Oggi, col fanatismo, abbiamo totalmente perso il controllo. Come in “Opus”. - THE VISION
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Ci sono tre regole principali che mi sono dato da quando i social sono diventati una sorta di Far West: la prima è che posso evitare di dare la mia opinione su ciò che accade nel mondo, tanto quella di ognuno dura ormai il tempo di una story; la seconda è che anche se l’istinto primordiale di rispondere ai commenti insulsi è sempre molto forte, è meglio sedarlo – o seguirlo e poi eliminare il commento di risposta, pentendosene, nei successivi trenta secondi; la terza è che mai e poi mai ha senso inserirsi in una discussione tra fandom, o twittare qualcosa – termine quasi vintage ormai – contro uno di essi. Nessun pensiero, per quanto intelligente, sensato, necessario, urgente, simpatico, può valere le possibili conseguenze di finire nel loro mirino. È una dinamica, quella che ha a che fare con la voglia di fuggire il confronto, che persiste anche nel mondo reale e che mi sembra riguardi soprattutto l’incapacità contemporanea di concepire anche solo la remota possibilità di non essere nel giusto, o che due opinioni possano essere entrambe valide seppur in disaccordo. Quando gli scontri avvengono poi per motivi legati a celebrità, divi o personaggi famosi, diventa ancora più difficile trovare un punto d’incontro, perché prima di tutto il bisogno di ritrovarsi un idolo è qualcosa di atavico, a cui razionalmente forse sappiamo anche poco dare un senso personale. È in questo mondo che si immerge Opus – Venera la tua stella, esordio al lungometraggio del regista, giornalista e scrittore Mark Anthony Green, presentato in anteprima all’ultima edizione del Sundance Film Festival e che verrà proiettato sabato 28 marzo, alle 20:30, al Cinema Godard di Fondazione Prada, a Milano, alla presenza di Green stesso, che sarà protagonista di una conversazione con Manlio Gomarasca, fondatore e direttore della rivista Nocturno.

Muovendosi tra thriller e horror, Opus – Venera la tua stella racconta la fascinazione per il culto della celebrità nell’epoca contemporanea a partire da un’icona che, se fosse realmente esistita, sarebbe stata al pari quanto meno di Elton John o David Bowie: Alfred Moretti. Moretti – pronunciato con quel perfetto accento americano che apre la “e” e calca poco sulla doppia “t”, proprio come lo immaginiamo – è stato la più grande popstar della sua epoca. Dal 1985 al 1995, per dieci anni ha avuto ben trentotto hit al primo posto in classifica, un genio musicale che ha incanalato la sua energia creativa in album che ha segnato una generazione. Una leggenda che ha raggiunto le vette della fama – e poi è scomparsa. Almeno fino ad ora, quando, dopo vent’anni, decide che è arrivato il momento di tornare sulle scene con l’album più spettacolare mai prodotto, Caesar’s Request. Per promuoverlo, invita in un ranch isolato un gruppo selezionatissimo di giornalisti, critici ed esperti di musica: Stan Sullivan, che dirige una rivista musicale; Clara Armstrong, conduttrice di un programma di gossip; Bianca Tyson, una fotografa spregiudicata; Emily Katz, un influencer; e Bill Lotto, vecchio amico di Moretti. A sorpresa viene invitata anche la giovane giornalista musicale Ariel Ecton, dipendente di Sullivan ma insoddisfatta del proprio lavoro. Vorrebbe avere proprio la storia giusta tra le mani, ma quando ne propone un’importante finisce sempre per essere assegnata a qualcun altro. Si sente bloccata nella sua carriera e non riesce a uscirne, perché come le dice un amico è troppo “nella media”, ed essere medi non rende le esperienze da raccontare degne di nota. Eppure, una volta sul posto, Ariel è l’unica ad accorgersi che la comunità di seguaci raccolti attorno a Moretti sembra assomigliare sempre più a una setta vera e propria. Certo, il fatto che siano vestiti tutti dello stesso colore, l’indaco, e che ci sia una yurta in mezzo al deserto in cui, uno alla volta, si rinchiudono tra una montagna d’ostriche da sgusciare, con un coltello in mano, per cercare delle perle e svolgere quella che definiscono “l’immersione”, se non un indizio, almeno un piccolo segnale sembra darlo.

