Quando si parla di Pietro Germi, nella migliore delle ipotesi – ovvero quella in cui lo si conosca – lo si associa alla genesi della commedia all’italiana. Viene in mente Marcello Mastroianni con i baffetti, i capelli impomatati e un pessimo accento siciliano; viene in mente Stefania Sandrelli con un velo di pizzo nero sul viso e una scriminatura dritta e precisa al centro della testa; vengono in mente quelle atmosfere alla Famiglia Addams in chiave sicula, quelle di una dark comedy che fece vincere al regista genovese un premio Oscar per la miglior sceneggiatura nel 1963. Divorzio all’italiana, il suo film più famoso, è anche il film che ha dato alla connotazione “all’italiana” il significato che conosciamo oggi. Non solo una precisazione geografica ma anche spirituale, quel senso di comicità ambigua insito in ognuna di queste commedie, quella capacità tipicamente italica di ridere delle disgrazie, dando vita a un vero e proprio genere cinematografico che rende ridicola qualsiasi tragedia. Pietro Germi, però, non è solo il regista che ha raccontato il Meridione con un atteggiamento a metà tra l’ironica ammirazione e il paternalismo cavouriano. Nella sua carriera da regista e attore, c’è un film in particolare che lo ha sdoganato a un pubblico più vasto, nella fase crepuscolare del neorealismo. Il ferroviere, uscito nel 1956, è forse uno dei film che meglio rappresentano la mutazione e la reinterpretazione degli stilemi neorealisti, e non a caso è stato al centro di critiche piuttosto dure. In un periodo in cui al cinema si richiedeva una forte presenza politica, uno schieramento, un messaggio chiaro, i dibattiti che generavano dalla semplice uscita di un film erano a dir poco densi di contenuti.
Un errore in cui non bisognerebbe mai incappare è quello di giudicare un’opera d’arte con i criteri del tempo a cui apparteniamo noi, e non lei. Essendo il cinema, la letteratura, la pittura, il teatro, la musica tutti prodotti della società che li partorisce, cercare di riportare al presente ciò che stiamo vedendo o ascoltando è un esercizio ingenuo, e anche abbastanza inutile. È come se provassimo a leggere la Divina Commedia senza sapere quale fosse la situazione politica della Firenze del Quattordicesimo secolo: l’interpretazione sarebbe fuorviante, incompleta, presuntuosa. Non c’è niente di peggio che l’assenza di una prospettiva storica. Ciò che invece può darci un punto di vista più soggettivo per l’analisi o la semplice fruizione di un’opera, semmai è vedere cosa è cambiato nel frattempo, cosa risulta incomprensibile e cosa oggi invece recepiremmo con un atteggiamento ben diverso. Il film di Pietro Germi è un ottimo modo per esercitare la propria abilità di cambiare focus e di mettere da parte l’inquinamento che genera la prepotente invasione della nostra opinione rispetto a un’opera cinematografica. Perché guardandolo oggi e leggendo tutte le critiche che gli sono state mosse, in effetti, viene il dubbio che o abbiamo visto un altro film o qualcosa nel modo in cui interpretiamo il cinema dagli anni Cinquanta a oggi è drasticamente cambiato.
La storia è piuttosto semplice: Andrea Marcocci (interpretato dallo stesso Germi), un ferroviere di cinquant’anni, vive il suo lavoro con passione, nonostante la stanchezza e la pressione dei turni. Questo solo in apparenza, visto che ogni sera si sfoga in osteria bevendo litri di vino con i colleghi. È il solito paradosso di chi vive per lavorare e interpreta il tempo libero come una sorta di fuga dalla realtà, come una pausa da ciò che è davvero importante, e non il contrario. È l’essenza della vita della maggior parte delle persone ancora oggi. Attorno a lui c’è una famiglia che barcolla in una condizione di pericolosa precarietà: la figlia Giulia è rimasta incinta del droghiere, e non ne è affatto innamorata, ma per ordine del padre lo sposa; Marcello, il figlio maggiore, è coperto di debiti per il gioco e non ha nessuna intenzione di mettersi a lavorare; Sandro, il bambino attraverso cui viviamo la storia, è un piccolo ragazzo di vita da periferia romana, che lancia sassi con la fionda, senza voglia di studiare, uno di quei bambini coi calzoni al ginocchio e gli occhi languidi che tradiscono una certa bontà d’animo. E poi c’è Sara, la moglie devota, l’angelo del focolare che tollera tutto e accoglie tutti, la spalla su cui piangere, il bastone della vecchiaia, in poche parole la tipica Madonna domestica. A sconvolgere la già difficile situazione familiare dei Marcocci c’è un evento tragico: Andrea investe con il suo treno un suicida. La nonchalance con cui tutto torna alla normalità, il modo in cui il treno riparte e tutti sembrano assolutamente impassibili di fronte alla morte di una persona, lasciano il ferroviere sotto shock. Per riprendersi, beve qualche sorso di vino, ma il trauma è forte e la distrazione gli costa un altro incidente. Andrea comincia così un calvario professionale, tra retrocessioni, incarichi mortificanti, guadagni miseri, accuse di crumiraggio da parte dei colleghi e abbandono da parte dei sindacati.
