“Il pianeta azzurro”, di Franco Piavoli, guarda il mondo come se nascesse sotto i suoi occhi - THE VISION
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Guardare il mondo nascere sotto ai propri occhi non è un evento che capita facilmente: è un istante raro, quasi sospeso nel tempo. È come assistere a un miracolo discreto, una rivelazione che ci attraversa. Un momento che non è necessariamente il big bang cosmico. Può essere l’apertura lentissima di un fiore, l’emergere di un insetto dal bozzolo, o la nebbia che si dissolve al primo sole, rivelando un paesaggio che sembra essere stato creato in quell’esatto istante. Magari qualcuno di noi ne ha immaginato i movimenti sfogliando un libro di scienze o alzando lo sguardo tra le stelle, come a cercarne una eco primordiale.  C’è chi, come il regista lombardo Franco Piavoli, di questo costante nascere e rinascere ha saputo catturarne l’essenza, dargli una forma, farne cinema. È il caso del suo documentario Il pianeta azzurro, che fu presentato alla trentanovesima edizione del Festival di Venezia e che gli valse anche il Nastro d’argento come Miglior regista esordiente. In occasione del suo recente restauro, a cura della Cineteca di Milano, il Cinema Godard di Fondazione Prada torna sulla filmografia libera e visionaria di Piavoli, con una proiezione de Il pianeta azzurro organizzata per sabato 13 dicembre, alle ore 16, a cui seguirà una conversazione tra il regista, Paolo Moretti e la programmatrice Cecilia Ermini.

Il pianeta azzurro, 1982

Parlare di Franco Piavoli significa immergersi in un territorio in cui il cinema torna ad essere un atto di meraviglia primordiale, un gesto lento e necessario, come posare la mano sull’acqua di un lago all’alba e scoprire che la superficie riflette non soltanto il cielo ma anche qualcosa di segreto dentro di noi. La sua opera, così schiva e al tempo stesso così luminosa, è un invito irresistibile a rallentare, ad ascoltare, a riscoprire la vibrazione nascosta delle cose. Chi si avvicina ai suoi film sente immediatamente di essere davanti a un autore che rifiuta qualsiasi sovrastruttura narrativa, ma che preferisce accompagnare il mondo mentre semplicemente accade. Piavoli, infatti, osserva la natura con una cura quasi religiosa e guarda gli esseri umani come fossero elementi del paesaggio, creature attraversate dalle stesse forze che muovono il vento, l’acqua, la luce. 

Il pianeta azzurro, 1982

Nato nel 1933 a Pozzolengo, nel cuore della campagna lombarda, un territorio che diventerà per tutta la sua vita il suo laboratorio sensoriale e la sua fonte primaria di ispirazione, Piavoli studia giurisprudenza all’università, e per anni lavora come insegnante. La sua formazione non è quella del cineasta precoce né dell’artista immerso fin da subito nel mondo dello spettacolo. Ma, parallelamente alla sua professione, coltiva una sensibilità profonda per l’osservazione del mondo naturale e per la dimensione paesaggistica della vita quotidiana. È proprio questa doppia traiettoria – la vita concreta, metodica, e l’attrazione crescente per le immagini – che contribuisce a modellare il suo sguardo. Piavoli è, a tutti gli effetti, uno dei più radicali e coerenti autori europei, e lo è proprio perché la sua radicalità non passa attraverso rivoluzioni teoriche, ma attraverso una fedeltà assoluta al suo sguardo originario. Nel tempo, mantiene una posizione periferica solo in apparenza, perché in realtà la sua poetica rappresenta una delle più alte forme di centralità: la capacità di fare del mondo visibile un linguaggio.