Quello delle celebrità, tra l’altro, è un campo particolarmente familiare per Green, che per tredici anni ha lavorato per l’edizione americana della nota rivista maschile GQ, occupandosi anche di interviste ad attori, musicisti e personaggi famosi. “Il seme del film”, spiega il regista, è nato proprio da “questa riflessione sulla nostra dipendenza dal tribalismo delle celebrità e sul tipo di natura adulatoria che abbiamo con gli esseri umani. E mi sembra che la società sia davvero vulnerabile”, dice, “suscettibile a manipolazioni e svolte pericolose”. Non è un caso che, nel ricordare una citazione di Michael Jackson che lo perseguita da tempo, Green cita l’episodio in cui, mentre si trovava in un negozio di dischi, il noto cantautore statunitense avrebbe assistito a un esercito di fan che, spingendo, avrebbe sfondato una vetrina, con un esito rovinoso: un pezzo di vetro si stacca e taglia la gola a una ragazza, che si riversa a terra in una pozza di sangue ignorata da tutti. “Perché?”, avrebbe raccontato Jackson. “Perché c’ero io e volevano afferrarmi per avere il mio autografo”. Oggi più che mai, infatti, sembriamo aver perso il controllo. Ovunque e in qualunque settore assistiamo a una paralisi della capacità di confronto causata dal tribalismo, dal fanatismo e dalla convinzione che le proprie idee o comunità di appartenenza siano superiori a quelle altrui. In un certo senso, il bisogno di sentirsi parte di qualcosa di più grande è sempre stato un elemento fondamentale dell’esperienza umana, ma ora sembra aver preso una china su cui varrebbe la pena riflettere.

Dall’inizio degli anni Duemila, prima con la diffusione su larga scala di Internet e poi con l’affermazione dei social media, molti ricercatori hanno iniziato a porre l’attenzione sulle dinamiche legate al culto delle celebrità da un punto di vista antropologico, sociale e psicologico, evidenziando come questo fenomeno rappresenti qualcosa di più complesso di una semplice moda. In particolare, sul piano psicologico, si è arrivati a considerare che un coinvolgimento eccessivo nella vita privata e professionale di una persona possa sfociare in forme di ossessione e dipendenza, riconducibili a quella che oggi viene definita la sindrome del culto delle celebrità, pari a una divinizzazione di personaggi come musicisti, sportivi, attori, ma nel predominio digitale dei nostri tempi anche influencer. L’accesso sempre più immediato alle vite altrui ha amplificato questa tendenza, rendendo le celebrità più vicine e alimentando l’illusione di un’intimità autentica, mentre la società in cui viviamo ha continuato ad attribuire un valore sempre più profondo alla fama e al successo. Non a caso in Opus, i Livellisti, cioè coloro che hanno deciso di seguire Moretti e vivere secondo la sua filosofia, raccontano di aver fatto questa scelta a seguito di una semplice telefonata del loro leader-cantante di culto, e senza batter ciglio hanno abbandonato la loro vita precedente. Sono lì per esprimere la loro creatività, coltivare il proprio talento giorno dopo giorno, qualunque esso sia, ma anche per farsi ombra degli ospiti raccolti nel ranch per ascoltare Caesar’s Request, seguendoli passo a passo. 

