Se penso a mia nonna, la difficoltà più grande che le ho visto affrontare nell’invecchiare è stata fare pace con la consapevolezza di non poter essere più “utile”, nel senso più capitalista del termine. In pensione dal lavoro di bidella e coi nipoti ormai troppo grandi per continuare a prendersene cura nel quotidiano, accettare di avere davanti a sé giornate da riempire come voleva – tra ozio, passioni e l’inevitabile messa del mattino – è stato un processo quotidiano e non indifferente. A guardarla da fuori faceva da specchio non solo alle mie paure più personali sull’invecchiare, ma alla considerazione generale che la società mi sembra avere – e instillarci – delle persone più anziane. È un punto cruciale quando si parla di invecchiamento: per gran parte della nostra vita adulta, siamo valutati in base alla nostra capacità di lavorare, produrre e consumare, ma cosa succede quando quella capacità diminuisce, o cessa del tutto, a causa dell’età? È stato inevitabile pensare a tutto ciò guardando Matlock, disponibile in streaming su Paramount+, per cui Kathy Bates ha appena fatto la storia diventando l’artista più anziana a essere nominata per l’Emmy alla miglior attrice protagonista in una serie drammatica.
Bates, che ha dichiarato che dopo questo ruolo si godrà la pensione, interpreta Madeline “Matty” Matlock – sì, Matlock, come la serie tv cult degli anni Ottanta –, una donna sulla settantina che afferma di non aver più lavorato come avvocata dal 1991. È vedova e deve prendersi cura di suo nipote, Alfie, tanto che problemi familiari – ma soprattutto di soldi – l’hanno costretta a tornare in un settore che è cambiato molto e, dopo trent’anni di assenza, c’è parecchio da imparare, nonostante lei sostenga di essere “rimasta quasi sempre aggiornata”. Lo studio legale in cui Matty approda, Jacobson Moore, sta mostrando un interesse crescente per le questioni di giustizia sociale: non perché questo plachi la loro sete di denaro, ma perché reputano che possano rafforzare il brand e permettere loro di incassare ancora più soldi. Quando riesce con astuzia a farsi assumere, dimostra subito di essere molto più una risorsa che un peso. È intelligente, rapida, tenace e ha la capacità di cogliere dettagli che i giovani avvocati intorno a lei si lasciano sfuggire. “Ci sono momenti in cui si decide in base alla cosa giusta da fare”, dice spiegando perché voglia tornare a lavorare, “e altre in cui si prendono decisioni basate sui soldi. È una vita che faccio la cosa giusta e adesso ho bisogno di soldi, tanti soldi”. Eppure tutto ciò è solo una parte della storia, quella che racconta lei: il suo vero nome non è Matlock, suo marito è vivo ed è abbastanza ricca da potersi permettere di non lavorare un giorno in più. Se vuole entrare nello studio legale è per vendicare sua figlia, morta per un’overdose da oppiacei. L’obiettivo è scoprire quale dirigente senza scrupoli abbia insabbiato i documenti che avrebbero potuto evitare questa tragedia, rimandando il ritiro dei prodotti della causa farmaceutica Wellbrexa dal mercato di ben dieci anni.
Matlock nasce come rivisitazione della classica serie televisiva omonima, andata in onda dal 1986 al 1995, ma quella che a prima vista potrebbe sembrare un’operazione nostalgica, riesce invece a trovare una propria voce, nuova, contemporanea, pur rispettando le atmosfere rassicuranti del procedural legale classico. Il cult degli anni Ottanta, infatti, viene trasformato in qualcosa di più di un semplice revival: Matlock diventa qui uno strumento per esplorare con ironia le tensioni tra età, giustizia sociale e avidità aziendale, senza rinunciare all’intrattenimento e bilanciando sapientemente ironia e profondità. La serie riesce anzi anche a toccare temi più ampi, come il lutto, il senso di colpa e la voglia di riscatto, senza appesantire la narrazione, ma stando in equilibrio tra dramma e comfort show.
C’è molta arguzia nell’osservazione dell’ageismo e delle vulnerabilità che invecchiare comporta nella nostra società. “Succede una cosa bizzarra quando le donne invecchiano”, dice Matty in uno dei primi monologhi, mentre interviene, da sconosciuta, in una riunione tra i principali associati dello studio legale per farsi notare e ottenere un posto di lavoro vacante. “Diventiamo quasi del tutto invisibili, nessuno ci vede arrivare”. Sono fattori che Matty riesce a trasformare in opportunità, a renderli “utili” come spiega lei: la gente non la vede, così può passare dove vuole senza essere notata; la sottovaluta, quindi lei riesce a metterli in difficoltà più facilmente; le urla sopra come se non esistesse, e guardarla smontare qualunque furia dell’interlocutore con il suo tono pacato diventa un piacere. Eppure, oltre lo schermo, è inevitabile immaginare quanto per molte persone quelle fragilità restino invece tali nella vita di tutti i giorni. Il modo in cui viviamo e percepiamo l’invecchiamento è infatti profondamente plasmato dal contesto sociale in cui ci troviamo. Nella società capitalista, questo assume connotazioni uniche, spesso dolorose, che toccano il cuore della nostra identità, del nostro valore e del nostro posto nel mondo, come conseguenza di un’interazione complessa tra economia, dignità e la propria percezione di noi stessi. In un sistema capitalistico, il valore di un individuo è spesso ancora misurato dalla sua produttività economica, nonostante questa impalcatura culturale sia sempre più messa in discussione. Si tende a svalutare coloro che non possono più contribuire attivamente alla forza lavoro o al mercato dei consumi, facendo diventare le persone anziane invisibili, appunto. Per le donne, oltre al lavoro, si aggiunge poi la pressione per l’aspetto fisico, un’ossessione da sempre utilizzata per contenerle e mortificarle.
