
Ogni volta che penso a mio padre c’è un’immagine precisa che mi viene in mente ora che, guardandomi da fuori, mi sembra di somigliargli sempre più. È lui, seduto una sera al tavolo della cucina, mentre prende una pesca, la sbuccia piano, la taglia a pezzi e poi la riconsegna a mia madre. Sarà per i gesti o per il fatto che, guardandomi le mani, anche se sono la metà delle sue io ce le rivedo tutte. Il confronto con la figura paterna è un classico non solo dell’esperienza artistica ma di quella umana in generale, ed è ancora più difficile quando di quel padre non restano tanto i propri ricordi personali, quanto la sua assenza e l’immagine pubblica che un intero Paese, come la Libia, ne ha custodito e tramandato, come è accaduto alla regista libica Jihan K, che a partire da questa mancanza ha realizzato il documentario My Father and Qaddafi, che sarà presentato in anteprima domenica 12 ottobre alle 20.30 dal Cinema Godard, parte della sede di Milano di Fondazione Prada. In sala sarà presente anche la regista, per una conversione con Alessandra Speciale, della direzione artistica del FESCAAAL.
Presentato fuori concorso all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, My Father and Qaddafi è un tentativo di dare forma a un ricordo evanescente, di ripercorrere la storia di un Paese, la Libia, attraverso l’improvvisa assenza di uno dei politici che più l’ha segnata e, soprattutto, di ritrovare una propria identità. Jihan K ricostruisce infatti la figura del padre Mansur Rashid Kikhia, giurista per i diritti umani, ministro degli esteri libico e ambasciatore all’ONU, scomparso dal suo hotel al Cairo nel 1993 dopo che, passato all’opposizione, era stato per anni al servizio del regime autoritario di Gheddafi. Attraverso incontri con la famiglia, i colleghi del padre e gli archivi storici, la ricerca della verità si trasforma in una curiosità più profonda, che avvicina la regista sia ai genitori che alla sua identità libica.
Di suo padre, Jihan non ricorda la voce o il modo in cui si prendeva cura di lei, né la sua presenza. Aveva solo sei anni quando è sparito. Lei era una bambina, lui è una figura di cui conosce appena i contorni, che non sa con quali parole chiamare. Così, lo cerca nella voce della madre, Baha Al Omary, che per per diciannove anni ha inseguito la verità, in una ricerca ostinata che ha segnato la sua vita e quella della famiglia. “Ci sono tanti modi di morire, ma una volta che sei morto resta solo quello, la morte. È così che mi ha salutato prima di partire”, le racconta la donna, ricordando l’ultimo giorno in cui ha visto il marito prima che scomparisse. Tracce del padre, Jihan le trova poi anche nella sua figura pubblica, nel suo impatto politico in Libia.
Mansour Rashid al-Kikhia non è stato infatti una persona ordinaria. Dopo il colpo di Stato del 1969, quando Muʿammar Gheddafi prese il potere in Libia, al-Kikhia entrò nei palazzi del nuovo regime e ne divenne uno dei volti più noti sulla scena internazionale. Fu ambasciatore della Libia alle Nazioni Unite e poi ministro degli Esteri, un uomo rispettato, ascoltato, simbolo di una nuova generazione di diplomatici arabi. Ma la sua coscienza non gli concesse di restare a lungo. Mentre attorno a lui il potere di Gheddafi si faceva sempre più feroce, e la libertà dei cittadini libici si dissolveva nell’ombra dei servizi segreti, al-Kikhia scelse la strada più difficile: si dimise unendosi all’opposizione in esilio e diventando una delle voci più autorevoli del dissenso libico. Da lì, fondò l’Arab Organization for Human Rights, dedicando la sua vita a denunciare i crimini e le torture di un governo che aveva trasformato la sua patria in una prigione. Poi, nel dicembre 1993, mentre partecipava a una conferenza dell’organizzazione al Cairo, al-Kikhia scomparve improvvisamente. Le indagini e le testimonianze successive indicarono che fu rapito da agenti dei servizi segreti libici, con la complicità delle autorità egiziane, e trasferito clandestinamente a Tripoli. Per quasi vent’anni non si seppe più nulla della sua sorte, il suo nome restò il simbolo di una verità negata. Solo nel 2012, dopo la caduta di Gheddafi, il destino di al-Kikhia tornò alla luce: i suoi resti furono ritrovati in una villa dei servizi segreti libici, là dove il silenzio del potere aveva tentato di seppellirne anche la memoria.
