“Los colonos”, o dell’abitudine a cancellare la Storia scomoda a noi occidentali - THE VISION

Recentemente discutevo con un amico su quanto i film storici debbano essere accurati. Se lui, infatti, ritiene necessaria una determinata aderenza agli avvenimenti reali, per me il cinema, a meno che non si tratti di documentari, e non era questo l’oggetto del confronto, è sempre stato più un artificio, un gioco di magia. In un mondo in cui le informazioni vere e quelle false hanno spesso confini incerti anche nei media in cui non dovrebbero, interrogarsi su quanto la narrativa storica possa alterare il nostro senso della realtà o se i registi e le registe abbiano o abbiano avuto una responsabilità nei confronti della storia non è solo l’esercizio di stile che potrebbe sembrare. In alcuni Paesi ci sono stati tentativi di legiferare sul rapporto tra cinema e storia, per esempio imponendo che pellicole con elementi storici venissero visionate da esperti in materia prima di ottenere o meno il via libera, spesso con evidenti problemi di censura. D’altronde, soprattutto in passato, le pellicole sono state sì un mezzo con cui stimolare l’immaginazione, sperimentare, denunciare, ma anche uno strumento attraverso cui dare forma alla memoria collettiva. Uno dei più potenti, forse. È nel solco di questa riflessione che si inserisce Los Colonos, il primo lungometraggio del regista cileno Felipe Gálvez, nelle sale italiane da oggi, 7 marzo, e disponibile sulla piattaforma di streaming MUBI Italia dal 29 di questo stesso mese. La pellicola, selezionata nella rassegna Un certain regard del Festival di Cannes, dove ha vinto il premio FIPRESCI, è stata anche la candidata cilena agli Oscar come miglior film internazionale. 

Nel 1901, un ricco proprietario terriero, José Menéndez, assume due uomini per realizzare una strada dal suo ranch all’oceano e definire così la vastità della sua ricchezza. Sono MacLennan, un tenente inglese, e Bill, un mercenario americano. Non sono soli: a loro si unisce anche Segundo, un ragazzo meticcio abile a sparare, che conosce le terre e può fare da guida. Il trio non è chiamato solo ad attraversare le vaste lande della Terra del Fuoco – che nel film è quasi una protagonista a sé stante, con i suoi luoghi sconfinati e aperti verso il cielo – per segnare il perimetro delle proprietà di Menéndez, ma a effettuare una vera e propria missione “civilizzatrice” uccidendo le popolazioni indigene che ancora la abitano.

Se nel rapporto tra MacLennan e Bill il regista inserisce spesso un registro quasi comico per mostrare il conflitto machista tra due uomini costretti a collaborare pur sentendosi ciascuno migliore dell’altro, rappresentandoli come uomini ordinari e ignoranti e non gli eroi a cui la narrazione hollywoodiana del colonialismo ci ha abituati, è attraverso il personaggio di Segundo che cogliamo l’orrore dello sterminio. Il suo punto di vista è infatti una prospettiva complessa: sta viaggiando su terre in cui i suoi antenati sono stati uccisi. Il conflitto interiore che affronta come persona metà bianca e metà indigena gli permette di comprendere il suo posto nel mondo. Non è solo la violenza fisica a determinare questo percorso, una violenza data come scontata da chi la esegue ma non per questo meno brutale, ma anche quella culturale, delle istituzioni che si impossessano della narrativa delle minoranze tracciandone il percorso. Una duplice natura che Gálvez mette in scena dividendo il racconto in due parti, in due periodi temporali e con due registri distinti, per mostrare le diverse prospettive della colonizzazione.

La storia attinge a fatti realmente accaduti. L’Isola Dawson, parte dell’arcipelago della Terra del Fuoco, oggi abitata da appena 301 persone, è nota infatti alla storia per essere stata il luogo in cui, durante i primi anni della dittatura di Pinochet, vennero confinati e deportati molti esponenti dell’alleanza di sinistra dell’Unidad Popular e i più stretti collaboratori di Salvador Allende. Fu in questa occasione che venne costruito il luogo di detenzione più a Sud di sempre, seguendo un progetto dell’ufficiale nazista Walter Rauff. L’isola, però, circa un secolo prima, era già stata scenario di un altro tragico evento, che però non ha trovato lo stesso spazio nel ricordo storico collettivo, ma è stato cancellato e dimenticato: il genocidio dei Selk’nam, popolazione di nativi americani che abitava quasi ogni lembo della Terra del Fuoco, o della Karunkinka, come la chiamavano originariamente, “la nostra terra”.

