
La nostra vita è un film che guardiamo attraverso i nostri occhi, e spesso risulta così avvincente che ci immedesimiamo profondamente, sprofondando nella nostra stessa visione, sempre di più, addormentati, a volte fino a farcene trascinare sul fondo, incapaci di distinguere più quelle che sono le reali coordinate e direzioni dello spazio che ci circonda, schiacciati da un peso immane, che lì per lì non c’eravamo nemmeno accorti di aver iniziato a dover sopportare, completamente persi, eppure al tempo stesso in gabbia. Questa dinamica è considerata, a vari termini, ma da millenni, prima dai filosofi e poi anche dagli psicologi e medici, la prima e vera malattia dell’umano, ovvero l’incapacità rimanere “sveglio”, ovvero di riconoscersi come entità amorfa, o polimorfa, elemento dell’infinito possibile. Gli esseri umani, mano a mano che crescono invece si identificano sempre di più in quella che diventa la loro forma, sia fisica che mentale, il loro corpo, le sue caratteristiche, la loro mente, e i suoi pattern, e nel farlo si confondono ulteriormente, credendoli innati, e non frutto di complesse interazioni ambientali.
Da questa “malattia”, unita a quella che viene considerata a tutti gli effetti una comorbilità dell’identificazione, ovvero il linguaggio, deriva la stragrande maggioranza della sofferenza che proviamo, dal convincersi di essere qualcosa insomma. È vero però che se il linguaggio contribuisce a rafforzare questo sintomo, può anche rivelarsi in determinati casi uno strumento fondamentale per auscultarli, esaminarli e rimuoverli. Quando poi il linguaggio verbale si mescola a quello delle immagini si ottiene un mezzo ancora più potente, che se usato come farmaco può essere in grado di rivelarci la realtà, attraverso un escamotage, una finzione, ed è il cinema. Mond, lungometraggio della regista kurdo-austriaca Kurdwin Ayub, prodotto dalla casa di produzione di Ulrich Seidl, che ha vinto il Premio speciale della giuria al 77esimo Festival di Locarno e che verrà proiettato a Milano al Cinema Godard di Fondazione Prada sabato 14 giugno alle 20:45, a cui seguirà una conversazione tra la regista e Daniela Persico, rientra a pieno titolo in questa categoria.
La protagonista Sarah, interpretata dalla famosa coreografa e artista performativa austriaca Florentina Holzinger alla sua prima prova cinematografica, è un’ex atleta di arti marziali miste che ha appena abbandonato la scena subendo una sconfitta clamorosa. In balia del vuoto lasciato dal ritiro, Sarah lascia l’Austria per la Giordania, dove viene ingaggiata per allenare tre sorelle di una ricca famiglia di Amman. Il suo lavoro però si trasforma rapidamente in qualcosa di ben diverso da quello che con tutta se stessa, anche un po’ per confortarsi, si era raccontata: le tre adolescenti infatti non mostrano alcun interesse per lo sport, e men che meno per le arti marziali, e la loro enorme villa è completamente isolata dal mondo esterno. Non c’è nemmeno una connessione Internet. La permanenza di Sarah assume così tratti sempre più inquietanti, insieme a contratti di riservatezza che è obbligata a firmare. Tutto nel film oscilla velocemente tra gli estremi della percezione che si possono avere del mondo, un dettaglio può essere inquietante o ragionevole, una situazione può essere normale o anormale, dipende sempre dal punto di vista da cui la si guarda, e ancora di più, a volte, dallo stato d’animo con cui lo si fa. Mond – come tutti i film capaci di lasciare un segno – lascia il pubblico con più domande che risposte, perché come sottolinea la regista: “La realtà è complicata e raramente esistono soluzioni semplici”.
La regista, fin dal suo esordio al lungometraggio nel 2022, lavora su una sorta di adattamento delle storie raccontate da Sherazade ne Le mille e una notte, sulla forma che assumerebbero se fossero calate nei giorni nostri. Prima con Sonne (Sole), film che parlava di appropriazione culturale, e ora con Mond (Luna). Se Sonne parlava di una famiglia immigrata in europa e di giovani donne che decidono di lasciare l’occidente per tornare in Iraq, con Mond la regista vuole parlare di una donna privilegiata, bianca, europea, atleta professionista, che pure va in Medio Oriente, pensando di accettare il lavoro dei suoi sogni, per poi scoprire che i suoi problemi non sono altro che bolle di sapone se paragonati a quelli delle donne che vivono lì. Attraverso un intreccio stratificato e un approccio fortemente realista ma che si tinge di generi come l’horror, il thriller e il film d’azione, Ayub mette in scena una storia di solidarietà femminile anti-retorica, in cui la necessità di una comunione d’intenti tra donne trascende le diverse provenienze culturali. “Qui si parla di sorelle, indipendentemente dalla loro provenienza, e di gabbie, indipendentemente da dove si trovino. Gabbie da cui si vuole fuggire e altre nelle quali si vorrebbe tornare”, ha dichiarato Ayub, sottolineando le tante possibili forme di oppressione che le donne sono costrette a sopportare a tutte le latitudini del mondo.
