Per qualche strana ragione il 1986 potrebbe essere l’anno dell’era moderna che somiglia di più al 2020. Fu il periodo infatti in cui una serie di eventi importanti e in alcuni casi catastrofici ebbero luogo. Si diffuse in tutto il mondo il primo virus informatico – anche se all’epoca i pc erano molti meno rispetto a oggi; lo Space Shuttle “Challenger”, partito da Cape Canaveral, esplose in fase di decollo; a Palermo, nell’aula bunker dell’Ucciardone, si aprì il primo maxi processo alla mafia; Papa Giovanni Paolo II fu il primo Papa a entrare in una sinagoga; esplose il reattore nucleare di Černobyl; il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan aprì la crisi con la Libia. Al cinema fu l’anno di Top Gun, Nove settimane e mezzo, Il nome della Rosa e Velluto blu, il noir di David Lynch dal quale prenderà origine la serie cult Twin Peaks. E quello stesso anno approda sul grande schermo il primo vero lungometraggio di un giovane e talentuoso regista nero di nome Spike Lee.
S’intitola Lola Darling (in originale She’s gotta have it) ed è un piccolo capolavoro in bianco e nero, interpretato solamente da attori afrodiscendenti, che ha come protagonista Tracy Camilla Johns nei panni di Nola – che non si capisce bene perché ma in italiano è diventata “Lola” – una giovane artista, seducente e indipendente che vive in un piccolo monolocale di Brooklyn e lavora come grafica. Nola coltiva tre relazioni contemporaneamente, senza nascondere la sua poligamia a nessuno dei suoi amanti e senza concedere esclusività. Al centro del monolocale di Nola c’è un letto sempre sfatto, alle spalle del letto le candele che accende quando decide di fare l’amore. Sulle pareti, un collage di ritagli di giornali in continua evoluzione, la tela dell’opera incompiuta frutto delle sue creazioni e dei suoi pensieri.
Se è vero che ogni opera di creazione ha in sé l’humus sociale del periodo storico in cui il regista vive, allora possiamo dire che la storia di Lola Darling nasce nella New York degli anni rampanti di Donald Trump, un imprenditore immobiliarista under trenta che ha deciso di spiccare il volo ed emanciparsi dall’ombra dorata del facoltoso papà Fred, cominciando dalla ristrutturazione del vecchio Commodore Hotel, vicino alla Grand Central Terminal. New York è ancora una città allo sbando, il crack e le baby gang la fanno da padroni, c’è una forte discrasia sociale tra le classi ricche e le povere, la disoccupazione imperversa e le periferie della città – dall’East Village fino a Brooklyn, con i loro palazzi fatiscenti – diventano l’unico luogo dove arte e protesta trovano una comune espressione, grazie alla pop art di Keith Haring e di Basquiat. Prende piede la urban culture, si passa dai graffiti all’hip hop: è questo il mood del giovane Spike Lee, il quale deve aver incontrato nella sua immaginazione il personaggio di Mars Blackmon, il suo alter ego nel film, l’amante più giovane di Nola, ciclista e spiantato, che cerca di conquistarla facendola ridere.
Il film inizia con una citazione tratta dal romanzo Con gli occhi rivolti al cielo di Zora Neale Hurston, omaggio alla scrittrice afroamericana dell’Harlem Renaissance, che per decenni fu dimenticata e oscurata probabilmente per via del fatto che nei suoi romanzi, accanto al linguaggio accademico, usava anche il dialetto afro. Ma Lee aveva un’altra cosa in comune con lei, anche Neale Hurston aveva perso la madre molto presto e suo padre, un reverendo battista, si era subito risposato. Bill Lee, musicista jazz e autore delle musiche del film, infatti, si risposò molto presto con una donna bianca di origini ebraiche, e Spike non lo accettò mai. Tanto che il suo primo vero film d’esordio – dopo il successo riscosso con Joe’s Bed – Stuy Barbershop: We Cut Heads, realizzato come tesi di laurea alla New York University – doveva essere The Messenger, la storia di un fattorino afroamericano che si ritrova improvvisamente sconvolto dalla morte della madre e dal successivo matrimonio del padre, e che per tutta la vita cova rancore e medita un modo per scacciare di casa la matrigna. Ma The Messenger era un’opera low budget che non ricevette abbastanza denaro per essere realizzata, e così, il film che fece conoscere Spike Lee al mondo intero diventò Lola Darling.
