Le serie crime di nuova generazione ci hanno abituato a una grande attenzione per l’approfondimento psicologico dei personaggi, tanto delle figure borderline responsabili degli omicidi quanto degli investigatori impegnati nell’arrestarle. È il caso di un noir metropolitano come The Night Of, di una vicenda giudiziaria come When They See Us, o di True Detective, ormai considerata come la madre di tutte le moderne serie crime d’atmosfera. Mindhunter, serie Netflix prodotta da David Fincher, si inserisce in questo solco, facendo della fedeltà alla realtà dei fatti il suo punto di forza, con il racconto delle indagini su alcuni serial killer realmente esistiti.
Se la prima stagione si occupa della formulazione del profilo del killer seriale, nella seconda le teorie di Ford e Tench vengono messe alla prova. L’arco narrativo della nuova stagione va dal 1979 al 1981, il periodo in cui si sono verificati gli Atlanta child murders, una serie di 28 omicidi di altrettanti bambini e adolescenti afroamericani. Durante le indagini l’unità di Ford continua anche il lavoro di profiling dell’assassino seriale tipo incontrandone altri, tra i quali spicca Charles Manson. La sua intervista costituisce l’apice della seconda stagione, proprio perché nel suo incontro emerge una delle tesi fondamentali della serie. Sebbene non sia stato esecutore materiale di alcun omicidio, Manson viene trattato come un pericoloso criminale non solo perché a capo di una setta, ma in quanto simbolo negativo di una società contraddittoria come quella statunitense. In Manson si riversano i sogni di libertà di una generazione che crede la controcultura hippie un antidoto efficace per combattere l’autoritarismo dei genitori. Gli omicidi della Family mostrano il lato oscuro della controcultura hippie, minata dalle stesse dinamiche di potere che avrebbe dovuto combattere.
Il Manson sullo schermo – interpretato da Damon Herriman – è cosciente del suo status di icona pop e per questo si adegua al ruolo di santone folle che gli hanno affibbiato i media, indossando questa maschera anche durante gli incontri con Ford e Tench. Manson diventa un caso così complesso da portare gli agenti a dubitare del lavoro fatto, convincendoli dell’impossibilità di individuare modelli comportamentali comuni per spiegare personalità tanto complesse. La stessa sensazione si ripropone ai detective quando devono rapportare con David Berkowitz, conosciuto sui giornali come “Il figlio di Sam”, autore di 6 omicidi a New York tra il 1976 e il 1977. Berkowitz è famoso per le lettere inviate alla polizia in cui si diceva mosso da un’entità paranormale di nome Sam. Una motivazione che, una volta catturato, è stata smontata durante gli interrogatori e spiegata con la volontà narcisistica del killer di attirare l’attenzione dei media. Anche con Berkowitz, Tench e Ford si confrontano con un killer brillante, bugiardo e con una psiche caratterizzata da una miriade di sfaccettature.
Mindhunter tratta la genesi dei serial killer come il risultato di vari fattori individuali, sociali, storici e culturali. Al di là delle storie travagliate dei killer, spesso vittime di abusi, il taglio di Mindhunter suggerisce che il comportamento criminale sia prima di tutto il frutto di una patologia dovuta alla società in cui viviamo. Sono la pressione sociale e l’impossibilità di rapportarsi in maniera sana con la sfera sessuale a generare il trauma che poi viene rielaborato in maniera tanto distruttiva. Un esempio è Dennis Rader – meglio conosciuto come BTK – il killer che scandisce le due stagioni con i suoi delitti irrisolti e che nella realtà ha ucciso 10 persone tra il 1974 e il 1991. Rader si presentava come un normale padre di famiglia, un boy scout zelante e rispettoso in modo ossessivo delle regole. L’educazione ricevuta in una piccola comunità chiusa e conformista lo ha portato a sviluppare una seconda personalità per sfogare le sue inconfessate fantasie sessuali, con esiti letali. Proprio per questo individuare il contesto sociale in cui opera il serial killer e i suoi modelli culturali di riferimento sono un passaggio fondamentale per il lavoro del team investigativo di Ford e per l’evoluzione delle indagini forensi che hanno reso possibile.