È proprio nelle interazioni tra i Livellisti e il gruppo di giornalisti che il thriller e l’horror si intersecano con l’ironia: sedute di armocromia inaspettate; l’obbligo di radersi “lì sotto” per poter presenziare davanti a Moretti; Belle, la seguace affidata ad Ariel, che la segue mimando il suo stesso passo mentre fa jogging. Se tutto funziona al meglio, anche in queste sfumature, è soprattutto per merito del cast – aveva ragione chi, durante gli Oscar, sosteneva che dovrebbe essere inserita una nuova categoria dedicata ai direttori e alle direttrici dei casting. Oltre a Juliette Lewis – nei panni di Clara – e a Murray Bartlett – in quelli di Stan –, a splendere sono i due poli della pellicola: John Malkovich e Ayo Edebiri. Malkovich porta in scena un Moretti dominato dalla calma, perché, come racconta, il personaggio “è abbastanza sicuro della validità e del valore di ciò che sta facendo. È molto a suo agio, il che tradisce alcune tendenze piuttosto sociopatiche”. Indossa mantelli, paillettes, scarpe col plateau e sarong: i suoi costumi sembrano venire dal futuro e rappresentano davvero la sua vanità, la sua appariscenza e anche la sua incapacità di riconoscere che forse potrebbe essere un po’ troppo vecchio per quello che sta facendo. È la forza gravitazionale al centro del film. Edebiri, dall’altra parte, conferma di essere tra le giovani attrici più interessanti del momento. Da dopo il successo di The Bear, che l’ha consacrata al grande pubblico nel ruolo di Sydney, questa è forse la prima vera occasione per Edebiri di cimentarsi in qualcosa di diverso, ed è riuscita a gestirla al meglio. La sua Ariel fa funzionare qualsiasi cosa: è naturale, nel suo essere giovane; è scettica, nel suo intuire che qualcosa di inquietante si nasconde nel ranch in cui sono stati invitati; è ingenua, quando, mentre cerca di raccogliere più informazioni possibili, si lascia trasportare dalla curiosità e chiede a Moretti se sia vero che abbia acquistato e indossato i denti di Freddie Mercury, come si racconta in giro. 

La chiave per raccontare la storia di Alfred Moretti e la sua progressione nel tempo è, poi, naturalmente la musica. “Come si fa a invecchiare quando, per molti versi, non si crede nemmeno di essere umani? Non ti confronti con l’esperienza umana come facciamo tutti noi. Quindi sapevo che le canzoni di Moretti dovevano essere molto belle”, ha spiegato Green, che per realizzarle ha coinvolto Nile Rodgers – vincitore di un Grammy e produttore di artisti del calibro di Daft Punk, David Bowie e Madonna – e il suo storico collaboratore The-Dream. Nella versione italiana della pellicola, i testi sono stati poi adattati dal rapper Frankie hi-nrg mc. Entrambi hanno realizzato le musiche senza che nella sceneggiatura le canzoni fossero particolarmente descritte nello specifico, aggiungendo la loro visione al personaggio di Moretti.

Muovendosi tra richiami a Midsommar, di Ari Aster, e The Menu, di Mark Mylod, Opus – Venera la tua stella non offre risposte ma ci porta a interrogarci su quanto della nostra identità, dei nostri desideri e delle nostre insicurezze continuiamo a trasferire sull’idea di successo altrui, spesso costruendo comunità che tendono all’esclusione di chiunque non sia disposto a concedere al nostro idolo lo stesso identico valore che merita secondo noi. Trasformiamo il singolo – o forse, per meglio dire, la nostra solitudine – in un corpo unico e molteplice, che segue regole precise, che ragiona all’unisono. Per quanto non nego mi spaventi questo sciame, soprattutto digitale ma anche fisico, sempre compatto e pronto, riesco a capirne le ragioni, quasi ne invidio la capacità di fiducia unilaterale su cui si fonda. È una devozione totale, un abbandono costante. E, se anche queste domande non bastassero, in Opus “almeno avremo sempre John Malkovich che balla scuotendo i fianchi in una tuta spaziale metallica”, come scherza Green, e personalmente direi che sia già più che abbastanza.

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