Diviso tra la tentazione di accettare una cattedra all’Università dello Utah, dove anni prima aveva ottenuto una laurea in Cinema, e provare a sfondare per l’ultima volta nel mondo dello spettacolo dopo essere già stato notato dal Festival di Cannes per il suo film d’esordio, nel 2007, Lee Isaac Chung ha deciso di scavare nella propria infanzia atipica di coreano cresciuto in una fattoria nel cuore rurale dell’Arkansas negli anni Ottanta.
Ciò che ne è emerso è uno dei film più acclamati dalla critica, in quest’annata a dir poco anomala per il cinema: sei nomination agli Oscar, di cui ha vinto solo quello per la miglior attrice non protagonista per l’interpretazione di Yuh-Jung Youn, Gran premio della giuria al Sundance Film Festival e un controverso premio per il Miglior film straniero ai Golden Globe. L’affascinante peculiarità di Minari è che sfugge a singole interpretazioni e generalizzazioni. Quella che racconta non è la stereotipata esperienza della famiglia immigrata che cerca di farsi strada in un luogo ostile, né la storia dell’individuo abbagliato dal sogno americano.
“Il film non assume il punto di vista di una famiglia che sta cercando disperatamente di diventare americana”, ha raccontato Chung. “Penso che rifletta le mie esperienze e le esperienze di molti bambini immigrati che conosco. Questo è stato parte del divertimento: cercare momenti indefiniti in cui i personaggi non si adattano perfettamente a ciò che ci aspetteremmo da loro”.
Così, all’inizio del film troviamo la famiglia Yi, trasferitasi dalla California all’Arkansas per inseguire il sogno del giovane patriarca Jacob. Arrivati come tantissimi altri coreani negli Stati Uniti degli anni Ottanta in cerca di fortuna, ma con una famiglia a cui provvedere dall’altra parte del mondo, gli Yi non possono permettersi molto. Eppure, per Jacob i cinquanta ettari incolti che circondano la piccola casa su ruote in cui vuole che la sua famiglia si trasferisca sono il giardino dell’Eden: il suo sogno è quello di coltivare prodotti tipici coreani, da rivendere nelle grandi città della regione alla crescente comunità asiatica. Anche a costo di trascurare i bisogni della sua famiglia – come il problema al cuore del figlio minore, che richiederebbe attenzioni mediche difficili da trovare nel mezzo del nulla in cui si trovano. Insomma, una storia molto particolare, che rispecchia in buona parte quella del regista stesso.
Se la comunità coreano-americana si è ritrovata in molti dettagli catturati da Chung, il regista però rigetta al tempo stesso l’idea che esista una singola esperienza in cui ogni immigrato possa sentirsi rispecchiato: come scrive giustamente A. O. Scott sul New York Times, “Minari non insiste nel far sì che i suoi personaggi rappresentino qualcosa di diverso da sé stessi”. “La cronaca di una famiglia di immigrati, spesso raccontata attraverso gli occhi di un bambino, è un caposaldo della letteratura americana e della cultura popolare”, spiega Scott. “Ma ogni famiglia – ogni membro della famiglia, del resto – ha una serie distinta di esperienze e ricordi”.
Per la famiglia Yi – come, in parte, per quella del regista – questa esperienza è influenzata sia dall’estrema cocciutaggine di un padre disposto a tutto per raggiungere il suo american dream, sia dai dubbi di una madre che non nasconde di credere ben poco in quel sogno. Se allora Minari avrebbe tutte le premesse per essere uno di quei film drammatici in cui lo spettatore si trova a osservare nei minimi dettagli la disintegrazione di una relazione, un barlume di speranza arriva nella pericolante casa su ruote della famiglia Yi nel personaggio della madre di Monica, Soon-ja, interpretata da Yoon Yeo-jeong, che grazie a questo ruolo è stata la prima attrice coreana a portare a casa l’ambita statuetta di Migliore attrice non protagonista.