Proprio il contesto sociale ricopre un ruolo fondamentale durante le indagini sugli omicidi di Atlanta. La città in cui si trova a indagare l’FBI è una metropoli impoverita, afflitta da problemi razziali e con una criminalità così diffusa da confondere le tracce che portano al serial killer. Atlanta è “una nuova metropoli d’America che non è riuscita a mantenere le promesse fatte”, come sostiene l’agente Ford. La disillusione ha raggiunto un livello di gravità tale che le famiglie afroamericane delle vittime non collaborano con gli agenti di polizia, per la maggior parte bianchi, perché sicure che l’omicidio di un nero verrà presto archiviato e le indagini abbandonate perché non importanti per l’opinione pubblica. Ancora una volta è chiaro allo spettatore che le variabili in gioco non si limitano alla psiche dell’assassino, ma investono soprattutto il periodo storico. Il killer di Atlanta è prima di tutto il simbolo di un disagio diffuso e il sintomo letale di una violenza endemica delle aree economicamente depresse degli Stati Uniti.
Gli spostamenti degli agenti di penitenziario in penitenziario assumono i contorni del viaggio rituale: a ogni nuovo incontro viene meno un pezzo di “Sogno Americano”. Gli uomini che l’FBI si trova a intervistare non sono dei semplici folli, ma esprimono una logica che, per quanto malata, ha una sua coerenza. Nel corso degli episodi gli agenti iniziano a comprendere il cinismo dei serial killer e il fatto che nella loro personalità si manifestano i tratti più problematici della nostra cultura: l’ambizione e il desiderio di potere di Charles Manson, il narcisismo e il bisogno di riconoscimento di David Berkowitz, la fuga dalle norme sociali di Dennis Rader, il bisogno di sfogare la rabbia del killer di Atlanta.
Guardando nell’abisso, sono gli stessi protagonisti a riconoscersi in alcuni tratti della personalità dei serial killer. Ford è affascinato dalle argomentazioni di Manson e Kemper, dei quali sembra condividere alcuni giudizi sull’ipocrisia della società; le relazioni sentimentali di Carr si basano sugli stessi rapporti di potere che intercorrono fra vittima e assassino in alcuni dei casi oggetto delle indagini; i continui litigi in famiglia di Tench non sono diversi da quelli che ha letto in molte biografie dei killer. Gli agenti finiscono per rispecchiarsi nei loro doppi oscuri, e noi insieme a loro, facendoci capire che i killer seriali sono solo la manifestazione più eclatante di una patologia estesa all’intero corpo sociale.
Mindhunter è una serie che ha l’ambizione di mostrare le variabili in grado di orientare un’indagine. Si rapporta con la violenza evitando la parodia, l’orrore o il grottesco. Al contrario sceglie la via analitica e chiede allo spettatore una maggiore attenzione, premiata con una ricostruzione minuziosa, solida e capace di mettere in scena ritratti realistici dei serial killer. È un prodotto maturo che interroga la cultura occidentale, dove la schizofrenia arriva a esprimersi tramite l’omicidio seriale, e la nostra psiche. La serie suggerisce che si può riflettere sul nostro mondo attraverso il suo negativo.
Mindhunter non è però una condanna all’animo umano, un manifesto nichilista che ci descrive tutti come colpevoli, anche se in misura diversa. Il crimine non è considerato un’anomalia, ma una naturale conseguenza dell’influsso di alcuni fattori economici e culturali. Nella serie il serial killer perde il suo fascino romantico, individuale, frutto del racconto di tanta cultura pop, e viene inquadrato per quello che è: l’estremo limite dell’uomo comune, l’apice di un comportamento violento le cui cause andrebbero ricercate, e combattute, alla base stessa di quella che noi consideriamo la normalità della vita di tutti i giorni.