
C’è un’attrazione irresistibile che da sempre emana dagli antieroi: figure imperfette, spesso moralmente ambigue, che infrangono le regole ma riescono comunque a conquistare la nostra empatia. Diversi dai classici eroi con cui siamo cresciuti, nelle narrazioni in cui bene e male erano nettamente separati da una visione dicotomica del mondo e dal tentativo, forse, di allontanare da noi stessi alcune responsabilità per sentirci più al sicuro, gli antieroi che popolano il nostro immaginario contemporaneo sono esseri complessi, segnati da desideri contrastanti, il cui fascino risiede proprio in questa fragilità: ci appaiono più vicini alle contraddizioni della nostra stessa esistenza.
Non a caso anche la rappresentazione del potere mafioso è passata dalla denuncia sociale degli anni Ottanta fino alla sofisticata spettacolarizzazione odierna, facendo del mafioso, del gangster, del boss, figure attraverso cui esplorare la condizione umana, i rapporti familiari, la sete di controllo, l’illusione dell’impunità, muovendosi abilmente nel confine sfumato tra condanna e ammirazione. È in questo solco che si inserisce MobLand, la nuova serie crime di Guy Ritchie disponibile in esclusiva su Paramount+ con i primi tre episodi, a cui ne seguirà uno nuovo ogni venerdì.
Nessuno corre, nessuno improvvisa, nessuno preme un grilletto a caso in MobLand: qui il crimine si pianifica, si misura, si gestisce. Nel cuore della narrazione c’è Harry Da Souza (Tom Hardy), che lavora per gli Harrigan, il clan irlandese che domina il traffico di droga e armi a Londra, ma che a volte tende a essere un po’ eccessivo e forse non è più astuto come un tempo. Fortunatamente c’è lui a ripulire i loro pasticci: il braccio destro, il problem solver. “Se dico che farò qualcosa”, dice quando viene messa in dubbio la sua affidabilità, “quella cosa verrà fatta”. Harry è il tipo d’uomo che non alza la voce, non cerca lo scontro gratuito: si limita a fare quello che va fatto. E quando parla, le sue parole pesano come sentenze. “Non sei solo un uomo che sa scavare buche, sei anche uno che sa giocare a scacchi”, sintetizza perfettamente una battuta rivolta a Harry, diviso fra la violenza del suo lavoro e la vita familiare, che cerca di mantenere il più “normale” possibile.
Anche gli Harrigan non sono da meno. C’è il boss, Conrad (Pierce Brosnan), un aristocratico che si sputa sulle mani e applaude quando riceve buone notizie — o uccide qualcuno quando sono cattive. È impulsivo e pericoloso, imprevedibile, ma anche ciecamente devoto a sua moglie. Maeve (Helen Mirren), colei che comanda davvero. È impenetrabile, sempre calcolatrice, e ogni suo gesto appare studiato. Vizia il nipote ventenne, Eddie, con bustine di cocaina e sorseggia vino mentre decide se uno sfigato qualunque debba vivere o morire — ma, tutto sommato, si sta godendo la pensione. Conrad potrà anche essere il volto dell’operazione, ma lei è la mente, ed è una dinamica affascinante da osservare. A fare da contraltare ci sono gli Stevenson, la cui ultima impresa consiste nel vendere fentanyl in nero, e a cui gli Harrington vorrebbero sottrarre una cospicua fetta di mercato. Peccato che a mettersi d’intralcio e ad aumentare il conflitto tra le famiglie ci si metta Eddie, durante una serata coi fiocchi. Risultato: un uomo accoltellato, il figlio degli Stevenson scomparso e i mocassini italiani rovinati.