Mond è un film che ribalta gli stereotipi: Sarah è una donna che eccelle in una disciplina considerata ben poco femminile, l’MMA. E poi, pur essendo bianca, si trasferisce a lavorare in un altro Paese, in casa di una famiglia ricca. Quello che di solito fanno le persone appartenenti a Paesi del mondo meno privilegiati. E già questo semplice dettaglio narrativo ci costringe a rivedere la nostra prospettiva mentale, in maniera molto sottile. Infine si rifiuta di aderire al ruolo del cosiddetto “white savior”, il salvatore bianco, un tropo cinematografico in cui il protagonista rigorosamente caucasico salva i personaggi non bianchi. Questo è un elemento ricorrente del cinema statunitense, analizzato in particolare dal sociologo americano Matthew Hughey ne Il candore della notte degli Oscar (2015). Il salvatore bianco, che solitamente è un uomo, è una figura messianica, disposta a sacrificarsi per il bene dei più svantaggiati.
Purtroppo, però, i lati oscuri di questa figura – tra le principali portatrici del soft power americano nel mondo – sono tanti. In primis infatti la tendenza a far credere che la moralità sia una sorta di caratteristica innata, tipica dei bianchi. Inoltre questa figura apparentemente positiva solleva però i personaggi razzializzati dal loro potere agente. Se si aggiunge che il salvatore bianco, proprio come Sarah, è una figura che si sente fuori posto nella sua stessa società, finché non risponde alla chiamata e si assume l’onere della leadership razziale per fare del bene a persone di una diversa etnia, per alcuni studiosi si sconfina in fretta nella fantasia grandiosa, esibizionista e narcisistica di compensazione psicologica. Eppure nella realtà, come nei grandi film, non è mai tutto bianco o tutto nero, e anche le etichette e le defizioni sono nostri tentativi linguistici per tentare di orientarci nel reale.
Sarah, come lo spettatore e potenzialmente chiunque di noi in una situazione simile, si trova stritolata da interrogativi senza una risposta certa: sta davvero aiutando un’altra donna, mettendo forse a rischio se stessa? Di chi può fidarsi, a chi può credere? La aiuterà, anche se non sa cosa sia vero e chi abbia ragione? Il desiderio di libertà che una delle sorelle, Nour, prova è in netto contrasto con il vuoto e la solitudine che Sarah sente nel suo Paese. Nour – interpretata da Andria Tayeh, modella, influencer e attrice in una serie Netflix molto conosciuta nel mondo arabo – vuole fuggire dalla sua gabbia, mentre Sarah, ora, e in segreto, vorrebbe ritornare nella sua. “Con Mond voglio analizzare il complesso del salvatore bianco,” ha detto Ayub, “e per farlo ho scelto una messa in scena naturalistica. Cosa succede se la storia del salvatore bianco non viene raccontata in modo romantico, come accade nella maggior parte dei film di finzione, ma in modo realistico? Storie come quella della famiglia che Sarah incontra e di ciò che accade alle loro figlie le conosciamo di solito dai telegiornali. Mi interessava vedere come avrebbe affrontato una situazione del genere Sarah […] in modo realistico e senza giudicare”.
A mostrare questo iato è l’abitudine delle ragazze che si intrattengono guardando le soap opera, e il loro drammi, mentre la loro situazione di oppressione è drammaticamente tangibile. “Il romanticismo di queste storie e i loro finali felici le rendono ottimiste,” dice la regista, “ma anche ingenue. Sappiamo che succede lo stesso anche a noi. […] Ma la realtà non è romantica. Purtroppo”. Ayub in questo modo gioca con i nostri pregiudizi e le nostre aspettative, costringendoci ad aprire gli occhi, a vedere sì le differenze, ma anche le similitudini di qualsiasi sistema di oppressione patriarcale, invitandoci a ritrovare la giusta misura e a mettere a fuoco quelle che sono le lotte e i sentimenti comuni, e sottolineando che un cambiamento effettivo non può venire solo dal singolo individuo. “Il punto di partenza [per fare questo film] è stato un documentario che avevo visto sulle donne dei Paesi del Golfo che fuggivano dalle loro famiglie patriarcali. Per me era facile identificarmi con loro. I miei genitori e io siamo fuggiti in Austria dalla parte curda dell’Iraq nel 1991. Anche la mia famiglia, culturalmente, era molto patriarcale. Quindi conosco bene la sensazione di volersene andare. E già allora mi ero resa conto che anche nel mondo occidentale esisteva un altro sistema che pure cercava di dirmi come dovevo vivere in quanto donna”.
Come ha detto Florentina Holzinger: “Non importa quanto successo ti venga attribuito, come artista ti trovi sempre in una situazione di precarietà. Da questo punto di vista, il fallimento rispetto alle tue aspettative o all’opera stessa è sempre in agguato. Quello che mi piaceva meno dell’essere una sportiva era proprio il fatto che fosse tutto così chiaro: si capisce subito quando vinci e quando perdi, quando fallisci e quando no. Anch’io [come Sarah] non ho mai idea di cosa riservi il futuro, né di cosa valga davvero la pena fare”. Ed è proprio questa la grande verità che il film pone davanti ai nostri occhi, e che tuttavia ci invita a trovare il modo di affrontare, sviluppando strumenti esistenziali sempre più raffinati e visionari.
