Dov’è che si incontrano un filosofo polacco che definisce lucide analisi sociali e un italoamericano dai pettorali depilati che comunica usando l’emoji della melanzana? Mi piacerebbe scrivere “su un aereo”, per creare subito quell’atmosfera da barzelletta che predispone all’ascolto, ma la realtà è che i due si incontrano su Netflix. Sto parlando di Zygmunt Bauman, sociologo di spicco dello scorso millennio, e di Joey Sasso, concorrente di un reality show. Entrambi, in qualche modo, hanno provato a spiegarci chi siamo.
A Bauman si deve il concetto di “società liquida”, quello ancora attuale per cui ci muoviamo disorientati in una realtà priva di solidi riferimenti. A Sasso, e ai reality di Netflix in genere, si deve invece attribuire il merito di voler “proseguire” questo racconto dei nostri tempi attraverso il linguaggio più contemporaneo disponibile: il trash.
Cercateli bene. Oltre le decine di serie sui liceali indie ma disadattati, più giù, sotto i film che nessuno guarda e persino dopo i documentari, che provano a rappresentare la quota intellettuale della piattaforma, troverete anche loro: i reality. Ed è un peccato che siano così nascosti perché sono la cosa più vicina alla legalizzazione delle droghe leggere che il nostro Paese potrà mai permettersi: ti fanno fare trip introspettivi ma, soprattutto, creano dipendenza. Su Netflix i reality tornano all’anno zero del genere (quando la doccia al Grande Fratello poteva innalzarsi a esperimento sociale), guadagnando però anche una nuova freschezza. Al posto dei tailleur ingessati della Bignardi ci sono gli short strappati dei concorrenti, ma non fatevi ingannare dalle apparenze. Senza avere la presuntuosa pretesa di rincorrere un’alta missione, molti titoli del catalogo reality di Netflix riescono infatti a indagare l’essere umano moderno con lucidità e leggerezza, unendo dinamiche social e riflessioni sociologiche. Basta dare un’occhiata ai titoli usciti nel 2020.
Cominciamo con The Circle, un reality che si fonda sui concetti di isolamento e aggregazione, individualismo e comunità. Ogni concorrente vive da solo nel suo appartamento, senza mai uscire. Tutti nello stesso stabile, che non si trova a Codogno ma nel Regno Unito. I concorrenti possono comunicare tra loro solo per mezzo di un social network interno, chiamato appunto The Circle. Parlano a uno schermo, conoscono gli altri unicamente attraverso ciò che il loro profilo mostra e interagiscono esclusivamente via chat. Ogni concorrente può decidere di essere se stesso o di costruirsi un’identità alternativa fatta di foto, passioni e tratti caratteriali che non gli appartengono. Così, nel frullatore, ci finiscono sia una ragazza obesa che finge di essere una taglia 38, che una modella di Playboy che viene subito eliminata perché giudicata un fake. Un uomo orgogliosamente queer che si presenta senza filtri, con piume di struzzo e ombretti, ma anche un ragazzone sensibile che finge di essere la sua fidanzata perché “per le donne, sui social, è più facile”. Lo scopo è farsi amare da tutti, costruire la persona perfetta. Per ottenere i 100mila euro del premio c’è chi nega se stesso e costruisce relazioni manipolatorie e chi promuove i propri valori intrecciando amicizie sincere e persino qualche amore. Gli “influencer” conducono il gioco ed eliminano gli altri, ma la classifica si aggiorna ogni 24 ore perché in questa piccola comunità regolata dalle apparenze una risposta sbagliata o una foto audace possono fare la differenza. Un po’ Fattoria degli animali di Orwell e un po’ Geordie Shore, un po’ Black Mirror e un po’ Catfish.
In questo esperimento distopico e glitterato ci sono decine di contraddizioni che combaciano come i pezzi di un puzzle. A decidere il vincitore sono gli stessi concorrenti che, naturalmente, non possono autonominarsi. I concetti di tempo e spazio si perdono e le giornate sono scandite dalle notifiche inviate da The Circle. È così che gli autori diventano i burattinai, stimolando le interazioni attraverso giochi e domande che tirano continuamente la corda dell’autoanalisi e solleticano le dinamiche del compiacimento altrui. Certo, ci sono tutti i cliché della tv made in Usa (i concorrenti sono americani): i continui “Oh my God”, le facce sconvolte a ogni domanda, i flirt senza sosta, il cattolicesimo esasperato, il dramma del bullismo, il giocatore di basket professionista e la bad girl che mostra le tette nella doccia. Ma ci sono anche le domande importanti, mai imboccate al telespettatore. Quanto potere hanno gli altri sulle nostre scelte? Cosa sono disposto a sacrificare di me per compiacere le persone che mi circondano? L’immagine di me che propongo al mondo mi rappresenta davvero?
