis Presley. Forse è proprio questa doppia provenienza – la disciplina classica e la vulnerabilità del pop di quegli anni (era il 1965) – a rendere la sua musica tanto potente e riconoscibile, una musica che non sorregge solo le immagini, ma le tende come pelle sull’osso del racconto, rivelandone l’enorme tensione interna, trascinandoti al suo interno.



In A Venezia… un dicembre rosso shocking, Donaggio esordisce nel cinema di genere quasi per sbaglio. Nicolas Roeg vede qualcosa nel suo modo di scrivere melodie sospese, tra minaccia e malinconia, quasi noir, anche nel pop. La storia è quella di John e Laura Baxter, una coppia ancora avvolta dal lutto per la morte della figlia, immersa in una Venezia livida e intrisa di un’umidità che si direbbe morale. La città diventa una coscienza, un presagio continuo. La musica di Donaggio è la prima a suggerire che ciò che vediamo non coincide con ciò che accade davvero. È un suono d’acqua, o un colore rosso che lampeggia anche quando non si vede, un ricordo che si muove come un’ombra nel campo visivo. Se Roeg filma Venezia come un labirinto psichico, Donaggio ne traduce l’ansia latente e sotterranea: quella dei luoghi troppo belli per non essere pericolosi, delle trappole. Quella di una città fatta per perdersi.


Qualche anno dopo, Brian De Palma lo contatta. È appena morto Bernard Herrmann, il gigante che ha scritto la musica di Psycho, Vertigo, Taxi Driver. De Palma cerca qualcuno che possa continuare quella stessa linea, ma senza imitarla. Donaggio è l’artista che cerca. Il loro sodalizio durerà per ben sette film. In Vestito per uccidere, la sua partitura diventa il corpo sonoro del film: un erotismo inquieto, un desiderio inconfessabile, irriconoscibile, capace di spezzare dall’interno l’identità, una violenza che riverbera sulle superfici lucide della città – i vetri del museo, l’ascensore – e spezza la realtà in tante schegge impazzite. Donaggio accompagna i personaggi del film come se la musica fosse il loro doppio emotivo, la sua composizione segue la logica del thriller, senza mai essere una didascalia alle immagini, ma preparando l’atmosfera emotiva dello spettatore per potenziarne l’effetto. C’è un punto nel film in cui il suono non si limita a fare atmosfera: diventa il vero narratore. È la musica a dirci che uno sguardo, un dettaglio apparentemente infinitesimale, non è neutro; che quello che desideriamo in maniera furiosa, atavica e disperata a volte – anzi, raramente – non coincide con ciò che ci fa bene, e non tutti sanno accettarlo, comprenderlo, alcuni si spezzano al cospetto di questa dissonanza cognitiva.


La scelta di Fondazione Prada di dedicare una parte di #Nocturna a Donaggio non è solo una proposta cinefila. È una scelta politica sul modo in cui ricordiamo il cinema italiano e il suo rapporto con i generi e con l’industria del cinema internazionale. Il nostro Paese non ha mai smesso di produrre horror e thriller erotici d’autore, ma spesso li ha considerati come parentesi, deviazioni, zone marginali, di genere appunto, come se si trattassero di filoni minori. Donaggio, invece, rivela quanto queste zone abbiano inciso sul modo in cui il cinema racconta il corpo, la paura, il desiderio. Riascoltarlo ora significa recuperare un’estetica capace di essere popolare e sofisticata al tempo stesso, concedendosi il lusso di un’immersione totale nella sala buia, come prescrive il rituale. La rassegna #Nocturna è un invito a tornare al cinema come luogo in cui lasciarsi attraversare. Di fronte allo schermo del Cinema Godard, le partiture di Donaggio ritroveranno il loro habitat naturale: il buio, dandoci l’occasione di capire davvero cosa significa comporre suoni che fanno paura, che sembrano conoscerci più di quanto noi conosciamo noi stessi, e accomunarci parlando alle nostre ombre.



Alla fine, ciò che forse colpisce maggiormente di Donaggio non è solo la qualità compositiva e la quantità di film, tra cui pietre miliari del cinema, che ha musicato – da Dario Argento a Tinto Brass, da Joe Dante a Giuseppe Ferrara – ma il fatto che la sua musica sia tuttora attuale, perfetta, capace di farsi compagna del panico o dell’erotismo, ma dello spettatore, coinvolgendolo e permettendogli di rendersi conto conto che qualcosa di sé risponde a quelle note perché ha già incontrato la paura, il lutto, l’attrazione, anche verso il proibito, verso ciò che non si dovrebbe guardare, proprio come succedeva in quelle serate della nostra infanzia, quando di quei film thriller ci arrivano attutite solo le note della loro colonna sonora. La musica si fa così memoria privata, e forse è per questo che, ancora oggi, i suoi temi musicali parlano alla nostra parte più intima, quella che non è solo spettatrice, ma implicata nella sua agentività, nella sua scelta appunto di andare oltre, con qualsiasi senso, seguendo la curiosità nata dal desiderio, la stessa che rende l’arte viva.