
La devozione, pur essendo profondamente radicata nella religione e nel desiderio umano di connessione con il super-infinito per dirla insieme al poeta inglese John Donne, è una forma di rispetto che non necessariamente volge lo sguardo al cielo. A volte, basta semplicemente guardare in alto per ritrovare la prospettiva e sentire quel brivido familiare, quello che tutti conosciamo bene ma dimentichiamo costantemente, che ci fa sentire parte di un tutto immenso, che ci fa intuire quanto i confini che ci separano dal resto del mondo siano assolutamente reali e irreali al tempo stesso. Per questo la devozione è una miccia importantissima per sostenere il percorso individuale, ampliandolo in maniera potente e intima e facendolo riverberare nella comunità.
La devozione è un sentimento affettuoso di profondo rispetto, deferenza e lealtà – forse persino una forma di sottomissione, se vogliamo, ma interamente scelta e voluta. Ci innalza, ma compiendo un profondo inchino esistenziale, e non è un caso che a questo riguardo si parli spesso di abbandono. La devozione si riserva a ciò che per noi ha valore, a ciò e a chi conta davvero. È onorare un voto, una promessa essenziale fatta con Dio. E Dio, lo sappiamo, assume molte forme, mentre le promesse oggi sono sempre più rare. Ma ogni tanto, almeno con noi stessi, possiamo provare a farne una – per vedere cosa succede, per esercitarci. La devozione ci aiuta a sollevarci dall’essere noi stessi, da tutte le piccole miserie che comporta, dal senso di separatezza e di solitudine, e dal modo in cui il mondo infierisce su quel senso di singolare identità. È di questo sentimento che parla Mother Vera della documentarista Cécile Embleton e della fotografa d’arte contemporanea Alys Tomlinson, che verrà proiettato domenica 9 marzo alle ore 20:30 al Cinema Godard di Fondazione Prada, a Milano, all’interno della rassegna Supernova, e a cui seguirà un incontro con Embleton.
“Abbiamo incontrato Madre Vera per la prima volta nel 2017 in Polonia, mentre lavoravamo al progetto fotografico Ex-Voto di Alys, un lavoro quinquennale dedicato ai luoghi di pellegrinaggio cristiani. E siamo rimaste subito colpite dalla presenza magnetica di Vera, che ci ha invitate a visitare il suo monastero in Bielorussia”, raccontano le registe. Ossessionata da un passato tumultuoso, Madre Vera ha infatti trascorso vent’anni in un monastero ortodosso. Così, si ritrova a riflettere sul suo inaspettato cammino verso la vita monastica, segnato da una storia di dipendenza dall’eroina e guidato dal suo amore viscerale per i cavalli. Mentre affronta il senso di colpa che ancora la perseguita, Madre Vera, il cui nome di battesimo è Olga, si trova a un bivio tra il porto sicuro del convento e un futuro incerto. Con uno sguardo intenso e meditativo, il suo silenzioso viaggio interiore offre uno sguardo intimo sulla complessità della fede, della guarigione e della trasformazione personale all’interno di mura claustrali, e non solo.
Attraverso un linguaggio visivo ipnotico, il film ci porta negli spazi chiusi e ombrosi di un convento alle porte di Minsk. “Lavorare all’interno di comunità religiose ci ha permesso di esplorare il tema intangibile della fede, un argomento che ci affascina reciprocamente, e di sviluppare un’estetica visiva distintiva che si esprime pienamente in questo film”, hanno dichiarato le registe. Ma oltre alle immagini, anche i suoni rarefatti e i silenzi ci lasciano sprofondare lentamente nel ritmo della vita monastica: le campane che risuonano, le suore che preparano la comunità alla Pasqua, i sacerdoti che si immergono nelle acque gelide per celebrare l’Epifania. Tra paesaggi affascinanti resi minimali dalla neve e interni mistici, attraverso una narrazione profondamente intima e sussurrata, Madre Vera svela il passato tragico che l’ha condotta al convento e la sua speranza di trovare prima o poi una vera libertà, la salvezza.