“Non voglio che mio padre scompaia una seconda volta. Sento l’urgenza di colmare il mio vuoto nel mezzo del caos e dell’instabilità incessanti della Libia, che temo finiranno per seppellire il mio legame con il Paese. Realizzare questo documentario mi aiuta a comprendere l’importanza di una figura paterna e l’impatto della perdita di un padre su una famiglia, una comunità e persino un Paese”, racconta la regista. “La tirannia e il culto della personalità di Gheddafi hanno oscurato la memoria collettiva della vita prima del suo governo, lasciando ancora molti, come me, a ricostruire i frammenti della nostra identità libica. Condividere l’inedita storia di mio padre significa anche condividere una storia inedita della Libia, che abbraccia quasi un secolo di storia e politica”.
È proprio la Libia con tutte le sue contraddizioni e nella sua complessità che emerge in My Father and Qaddafi, mentre si mettono insieme i pezzi della storia di Mansour Rashid al-Kikhia. Jihan K, infatti, interseca alla ricerca della verità sul padre anche il tentativo di delineare una traiettoria, una rotta, delle vicende politiche che hanno segnato il Paese dall’inizio del Novecento, creando una narrazione che vada oltre il resoconto diffuso dalle potenze imperialiste esterne e dall’autoritarismo interno. Il racconto che ne nasce è in parte la storia di come l’idea di potere si sia riprodotta nelle sue forme più violente, anche quando ha cambiato volto o linguaggio. La Libia ha infatti attraversato l’occupazione inglese e francese, l’indipendenza, un’eredità complessa segnata da lotte per la liberazione e da periodi di instabilità, ma anche eventi storici che ci riguardano direttamente. Prima nel 1911, quando le truppe italiane iniziano l’occupazione partendo da Tripoli, e poi con il genocidio compiuto dal regime fascista tra il 1928 e il 1932, che rappresentò l’essenza stessa del progetto coloniale: distruggere per dominare, spopolare per ricostruire secondo la propria immagine. Appena chiedo in giro di quel periodo, dice Jihan K a un certo punto, nessuno usa la parola “genocidio”, è come se volessero evitare l’argomento. Quando anni dopo Gheddafi prende il potere, rovesciando la monarchia, il suo progetto politico si nutre proprio di quella storia di umiliazione e violenza: il linguaggio dell’antimperialismo e della giustizia sociale è una risposta diretta alla memoria coloniale, ma anche la sua deformazione. Il potere di Gheddafi, nel suo autoritarismo, conserva l’impronta del colonialismo che voleva superare: un controllo totale sulla società, la repressione del dissenso, la costruzione di una narrazione univoca della storia nazionale.
“Mentre rifletto con i suoi colleghi sulla loro Libia perduta, vorrei poter chiedere a mio padre: come abbiamo fatto a finire così? E come farà la Libia a spezzare questo circolo vizioso di difficoltà? Mia madre ci ha detto la verità quando avevo sei anni, e anche se questo ha attenuato lo shock, continuo a lottare con un costante senso di surrealtà”, confessa Jihan K. “Nonostante i miei ricordi frammentati, le mie paure e i miei limiti culturali all’interno della società libica, sto cercando di superare questa sensazione surreale e di riconnettermi con mio padre e con la Libia alle mie condizioni. È uno dei modi in cui spero di aggrapparmi a mio padre prima che scompaia completamente dalla mia memoria e potenzialmente persino dalla memoria della Libia”.
È un mosaico di memorie ricostruire un’assenza partendo da materiali parziali, e in My Father and Qaddafi questo tentativo trasforma il dolore personale nel punto d’ingresso per una riflessione più ampia sulla memoria collettiva e sulla capacità di un popolo di fare i conti con il proprio passato. Evitando qualsiasi retorica e lasciando che siano le immagini e le voci a restituire la densità di un’epoca e la complessità delle emozioni che la attraversano, Jihan K costruisce un racconto di resistenza interiore, in cui la ricerca della verità è insieme un atto di amore e di giustizia. Senza cercare risposte definitive, perché è impossibile averne, a emergere è il modo in cui la mancanza di una sola persona possa riflettere quella di un’intera nazione, prigioniera per decenni del silenzio e dell’oblio. Costruire la verità è difficile, anche perché non ne esiste mai solo una, ma è proprio l’imperfezione dell’atto stesso a renderlo autentico, a farne un atto di memoria, una riflessione sul potere e sulla perdita. A farne, soprattutto, un tramite per riconciliarsi con la propria storia.