Ciò che Germi mette in scena con Il ferroviere è un dramma familiare, che si consuma tra le mura di una casa che un tempo aveva creduto essere felice. Eppure, Sara rassicura Giulia dicendole che il matrimonio è così, che bisogna accettarsi, e che all’inizio era difficile pure per lei, quando Andrea tornava ubriaco e la picchiava. Marcello odia profondamente il padre, lo disprezza perché è un violento, perché alza le mani sulla madre e sulla sorella. Sandro, invece, ricalca quelle figure neorealiste di bambini che adorano i padri, che li prendono per mano quando sono sconfortati di fronte al fallimento totale: un po’ come il Bruno di Ladri di biciclette, anche lui incarna il ruolo della speranza in una situazione di disastro irrecuperabile. È il volto gentile del “fallo per me”, della motivazione a cambiare, a smettere di bere, a essere felici. Ma il dramma di Andrea, con tutte le critiche che gli possiamo fare, è un dramma intimo e insanabile. È la frustrazione che genera una gabbia sociale come quella della famiglia Marcocci, una condizione che Andrea difende a tutti i costi, nonostante sia un modello ormai in crisi. La parabola della sopportazione e della conservazione che il matrimonio fallimentare di Giulia vorrebbe perpetuare è palesemente obsoleta, lo scontro tra vecchio e nuovo genera una lacerazione profonda, soprattutto in un contesto familiare così fragile. Andrea, in sostanza, è un uomo finito prima ancora di morire, è un modello incompatibile con i mutamenti sociali, è lo scarto di un’epoca passata. E alla luce di tutto ciò, siamo ancora in grado di giudicare la sua violenza come espressione della sua cattiveria, o è prima di tutto lui la vittima di tempi, condizioni sociali e schemi che lo hanno determinato?
Che Il ferroviere abbia un messaggio sociale preciso, a questo punto, sembra innegabile. Guardandolo oggi, magari in streaming, magari distratti da altre cose, mentre scrolliamo Instagram o ci prepariamo da mangiare, a nessuno verrebbe in mente di pensare “ma questo film manca di critica sociale”. E invece, la critica di quegli anni disse esattamente così. Le accuse verso il film di Germi, così come quelle verso pellicole di Mario Monicelli come I compagni o addirittura altre di Elio Petri come La classe operaia va in paradiso, erano di una rappresentazione superficiale, poco veritiera del proletariato. Certo, che il film pecchi di un sentimentalismo eccessivo, “deamicisiano”, come è stato definito, non si può neppure negare. Il regista è stato additato per aver dato dei problemi troppo borghesi a un personaggio di quella estrazione sociale e di essere scaduto in un fastidioso buonismo. A soffermarsi meglio su Il ferroviere, queste critiche assumono senso, specialmente se si tiene in conto dell’importanza della critica – specialmente marxista – di quegli anni, che era fondamentale per la lettura di qualsiasi prodotto culturale provenisse dall’Italia. Ed è vero che gli occhioni del piccolo Sandro rischiano di diventare stucchevoli, che la figura della moglie martire risulta esageratamente passiva, ma è vero pure che Germi, così facendo, mettendo in scena le contraddizioni del personaggio di Andrea Marcocci, ha umanizzato una figura potenzialmente facile da appiattire secondo uno schema di preferenze. Dando proprio al proletario questa ambivalenza, questa sorta di natura maligna che serpeggia dentro di lui ed esplode in atti di violenza, Germi sta contribuendo ancora di più al discorso di destrutturazione dell’ordine sociale dominante, forse persino inconsapevolmente. Andrea altro non è che una vittima di un sistema che lo inquadra, che lo opprime, che lo confonde, e il fatto che la sua personalità sia così duplice – da una parte padre e marito affettuoso, lavoratore devoto e dall’altra alcolizzato pericoloso e burbero – gli conferisce solo più dignità in quanto essere umano complesso.
Che Pietro Germi non fosse un comunista era ben noto. E che il suo lavoro potesse essere influenzato dalla sua radice socialista – o meglio, socialdemocratica – è scontato dirlo. Che le sue opere trabocchino di una morale populista che ricopre tutto di un velo romanzesco, è ancora più chiaro se le contestualizziamo rispetto al mondo da cui vengono fuori. Il ferroviere era un film che, per il 1956, per un’Italia che usciva dalla guerra, che aveva prodotto il neorealismo, e in cui il dibattito culturale aveva delle precise esigenze, non era abbastanza. Il fatto che a riguardarlo oggi non susciti affatto questo scontento, ma al contrario ci faccia chiedere perché non fosse chiaro che si trattava di un film di accusa sociale ben precisa, dimostra quanto si sia appiattito il discorso politico sull’arte che produciamo. Magari per qualcuno potrebbe essere un bene, una sorta di liberazione dal peso dell’analisi schierata, ma per quanto mi riguarda, preferisco vedere Il ferroviere, leggerci una critica approfondita ed esigente, e continuare ad apprezzarlo per il bellissimo film quale è, piuttosto che non avere verso la cultura del presente nessun tipo di atteggiamento simile.