Il cuore della serie si amplia poi nell’esplorazione dell’epidemia di oppioidi, trattando il tema senza mai arretrare nel considerare chi lotta contro la dipendenza come persone meritevoli di dignità e rispetto, sospendendo il giudizio morale che tanto permea invece i nostri tempi. Negli Stati Uniti, l’epidemia di oppioidi ha causato centinaia di migliaia di morti negli ultimi decenni: secondo i dati più recenti, lo scorso anno sarebbero morte circa 80,391 persone per overdose, di cui più della metà per oppioidi sintetici. La crisi sanitaria ha avuto inizio negli anni ’90, quando le case farmaceutiche promossero con forza antidolorifici a base di oppioidi – come l’OxyContin – sostenendo che non creassero dipendenza, inducendo molti medici a prescriverli con leggerezza. Utilizzarono campagne di marketing mirate, incentivi economici ai dottori e lobbying per spingere le prescrizioni, minimizzando consapevolmente i rischi di dipendenza e overdose. Documenti interni emersi successivamente hanno mostrato che le aziende erano a conoscenza del potenziale di dipendenza ma continuarono a spingere le vendite, contribuendo a un massiccio aumento delle prescrizioni. Molti pazienti vennero così spinti verso un uso prolungato e, in seguito, al passaggio a droghe illecite come eroina e Fentanyl, ancora più economiche e potenti. L’avidità delle imprese farmaceutiche ha finito per devastare intere comunità, in particolare nelle aree rurali e nei centri industriali in declino, generando non solo sofferenza personale ma anche costi economici e sociali enormi. Al centro dell’epidemia ci sono ancora oggi le vite di milioni di persone che combattono una dipendenza spesso nata da un dolore fisico o psicologico non adeguatamente gestito, aggravato da un sistema sanitario frammentato e dall’assenza di sufficienti programmi di trattamento e prevenzione, e quelle di chi si trova ad accompagnarle in questo inferno o a compiangerle. Di fronte all’esplosione di morti per overdose e costi sanitari, migliaia di città, contee e stati americani hanno intentato cause collettive contro le aziende farmaceutiche, distributori e catene di farmacie, accusandoli di avere alimentato la crisi con pratiche ingannevoli, ma molte si sono poi risolte senza l’assunzione di responsabilità personali e con accordi economici i cui fondi non sono stati utilizzati del tutto in modo efficace per programmi di prevenzione e riduzione dei danni.
Prima di Matlock, anche la stessa Bates aveva già sfiorato il mondo dei farmaci per alleviare il dolore nella realtà, quando nel 2003 e nel 2012 le era stato diagnosticato prima un cancro alle ovaie e poi uno al seno. “Soffrivo molto, per qualche ragione. Penso fosse perché, beh, non dobbiamo entrare troppo nei dettagli,” racconta l’attrice in un’intervista al Guardian. “Continuavo a chiedere farmaci migliori e i miei medici si rifiutavano di darmi ciò che volevo. Ora capisco fosse a causa della dipendenza: centinaia di migliaia di persone erano già diventate dipendenti. Ho preso questa pillola e… oh mio Dio: tutto il mio corpo era semplicemente scomparso. Non c’era più dolore da nessuna parte. Ho pensato: ‘Capisco. Capisco perché le persone lo vogliono’”.
Nonostante le tematiche profonde, il tono di Matty riesce però a muoversi in maniera molto spontanea e organica tra momenti di commozione e battute pungenti, capaci di smorzare l’atmosfera, se non, in diversi punti, di far scoppiare in una risata piena e goduriosa. In fondo, Matlock non parla solo di crimini e tribunali, ma usa i singoli e specifici casi legali per allargarsi all’universale. Parla di invecchiare in una società che non sa più vedere i suoi anziani, delle persone che restano ai margini finché la loro vita non diventa un caso da risolvere. E parla anche di un’emergenza, quella degli oppioidi, che ha reso intere comunità invisibili, svuotato lentamente molte famiglie, finché non è stato impossibile ignorarne i corpi. Anche chi è in crisi, o chi vive nella dipendenza, resta una persona, con desideri, paure e ricordi, degna di rispetto, anche quando nessuno sembra più disposto a offrirglielo. La serie guarda queste storie, e queste persone, per quello che sono: vite che contano ancora, anche quando smettiamo di accorgercene. Forse è proprio questo il suo spunto più grande: fermarsi a guardare chi di solito non vediamo più. Perché anche solo saper vedere senza voltarsi altrove è il primo vero atto di giustizia.
Questo articolo è stato realizzato da THE VISION in collaborazione con Paramount+, il servizio globale di streaming di Paramount che offre un’ampia selezione di serie originali e film grazie ai suoi brand iconici. Guarda ora “Matlock” – la nuova serie con Kathy Bates, candidata all’Emmy per la miglior attrice in una serie drammatica per l’interpretazione di Madeline “Matty” Matlock – e gli altri contenuti esclusivi.
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