Non credo che Parthenope, il nuovo film di Paolo Sorrentino, sia una cosa sola. O almeno, non credo che sia così facile distinguere le intenzioni iniziali dagli obiettivi finali e le premesse dalle promesse. Parthenope è complesso e complessità, in questo caso, significa moltitudine: c’è il punto di vista della protagonista, bellissima e sensibile; c’è il punto di vista di chi le sta intorno, ammaliato e infelice; e c’è il punto di vista del mare, pure di quello, che non è mai una presenza silenziosa, ma che ha una voce, un ruolo e un peso specifico all’interno del racconto. Ovviamente, però, Parthenope è anche un film su Napoli e sui napoletani, e su un certo modo di stare al mondo – di attraversare le cose più che di subirle. La giovinezza si mischia alla malinconia e a una saggezza quasi senza tempo, e questa è un’idea profondamente sorrentiniana. I personaggi non sono solo la loro età; sono ciò che vivono e che riescono a vedere – e “vedere” è una delle parole chiave di Parthenope, al cinema in anteprima dal 19 al 25 settembre e regolarmente in sala dal 24 ottobre.
Celeste Dalla Porta, che interpreta la protagonista, cresce nel corso della storia: prima sembra quasi contenersi e muoversi piano, in punta di piedi; ha degli sprazzi e sono sprazzi stupendi; ma finché non condivide la prima scena con Gary Oldman è a metà: ci offre appena uno spiraglio di Parthenope, di quello che è e che può essere. Quando poi comincia ad avere più dialoghi e non solo battute fulminanti, diventa un’estensione del film, come un braccio o una gamba: è fondamentale che ci sia perché la storia possa andare avanti. Allo stesso tempo, finisce come tutto il resto per essere una dei tanti spettatori di ciò che accade. E ciò che accade è tantissimo.
Sorrentino parte dalla fine della seconda guerra mondiale, offre un contesto ricco e borghese, di gente che lavora e che sta facendo la sua fortuna armando le navi. Si concentra prima sul mare, dove nasce la protagonista e dove tutto, dopo un po’, ritorna, e poi si sposta sulla terra. Parthenope è ancora nella pancia di sua madre mentre intorno a lei si muovono dei personaggi incredibili, come il Comandante (Alfonso Santagata) e suo fratello, Raimondo, che soffia sulle persone e le fa sorridere. Ecco, Raimondo rappresenta uno dei punti di svolta del film. Quando è più grande, è interpretato magnificamente da Daniele Rienzo e ha dentro di sé una dualità straordinaria: è giovane e allo stesso tempo vecchio. Anzi, di più: è antico. Ha vissuto poco e ciò nonostante ha provato tutto. Sa, dicono i suoi genitori; e questo sapere, questa sensibilità, lo condanna. Anche lui, come i tanti che incontrano Parthenope, sembra esserne innamorato. Ma è un amore strano, altro, quasi metafisico. È l’amore di chi non può, di chi non riesce a togliersi dalla testa un’idea e ci ritorna continuamente. Perché, appunto, sa.
In mezzo a Parthenope e a Raimondo, c’è Sandro, interpretato da Dario Aita: innamoratissimo di lei, amico di lui e sospeso, come sono sospese tante altre persone, in questo mare di bellezza e fascinazione. Tutti e tre, Parthenope, Raimondo e Sandro, si compensano. E una delle scene più belle del film è quella in cui ballano insieme, guancia contro guancia, mano nella mano, divisi eppure uniti. Sono a Capri, ma è come se si trovassero dall’altra parte del mondo, perché la realtà non sembra nemmeno toccarli. È qui che Parthenope ha il suo primo, grande incontro: quello con il John Cheever di Gary Oldman, che parla piano, beve tanto e che sa, proprio come Raimondo, perché ha vissuto e provato tutto. Quando lui e Raimondo si scambiano un’occhiata, tra di loro si crea un ponte di complicità: io ti vedo e ti riconosco; so quello che provi, so quello che hai pensato di fare innumerevoli volte e che presto farai; non dobbiamo parlare, non dobbiamo dirci niente; ci siamo e ognuno di noi, a modo suo, ama Parthenope.
La moltitudine di cui parlavo all’inizio non si ferma qui. La vita di Parthenope va avanti: dal dopoguerra arriviamo agli anni Settanta e Ottanta, all’università, all’amore per lo studio. Silvio Orlando, che interpreta il professor Marotta, è capace di tenere la scena e di arricchirla, di prendere uno spunto, uno qualsiasi, e di trasformarlo in un racconto bellissimo. La prima volta che lo vediamo dice agli studenti in attesa di fare l’esame: all’università si viene già cacati e pisciati. E anche se facendo così appare ruvido e respingente, in realtà è l’uomo perfetto – l’uomo ideale – per guidare Parthenope, per darle uno scopo e indicarle una strada. Perché, come le dice, si somigliano. Per un po’, Parthenope pensa di recitare e allora incontra la grande maestra, Flora Malva, interpretata da Isabella Ferrari, che le consiglia di andare dalla grande attrice, la Greta Cool di Luisa Ranieri. Poi però torna ai suoi studi e alla sua passione. In mezzo, semplicemente, c’è la vita: incontra la Napoli più vera e viscerale, quella dei vicoli e delle strade senza luce; si fa accompagnare dal Roberto Criscuolo di Marlon Joubert ed entra in contatto per la prima volta con un altro tipo di bellezza: ugualmente seducente, ma più velenosa e pericolosa, pronta a ucciderti e a stravolgerti.