Nonostante l’arrivo di Ferdinando Magellano, a quelle latitudini nel Cinquecento, i Selk’nam ebbero pochi contatti con gli europei. Almeno fino a quando, alla fine del XIX secolo, le grandi aziende ovine non si interessarono all’Isla Grande. L’introduzione degli allevamenti creò grandi conflitti tra i coloni inglesi, cileni e argentini e le popolazioni indigene – decimate anche dalle nuove malattie. Non conoscendo il concetto di proprietà privata, i Selk’nam cacciavano frequentemente le pecore nei ranch, credendole prede disponibili. Gli allevatori pagavano così una sterlina per ogni indigeno morto, chiedendo che una mano o un orecchio venisse tagliato e consegnato come prova. Quando non venivano rapiti e venduti come domestici, gli anziani e i bambini erano spediti alla Missione Salesiana di Río Grande, sul lato argentino del territorio, o a Dawson Island, appunto, con l’obiettivo di “essere civilizzati”. Le donne invece venivano stuprate e costrette a sposare i coloni. Secondo le stime furono cinquemila i nativi americani massacrati in meno di cinquant’anni. Appena un centinaio i sopravvissuti. E a distanza di oltre un secolo non abbiamo ancora smesso di camuffare il dominio e la sopraffazione con la missione di civiltà, la conquista con il progresso, e di giustificare le barbarie convincendoci di star lavorando per il bene dell’umanità. Poco importa che invece di imparare a non versare il latte nel tè, ciò abbia spesso significato venire strappati dalle proprie origini, dimenticare la propria lingua, il più delle volte essere uccisi.

Muovendosi sul confine tra storia e finzione e tra vero e falso, Los Colonos trae ispirazione da romanzi, leggende popolari, dipinti e altre pellicole, e non solo da questi eventi rimossi, incorporando questa dualità soprattutto nei personaggi che danno vita al film, che sono sono un misto tra fantasia e realtà. Alcuni, come José Menéndez, ai cui discendenti appartengono ancora molte delle lande della Terra del Fuoco, e Alexander MacLennan, anche conosciuto come “Chanco Colorado”, cioè il porco rosso, il cui nome oggi designa alcuni fiumi e alcune strade della Patagonia, sono realmente esistiti. Altri, come Kiepja, la donna con cui fugge Segundo, sono di finzione. Sarà forse un nome comune tra la popolazione Selk’nam – non sono riuscito a trovarne un riscontro – o forse un volontario richiamo non esplicitato, cercando fonti sulla storia di questa popolazione indigena mi sono infatti imbattuto in un testo dell’antropologa franco-statunitense Anne Chapman, Fine del mondo, in cui racconta di come alla fine degli anni Sessanta nella Terra del Fuoco fosse morta proprio una donna di nome Kiepja, conosciuta anche come Lola. Era l’ultima testimone diretta di quella cultura.

Anche la Kiepja del film rappresenta uno snodo cruciale: è nella sua ritrosia, nel suo silenzio, che Gálvez, nella seconda parte del film, incarna un altro tipo di violenza a cui il pensiero colonizzatore dà forza. Non solo fisica, ma anche culturale. Nel 1908, sette anni dopo l’eccidio, infatti, il governo cileno invia un emissario per cercare di ricostruirne la storia. Vicuña, questo il suo nome, dopo essersi confrontato con Menéndez, raggiunge Kiepja e Segundo per filmarli e per raccoglierne le testimonianze. Vuole che le popolazioni indigene siano parte del quadro nazionale, certo, ma solo a patto di acconsentire alla sua narrazione, quella dominante, garantendo così visibilità ai Selk’nam mentre al contempo le si priva di una voce propria. La riconciliazione con la Storia, con il passato, è dunque parziale.

Non so se sia stato solo un caso o qualcosa, effettivamente, anche solo in modo involontario, si è smosso nello stesso momento, ma quattro mesi dopo la presentazione di Los Colonos al Festival di Cannes, il 5 settembre, il Congresso nazionale cileno ha approvato quasi all’unanimità – 117 voti a favore e 1 astensione – il riconoscimento istituzionale dei Selk’nam come una delle undici popolazioni native del Cile. Una decisione che permette alla comunità contemporanea di riscrivere la storia, decolonizzandone la prospettiva e recuperando e riformulando quanto accaduto. “Gli eventi raccontati nel film non fanno parte della versione ufficiale della storia del Cile. Non sono nemmeno inclusi nel curriculum scolastico”, racconta Gálvez. “Non avevo mai sentito parlare del genocidio del popolo Selk’nam, che le persone bianche chiamano Ona. Cosa succede a un Paese quando un’intera pagina della sua storia viene cancellata?”. 

La memoria collettiva, come quella individuale, è selettiva. Non ricordiamo tutto, né spesso arriviamo a conoscerlo, ma solo gli eventi che pensiamo ci rappresentino al meglio, raccontati e tramandati nei modi che ci rappresentano al meglio. Come accade per la maggior parte dei fenomeni che riguardano le comunità, però, la memoria collettiva non è altro che una convenzione. Serve a definire la nostra identità, a stabilire chi siamo, come lo siamo diventati, ma nel tempo può espandersi, ridursi, rinnovarsi, ribaltare il passato per come lo abbiamo conosciuto, aiutarci a farci i conti – anche se è un’attività a cui, a ogni latitudine, sembriamo poco propensi a cedere. In questo senso, nelle intenzioni del regista Los Colonos non vuole essere una ricostruzione prettamente storica, pur attingendo a piene mani da avvenimenti reali, ma piuttosto una riflessione su come le storie che raccontiamo, in particolar modo attraverso il cinema, possano sì modificare, distorcere o riscrivere la memoria collettiva, ma anche ampliarla, rendendo comune altre prospettive, altri passati. Se la sua costruzione si concretizza non solo nell’esporre ciò che si vuole, ma pure nel nascondere ciò che non si dovrebbe vedere, confrontarcisi significa, in ultimo, soprattutto mostrare, portare alla luce quanto finora era stato messo da parte.


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