Il pianeta azzurro, 1982

È nel 1982, prima di portare la sua sensibilità anche nel mondo dell’opera lirica, che Piavoli realizza il suo primo lungometraggio, Il pianeta azzurro. Nel film, il suo sguardo si apre come un canto muto: non c’è trama, eppure c’è un ritmo profondissimo, un pulsare continuo di gesti, stagioni, animali, cieli. Ogni frammento sembra parte di un organismo più grande, e chi guarda prova l’entusiasmo di ritrovarsi dentro un ciclo che non ha confini. La pellicola intreccia paesaggi, volti, gesti quotidiani, animali ed elementi naturali della campagna lombarda in un flusso ininterrotto, dove luce, acqua, vento e vegetazione segnano lo scorrere del tempo. Attraverso una composizione visiva e sonora di rara precisione, Piavoli riesce a far coesistere il ciclo di una giornata, dall’alba al tramonto, l’alternanza delle stagioni e una profonda percezione della storia cosmica. In questo modo, mette in risonanza il dettaglio più minuto con l’immensità dell’universo. “È davvero un poema, un concerto, un viaggio nell’universo, nella natura, nella vita… una visione radicalmente diversa da tutto ciò che abbiamo sempre visto”, lo descriveva il regista sovietico Andrei Tarkovsky.

Il pianeta azzurro, 1982

Il pianeta azzurro è infatti un’esperienza che sembra nascere direttamente dal respiro della terra, come se il mondo avesse trovato finalmente un modo per raccontarsi da solo, senza l’interferenza dell’uomo, lasciando che la vita affiori in superficie come una serie di miracoli minimi e quotidiani. Piavoli non vuole spiegare nulla, eppure svela tutto: la nascita della luce, la danza dell’acqua, il mutare delle stagioni, la fragilità degli animali, l’innocenza degli sguardi umani. È un cinema che procede per impressioni, per cellule visive, per micro-eventi che insieme formano un’armonia segreta. Chi guarda sente di essere trascinato in un rito primordiale, dove ogni alba è un inizio assoluto e ogni tramonto una fine che non fa paura. È incredibile come il regista riesca a rendere la natura non un semplice scenario, ma un personaggio palpabile, capace di sorprenderci, di commuoverci, di riportarci a un rapporto elementare con il mondo: pioggia che cade, acqua che scorre, mani che toccano, occhi che osservano, insetti che vibrano nell’aria come piccole stelle vive. La cosa più affascinante, però, è la sensazione di tempo che crea: non un tempo umano, lineare e narrativo, ma un tempo ciclico, organico, che ritorna e si rinnova, che non ha fretta e non conosce rotture, e proprio per questo risulta intensissimo. 

Il pianeta azzurro, 1982

Guardando Il pianeta azzurro si percepisce quasi fisicamente il passaggio delle stagioni, non come uno sfondo ma come una metamorfosi costante che coinvolge tutto ciò che vive. È come se Piavoli ci prendesse per mano e ci dicesse: “Ecco, questo è il mondo quando nessuno lo disturba, quando si lascia essere”. E noi, spettatori, ci ritroviamo improvvisamente pieni di gratitudine, come se avessimo riscoperto un linguaggio segreto che conoscevamo da piccoli e che avevamo dimenticato. Non c’è un vero inizio e non c’è una conclusione definitiva: c’è un cerchio che si chiude con dolcezza e si apre di nuovo, lasciandoci la sensazione che tutto ciò che abbiamo visto continui oltre lo schermo, invisibile e interminabile. 

Il pianeta azzurro, 1982

Il suo cinema è così: un mondo che si offre senza alcun bisogno di spiegarsi. Ed è proprio questa libertà che rende Piavoli così prezioso: in un panorama audiovisivo fatto di urgenze, velocità, immediatezza, lui invita a un altro ritmo, più vicino al passo della vita reale, più allineato alle trasformazioni minime che spesso ignoriamo. Guardare i suoi film significa accettare di essere restituiti al silenzio, che non è mai vuoto ma pienissimo di presenze; significa scoprire che la semplicità è una forma altissima di complessità; significa soprattutto provare la gioia di ritrovare, dietro ogni immagine, la scintilla originaria del vedere. Piavoli non vuole stupire: vuole condividere un’esperienza sensoriale, una sorta di rito laico in cui l’esistenza appare per quello che è davvero, un intreccio fragile e potentissimo di natura, umanità e tempo. E quando lo schermo si spegne rimane addosso una strana leggerezza, come se il mondo fosse tornato nuovo, o forse come se lo avessimo finalmente guardato con occhi più attenti, più pazienti, più vivi.

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