Soon-ja ruba la scena al resto del cast non appena arriva in America per aiutare la figlia – contribuendo notevolmente ad alleggerire il film e portando con sé, tra le altre cose, i semi di minari, la pianta acquatica usata nella cucina coreana che dà il titolo alla pellicola. Modellata sulla nonna del regista, con i suoi boxer da uomo, la sua dipendenza da bibite gassate, l’eloquio volgare e la passione per il gioco d’azzardo, Soon-ja è tutto tranne che la figura stereotipata a cui siamo abituati: se ne accorge subito il piccolo David, che vorrebbe soltanto una nonna che gli faccia i biscotti come tutte le altre nonne americane e che non “puzzi di Corea”. In un film che scorre altrimenti placido, seguendo il ritmo naturale del raccolto a cui tende Jacob, con i suoi alti e bassi, la tenerissima evoluzione della relazione tra David e la nonna sarebbe, di per sé, già una ragione valida per rimanere incollati allo schermo. Amorevole anche quando avrebbe tutto il diritto di arrabbiarsi con il nipote – come nel caso di una scena iconica in cui David corre via dopo averle fatto uno scherzo gratuito e molto spiacevole – Soon-ja conquista, una scena alla volta, l’affetto dei nipoti quanto quello degli spettatori, restando fino all’ultimo centrale nella trasformazione di quella che era soltanto una catapecchia mobile che rischiava di volare via con la prima tempesta in una vera e propria casa.
“L’ambientazione è specifica, ma l’atmosfera è universale”, scrive Stephanie Zacharek: tra gli immensi campi che incorniciano le scene, si riconosce facilmente sia l’angoscia che attanaglia Monica quando si rende conto di essere isolata dal resto del mondo, sia l’immenso orgoglio maschile che si fonde al senso del dovere in Jacob, sia lo spaesamento di David e della sorella Anne, che sembrano voler aiutare, ma non sanno proprio come. Le domande che attraversano la pellicola – quando è il caso di darsi per vinti? Cosa si è pronti a sacrificare in nome del proprio sogno? Cosa fa di un posto “casa”? – sembrano trovare una risposta, almeno temporanea, con un finale sorprendentemente ottimista, eppure accompagnano lo spettatore a lungo, ben oltre la fine dei titoli di coda.
Sarebbe stato facile, per Chung, soffermarsi sulle tensioni razziali che, in un posto come l’Arkansas degli anni Ottanta, non potevano non far parte della vita dei suoi protagonisti, ma salvo un paio di commenti ignoranti rivolti ai bambini in chiesa da loro coetanei il punto di rottura che ci si aspetterebbe non arriva mai. Un’ulteriore sovversione delle aspettative. Quello che sembra voler fare il regista non è tanto aggiungere una nuova storia all’ancora breve lista di esperienze asiatico-americane che vengono raccontate sul grande e piccolo schermo, ma rigettare il fatto che le storie che hanno come protagonisti persone che appartengono a una minoranza non possano semplicemente essere delle belle storie, senza portare sulle spalle il peso del rappresentare un’intera comunità – che, nel caso dei coreano-americani, conta 1,8 milioni di individui.
“Mi limito a raccontare le nostre storie come persone, non in relazione all’America bianca o alla cultura maggioritaria”, ha spiegato al New York Times in una conversazione con altri registi. “Siamo solo persone. Non volevo che Minari fosse un tipo di film ‘fatto da asiatici per altri asiatici’. Perché sentivo che dobbiamo andare oltre anche a questa narrazione”.
Quello che ne emerge è un film che, sfuggendo a una singola interpretazione, apre la strada a un fiorire di visioni differenti, che lo si voglia vedere come sommessamente politico per la sua sottile critica all’idea di sogno americano; come una commedia delicata grazie all’esilarante dinamica tra nonno e nipote o come la semplice, toccante storia di una famiglia che impara a fare i conti con sé stessa.