Una festa organizzata da The Circle, dove ogni concorrente si stordisce di alcol, ma da solo, con un cappellino dorato che nessuno può vedere e le luci stroboscopiche che illuminano un divano deserto, diventa lo spunto ideale per una riflessione sulla solitudine contemporanea. In The Circle un nerd indiano che non sa come scrivere un messaggio a una ragazza si ritrova influencer e assapora per la prima volta il potere sociale. Una ragazza fidanzata da decenni riesce a conquistare la fiducia dei concorrenti uomini solo passando prima per il flirt e per le implicite promesse sessuali. Una donna lesbica molto mascolina si finge femminile per evitare di essere emarginata. Un un tipo tutto tricipiti e frullati proteici scrive messaggi dettati dalla mamma (che nessuno sa essere in casa con lui) perché non è in grado di utilizzare i filtri di comunicazione giusti.
Sulla carta, 60 minuti di dialoghi composti da: “Messaggio – ‘Come è andata la notte’ – Emoji occhiolino – Invia” potrebbero risultare sfiancanti. The Circle, invece, ti tiene incollato allo schermo grazie a una costruzione quasi thriller che conclude ogni puntata con un nuovo colpo di scena. E non importa che il reality sia così tanto scritto. Se la scrittura è dichiarata fin dall’inizio e non si cela dietro la falsa promessa del “tutto vero e spontaneo”, così come avviene con i reality di casa nostra, siamo tutti disposti a barattare il reale con il verosimile, in virtù di un buon prodotto finale.
Succede la stessa cosa anche in Love is Blind (“L’amore è cieco”), altra novità 2020 scritta come fosse una commedia romantica con Jennifer Aniston. In questo caso, uomini e donne si incontrano a coppie, e in rotazione casuale, dentro delle capsule in cui è impossibile vedere l’altro. Si parla, ci si racconta, ci si ascolta, ci si conosce e – dopo due settimane – si sceglie qualcuno da sposare alla cieca. Poi il programma passa a una seconda fase in cui i due si vedono in faccia, partono per un viaggio romantico e imparano a conoscersi provando a far coincidere una voce a un viso, l’idea di una persona con una persona reale. Qualcuno potrà pensare a Matrimonio a prima vista – che, in Italia, è probabilmente il punto più alto dell’esperimento sociale televisivo – ma Love is Blind è molto di più. È una disanima, non troppo raffinata, su ciò che siamo e ciò che vogliamo, sulla violenza delle pressioni sociali e sul bisogno di completarsi con qualcun altro, persino attraverso l’inganno verso noi stessi. Come in The Circle, anche in questo caso si punta tutto sul vendersi ad un compratore cieco e, anche in questo caso, non mancano gli stereotipi trash. Tutti i concorrenti sono dei bambolotti modaioli che nella vita fanno i content creator, i social media manager o i Pr. Ma c’è anche una prosperosa ex militare che aggiustava carri armati nell’esercito e uno scienziato, con un passato da pompiere, dall’animo sensibile e dal sorriso strappa mutande. Alcune delle frasi cult di Love is Blind sono: “Jessica, Amber ed LC sarebbero tre ottime mogli”, “Stanotte ti osservavo, ho scoperto che non russi e non sudi, quindi possiamo passare alle coccole”, “Mi ha detto che è bisessuale, ho dovuto pregare”. Sono agghiaccianti, sì. Ma anche molto appassionanti. Tutti gli intrighi surreali di una telenovela sudamericana con un sottotesto che consente una profonda lettura sociale.
E questi sono solo due dei titoli, i più nuovi, presenti sul catalogo. Ma basta curiosare un po’ per scoprire che su Netflix i reality hanno davvero una missione: raccontare tutto lo scibile umano, e non sempre consapevolmente. C’è un reality per ogni categoria: tatuatori, transgender, immigrati, specialisti in ricostruzione unghie. Basta con le nomination che escludono, meglio i racconti inclusivi. Finiamola con il televoto, così antico, tanto vale farci votare via fax. Basta con le Isole, con i Grandi Fratelli, con i ragazzini che ballano e cantano. La tv italiana vive l’ennesima crisi del reality, così come lo conosciamo da vent’anni. I soliti titoli floppano, le dinamiche di racconto sono stanche e logore, la critica è annoiata quasi quanto il pubblico. Per rifondare un nuovo concetto di trash all’italiana, dove ci sia spazio sia per le corna e per la riflessione, forse dovremmo partire proprio dagli spunti che ci offre Netflix.
Uno dei pochi vantaggi di vivere nel “mondo liquido” di Bauman è che possiamo fare a meno degli stampi, rassicuranti ma limitanti, possiamo mescolarci e assumere una forma sempre diversa, che sia quella dei rettangoli di un six pack sugli addominali o quella di una linea, netta ma sottile, che separa ciò che siamo da come ci mostriamo: possono coesistere entrambi, nei sessanta irresistibili minuti di una puntata.