Inizialmente, MobLand sembra sia stata concepita come un prequel della serie Ray Donovan, il cui titolo pare sia stato cambiato più volte: da The Donovans a The Associate, poi a Fixer, fino ad arrivare alla scelta definitiva, MobLand appunto, per sancire la decisione di rielaborarla completamente e farla diventare un prodotto autonomo, elevato dalla scrittura di Ronan Bennett e dall’essere un’opera firmata da Ritchie, da cima a fondo. Lo sceneggiatore e regista di Lock & Stock – Pazzi scatenati, Snatch – Lo strappo e The Gentleman, tra gli altri, dirige infatti i primi due episodi della serie e ne figura come produttore esecutivo. Attingendo a piene mani nello stile inconfondibile che lo ha reso un’icona, nervoso e patinato, in MobLand non potevano mancare inseguimenti in auto, festini a base di coca che non sempre finiscono al meglio e un bel po’ di battute ben piazzate, alternate a una tensione crescente. “Penso che questo sia uno dei fili conduttori e dei temi del lavoro di Guy”, ha dichiarato Brosnan, parlando di Ritchie e della produzione di MobLand. “Lui prende ispirazione dai grandi. Prende trame e temi dai drammi shakespeariani o dalle tragedie giacobine. Così io e Helen abbiamo parlato di Macbeth, di Re Lear. Puoi tenere a mente tutti questi riferimenti: ti entrano nel linguaggio del corpo, e l’interpretazione può diventare, dal mio punto di vista, piuttosto teatrale. Conrad è un personaggio importante, imponente”.
Bennett, dal canto suo, sembra impostare la sceneggiatura a partire dall’interesse nell’indagare il crimine organizzato come fosse un’industria, e che come tale funziona anche grazie alla gestione del personale, e al suo buon senso. Le dinamiche mafiose sembrano raccontate attraverso la lente della gestione delle risorse umane, delle relazioni pubbliche con la polizia, delle crisi reputazionali e delle “ristrutturazioni” aziendali – cioè esecuzioni improvvise. Mentre gli Harrigan prendono le grandi decisioni, Harry si interfaccia con gli agenti, mette in riga i dipendenti indisciplinati e attua qualche licenziamento improvviso e piuttosto brusco – leggasi omicidio. È, in sostanza, un dirigente competente e dai buoni contatti. L’interpretazione di Tom Hardy conferisce al personaggio di Harry un’eloquenza penetrante, un pragmatismo e una calma glaciale solo di tanto in tanto punteggiati dalla rudezza che il tuttofare doveva avere da giovane, e che insieme allo splendido lavoro di Mirren e Brosnan dà vita a uno spettacolo in perfetto equilibrio tra eleganza, ferocia e astuzia. Una delle cose che Hardy, infatti, sa fare meglio, anche in altri suoi lavori, è mettere in scena un uomo che non è mai del tutto a suo agio nella propria pelle, e sembra sempre sul punto di strapparsela di dosso per rivelare ciò che nasconde al di sotto. In MobLand alimenta l’interrogativo su quale sia la vera natura di Harry, in grado di muoversi sia nell’alta che nella bassa società senza però appartenere davvero a nessuna delle due.
MobLand, diventata il lancio globale più seguito di sempre su Paramount+, si costruisce sull’attesa, sui silenzi e sulla diffidenza, affidandosi a ciò che non viene detto, a cosa resta nell’ombra. Ha un che di familiare, ma funziona, con Ritchie che sapientemente non forza troppa la mano. La serie, così, parte dalla consolidata tradizione gangster britannica per proporre un’immersione cupa, insolita e sorprendentemente riflessiva nel mondo del crimine organizzato londinese, presentandosi come un noir contemporaneo che cerca di aggiornare i cliché del genere. Soprattutto, mette al centro l’idea affascinante del crimine come azienda e quella più antica della violenza come mezzo di controllo. Anche perché, guai a dire il contrario: come spiega Harry, “Se ti prendi cura degli Harrigan, loro si prendono cura di te. Se non te ne prendi cura… che Dio ti aiuti”. E noi non ci sentiamo di contraddirlo.