Il sesso, nel film di Sorrentino, c’è ed è una delle grandi costanti della vita della sua protagonista – in tutte le sue forme. Allo stesso tempo, è come se non ci fosse: perché viene sviscerato e privato della sua natura più sensuale; si trasforma in un rito, un’idea, un lunghissimo corteggiamento. Parthenope sa sempre che cosa dire, e spesso si perde con lo sguardo nel nulla. E allora le chiedono: a che cosa stai pensando? A tutto, forse, oppure a niente. Raccontando Napoli, Sorrentino decide di raccontare ciò che si trova al di sopra e al di sotto della superficie: il mare sta su, i miracoli e la terra, invece, stanno sotto. E così Parthenope incontra il vescovo, interpretato da Peppe Lanzetta, che è più un santone che un uomo di Chiesa: uno che, come lei, è in contatto con qualcosa – con il mondo delle idee o addirittura con una qualche forma di divino – e che però non riesce a tenere separata la carne dall’anima; le vuole insieme, famelicamente, e si fa seduttore.
Il film di Sorrentino è come un viaggio. E non ha nessuna voglia di puntare in un’unica direzione. Va esattamente dove vuole andare, e intanto mostra, indica, dice. Ci sono dei monologhi pazzeschi, in questo film. Come quello che fa Luisa Ranieri nei panni di Greta Cool su Napoli e sui napoletani, su quanto questa città che sembra apertissima sia in realtà snob, pretenziosa e chiusa; sul fatto che le cose, a volte, cambiano semplicemente per non cambiare. Oppure c’è il vescovo di Lanzetta che a un certo punto, a Parthenope, confessa: la schiena è tutto; il resto è pornografia. Ci sono gli occhi di Joubert che raccontano una storia a parte, profondi e tristi come sono. C’è una carrozza che è il letto di Parthenope e che ha il potere di accompagnarla ovunque mentre dorme, e di farla sognare e di farle conoscere ciò che non ha mai visto. Il film di Sorrentino si muove su diversi binari: uno, legato alle immagini e alla luce e ai colori, è figlio della fotografia di Daria D’Antonio; un altro, più sottile e sotterraneo, è intrecciato alla musica di Lele Marchitelli, che in alcuni momenti è una melodia d’accompagnamento e in altri quasi una marcia.
Stefania Sandrelli, che interpreta Parthenope da adulta, dopo una vita passata altrove, apre e chiude il cerchio del racconto. Prima solo con la sua voce, poi con tutta sé stessa. E ritorna lì, al passato. Perché questo è anche un film sulla malinconia e sulla forza dei ricordi, di ciò che siamo stati, di queste estati che erano come capitoli a parte della nostra giovinezza e in cui potevamo essere chiunque. Nel caso di Parthenope, l’estate non finisce mai. Oppure sì, finisce, ma non nello stesso modo in cui finisce per noi: finisce perché arriva la durezza della vita e la schiaccia giù e la priva – anche se per poco – della capacità di meravigliarsi. Vede il mare di Napoli e le sembra solo mare. E invece non lo è, e lei che ci è nata dentro lo sa.
Parthenope è un invito, e più che una risposta pone una domanda. E siamo noi, dopo averlo visto, a decidere che tipo di domanda sia. Può essere quella che tutti fanno alla protagonista: a che cosa stai pensando? Oppure può essere una delle tante che riempiono la storia, che si rincorrono e si cercano ripetutamente. Amare troppo o troppo poco, credere o giudicare, sperare nel miracolo del Santo o diventare il proprio miracolo. Se in È stata la mano di Dio Sorrentino ci presentava una Napoli accogliente e profondamente radicata nella realtà, in Parthenope c’è una voglia continua di sorprendere e di giocare con il fantastico. Sono personaggi straordinari quelli che popolano questo film. Tutti, nessuno escluso. Fanno parte di un mondo che esiste e non esiste, allo stesso tempo. Parthenope, così affascinante e bella, è un mistero. E lo è pure tutto il resto. Solo che spesso ce ne dimentichiamo. Napoli accoglie, respinge, si incazza, esalta; gioisce e si dispera. Per l’estate che finisce, per esempio, o per lo scudetto che la sua squadra ha vinto. La festa si mischia alla disfatta, il trionfo alla preghiera, e ogni cosa, proprio per questo, ci sembra stupenda. E forse, dico forse, lo è.