Così, anche i duecento uomini che vivono nel monastero per riabilitarsi diventano per lei uno specchio in cui riflettersi. Una conversazione sommessa con sua madre la spinge a ricordare la sua dipendenza dall’eroina e il dolore che ne è scaturito. Con un’intimità sorprendente, la seguiamo nei boschi e nei campi, circondata dai cavalli di cui si prende cura. Attraverso di loro, percepiamo l’oscillazione della sua spiritualità e fisicità. Su un autobus pubblico a Minsk, senza abito monastico né velo, Vera appare vulnerabile, silenziosa e anonima. Torna al suo nome di nascita: Olga. Nelle umide terre della Camargue, in Francia, lavora instancabilmente con i cavalli in una fattoria. Di fronte a questa nuova realtà, riaffiorano domande profonde sulla libertà che ha cercato per anni.
La storia di Vera tocca aspetti universali della condizione umana. In un’epoca di sconvolgimenti sociali, caratterizzata dall’ascesa dell’individualismo e dal declino delle ideologie politiche e delle fedi che un tempo ancoravano la società, il suo viaggio emotivo, psicologico e spirituale ci invita a riflettere sui nostri stessi bisogni, desideri e sul senso ultimo della nostra esistenza. L’esperienza di Vera ci spinge a riconoscere l’antichissimo potere curativo della comunità, a chiederci come abbiamo fatto a perderlo in maniera apparentemente tanto stolta e irrimediabile. Attraverso il suo sguardo, possiamo infatti riflettere su come le comunità ci plasmino, ci rafforzino o, invece, ci limitino, ci indeboliscano.
Oggi più che mai sembra evidente la necessità e la capacità di trovare rifugio in qualcosa di più grande di noi, qualcosa capace di sostenerci, perché stiamo vivendo un periodo di permacrisi, in cui giorno dopo giorno sembrano emergere nuove criticità e siamo chiamati a confrontarci con le loro conseguenze, affrontando sfide sempre più grandi, e trovando una serie infinita di ostacoli sul nostro cammino. E tutto questo sembra schiacciarci sempre di più, non sappiamo da dove attingere la forza necessaria a far fronte a tutto ciò, ai nostri bisogni individuali, così come a quelli collettivi, globali. Ci sentiamo soli, e impotenti, e inutili, e sperduti. Ma non è così. Gli eroi sono scappati, e gli dei sono morti, certo, ma esistono ancora i maestri, i modelli, gli insegnamenti, e le comunità che si raccolgono intorno agli stessi valori.
Così possiamo superare i nostri dubbi, e la nostra sofferenza, e trovare pace, e sentire che tutto ciò che facciamo in questo mondo può essere bello e soddisfacente, nonostante tutto, soprattutto se lo facciamo con e per gli altri. C’è un famoso mantra buddhista che parla proprio di questo meccanismo (che non è diverso da quello cristiano), che dice trovo rifugio nel maestro, Buddham saranam gacchami, e trovo rifugio negli insegnamenti che incarna e tramanda e diffonde, dhammam saranam gacchami, e infine trovo rifugio nella comunità, che mette in pratica questi insegnamenti, sangam saranam gacchami. A pensarci è qualcosa di semplicissimo, e perfettamente ragionevole, non si capisce perché abbiamo perso di vista una pratica pedagogica tanto efficace, potente e benefica. Che poi è alla base della nostra natura umana, lo stare con gli altri. Quando stiamo insieme infatti, circondati da persone che seguono il nostro stesso percorso e condividono i nostri stessi valori e intenzioni, è molto più facile fare tutto, sentirsi meglio, dare concretezza e solidità alle nostre azioni.
Mentre affronta la perdita e il dolore cercando di riconciliarsi con il suo passato, Vera trova salvezza quando viene accolta nella vita monastica e sostenuta dalla comunità con compassione e presenza. Tuttavia, col tempo, mentre ritrova il proprio equilibrio, le rigide strutture della vita ortodossa iniziano a sembrarle oppressive. E alla fine trova il coraggio di tracciare un nuovo cammino. La pulsione che suscita questo film è quella di mettersi o rimettersi in viaggio, di continuare a porsi domande, autentiche, urgenti, assolute, e andare in cerca di risposte, e di non aspettare domani ma di farlo da ora, da oggi, trovando il coraggio di guardare dentro a noi stessi, qualunque sia la nostra statura, per ritrovare un metodo per unire e nutrire lo spirito umano, connettendoci a qualcosa di più grande di noi, e forse riuscendo così a sentirci liberi, anche dalle catene che ci impone l’essere noi stessi.
