Il cinema è vedere oltre, dar forma a un sogno in cui lasciarsi sprofondare - THE VISION
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Dopo aver toccato vari luoghi nel mondo, da Manchester a São Paulo, da Chicago a Buenos Aires, dal 13 al 15 dicembre il MUBI Fest è arrivato a Milano, all’ADI Design Museum, ibridando il cinema con le altre arti, o meglio lasciando esplodere i vari linguaggi che compongono e a ben vedere fanno il cinema, dalla musica alla fotografia. Tutto ruotava intorno alla riscoperta di un ritmo altro, diverso da quello che ci impone la vita, il lavoro, i social, come se fosse ancora possibile, in certi luoghi urbani e grazie a certe energie, pulsare diversamente, seguire altre coordinate, immaginare nuove geografie. Come se il cinema potesse davvero insegnarci a coltivare di nuovo l’attenzione, senza bisogno di fare grandi cose, nel qui ed ora, proprio dove e come siamo, che il momento perfetto non esiste, cioè è adesso, in tutta la sua perfettibilità.

Proprio come sulla piattaforma anche nel programma del festival sono stati proposti diversi film, corti e lungometraggi, nuovi o d’archivio, dagli esordienti ai nomi riconosciuti a livello internazionale, tra cui l’anteprima dell’attesissimo Queer di Luca Guadagnino, che ha raccontato come anelasse di realizzare questo film da molto tempo. Qualcosa di ben oltre un catalogo, ma un vero e proprio archivio sentimentale, di immagini, suoni, figure, titoli. Inoltre è stato anticipato un progetto che dal 2025 vedrà una serie di attori e registi selezionare film che li hanno particolarmente colpiti e formati: ha iniziato Luca Marinelli, tra i protagonisti del festival, con nientemeno che Her. Così MUBI si impegna a creare una vera e propria comunità di amanti del cinema, al pari dei grandi festival internazionali, in cui anno dopo anno ci si ritrova e si costruisce insieme un immaginario, condividendo storie, demoni, sogni, in cui si partecipa a un grande rito collettivo. 

Non a caso Alice Rohrwacher, dialogando insieme al regista georgiano Alexandre Koberidze prima della proiezione di What Do We See When We Look At The Sky?, che parla di “un amore che non riesce a stare al mondo”, ha detto che fare cinema vuol dire “vedere”. Forse vedere oltre, o forse dar forma a una visuale, tradurre uno sguardo in un linguaggio condiviso, dar forma a un sogno, una sorta di dimensione onirica in cui lasciarsi sprofondare, immergersi per il tempo necessario, diventando più ricettivi, disponibili all’ascolto, attenti, appunto. “Fin da piccola ho sempre sentito, guardando la realtà, di essere di fronte a un segreto, a qualcosa che stava accadendo, che era lì ma che nascondeva un amore celato”, ha detto Rohrwacher, ed è tangibile in ogni suo film questo mistero che penso tutti gli amanti di cinema cercano di svelare, o quantomeno di afferrare per un istante, di riconoscere, nel modo in cui la luce cade su un volto, o in cui le quinte urbane danno forma a un sentimento tridimensionale, che è dentro di noi, ma pure là, appoggiato ai lati di una strada.

Altro ambito lambito dal festival è stata proprio l’architettura, o meglio, lo spazio urbano, la dimensione privilegiata della nostra vita. D’altronde il cinema condivide un ampio spettro di tecniche e maestranze e metodi con il progetto, tanto che si potrebbe dire che davvero il cinema è una forma di architettura, con molti più punti in comune a monte e a valle di quanto si potrebbe pensare. Anche in questo caso Rohrwacher ha presentato insieme all’artista francese JR il corto Allegoria cittadina, che riflette sul concetto di scenografia e teatro, di quinta se vogliamo, andando a esplorare il tema della caverna caro all’artista, e presentato un anno fa con l’opera Chiroptera (i chirotteri sono i pipistrelli, gli unici mammiferi capaci di volare e che vivono nelle grotte), che trasfigurava i ponteggi necessari al restauro dell’Opéra di Parigi in un’enorme caverna appunto, che fu poi attivata attraverso una performance di danza. Anche la simbologia della caverna si sviluppa al pari del cinema e della visione, sul tensore inestinguibile tra luce e oscurità, a metà tra l’invito di uscire dalla caverna per incontrare la luce e il desiderio di ritirarsi nel suo alveo simbolico e originario, accompagnati anche solo da un piccolo lume, che nelle tenebre assume poteri straordinari, al pari delle ombre, capaci di paralizzare, terrorizzarci, quando spesso non sono altro che proiezioni appunto.

In questo spazio protetto e nutritivo si è parlato di ciò che siamo oggi, di ansie, ambizioni, frustrazioni, ma anche comunicazione, talento, vocazione e accettazione, insomma di quel fitto reticolo di forze ed emozioni che ci muovono, e che muovono l’arte stessa, che è tutt’altro che astratta, ma ben calata nel mondo, e nel business, in particolare per quanto riguarda il cinema. Questo è emerso particolarmente con Sam Crane in sala per la proiezione di Grand Theft Hamlet che mette in scena un gioco di ruolo interminabile, come se i videogame fossero il miglior adattamento contemporaneo di Amleto e delle sue domande senza possibile risposta, cos’è reale e cosa no? Ci si chiede se sia necessario attenersi alle regole e fare con ciò che si ha, o se invece il sistema vada sovvertito, fatto collassare o esplodere dall’interno, se sia necessario un aggiornamento o un hackeraggio.

Qualcuno sembra volerci far credere che ciò che amiamo non esiste, che ci siamo sbagliati, che dobbiamo svegliarci. Non solo, che quell’amore non esiste, che abbiamo visto male. Ma chi ama il cinema sa vedere molto bene, forse è l’unica cosa che gli resta in mezzo a tutta questa fretta e confusione e bulimia dell’ego, e delle conquiste, e delle conferme, e delle ambizioni. E sa che quell’amore, quel saper scorgere un segreto che sta accadendo, è l’unica cosa che ci fa respirare, che può farci davvero vivere, perché la vita, quella piena, quella vera, si nutre al pari dell’arte del coraggio necessario a vedere un amore, del rischio che significa. Sta proprio lì, sull’orlo della totale disfatta, nel lasciarsi attraversare dalle cose, anche da quelle che potrebbero ferirci, distruggerci, forse soprattutto da quelle, perché ci aiutano a mettere a fuoco le cose, a sentirle, e magari a vederle da una prospettiva diversa, a scendere dalla nostra nave per vedere com’è il mare da fuori, dalla terra ferma, o viceversa, prendere il largo, nonostante tutto. Magari non avevate pensato che entrare in una sala sottende questo patto silenzioso, è il patto dei registi, e degli scrittori, e degli attori pure, è lo stesso patto di chi compone musica, di chi crede a quello che per quasi tutti gli altri sembra essere invisibile, e gli da spazio e forma, affinché tutti possano vederlo.

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