La protagonista di Spike Lee è una donna emancipata, che se ne frega di cercare l’uomo della sua vita, rifugge da ogni convenzione, tiene sul filo tutti i suoi pretendenti e se le va flirta anche con l’amica. Nola ha una vera e propria passione per il sesso ma non ha alcuna intenzione di stringere legami. I suoi tre uomini sono diversissimi fra loro: Jamie, interpretato da Redmond Hicks, è accudente e protettivo, innamorato e paziente, fa di tutto per convincere Nola a stare solo insieme a lui; Greer, John Canada Terrell, è invece un uomo molto vanitoso e fanatico del fitness, che si vanta di essere molto desiderato e cerca di convincerla ad andare a vivere insieme a lui a Manhattan, ma senza riscontri, allora, la spinge ad andare da uno psicoterapeuta accusandola di avere un problema; infine c’è Mars Blackmon. Interpretato dallo stesso regista è il personaggio che Spike Lee continuerà a sfruttare anche in alcuni spot pubblicitari come quello realizzato per le Air Jordan.
Mars Blackmon è l’icona afroamericana che resiste agli anni in cui comincia la gentrificazione di Brooklyn, quella che lo stesso Spike Lee definì come la “Sindrome di Colombo”, ovvero la riqualificazione di intere periferie occupate da gruppi sociali più ricchi provenienti da altri quartieri di New York e che, secondo il regista, erano poco rispettosi delle usanze e delle tradizioni degli abitanti storici. La sua collana d’oro al collo, con il nome Mars stampato a caratteri cubitali, in una scena del film è oggetto di critica da parte del suo rivale in amore Greer, ma Mars rappresenta un ceto sociale e una cultura che non vuole essere spazzata via: è disoccupato, ha uno stile da rapper, e porta addosso i simboli e l’orgoglio delle proprie radici. Quando Nola decide di trascorrere con i suoi amanti il giorno del Ringraziamento, intorno al tavolo i tre trattano, cercando di farsi fuori reciprocamente. È un banchetto che in chiave comica deride l’abitudine maschile di trattare l’oggetto dei propri desideri come un trofeo o una proprietà da aggiudicarsi, come se non avesse alcuna voce in capitolo, alcun desiderio, alcuna volontà. Così Nola decide di far fuori tutti e tre, lasciandoli.
Lola Darling è tornata recentemente in una serie tv di Spike Lee per Netflix che riprende il titolo originale del film She’s gotta have it e racconta il seguito della vita di Nola. Questa volta, però, la protagonista viene interpretata da DeWanda Wise. La serie ha riscosso enorme successo, anche perché è arrivata su Netflix nel pieno dell’ondata rivoluzionaria femminista del movimento #metoo, fenomeno che ha indotto gli sceneggiatori ad aggiornare un episodio con una molestia subita da Nola in piena notte. Nola è una donna che rivendica la libertà di adottare, e di replicare se vuole, schemi prettamente maschili, mentre i suoi amanti, incapaci di gestire questa mancata esclusività, non riescono a esimersi dall’insultarla, tirando fuori tutti i cliché della cultura maschilista. Non è un caso, poi, che Netflix abbia voluto riproporre a poche settimane dal voto per le presidenziali il primo film di un regista che è diventato un vero e proprio simbolo – oltre che una stella sulla celebre Walk of Fame di Hollywood boulevard – della cinematografia mondiale per la lotta alla discriminazione razziale.
Le riprese di Lola Darling durarono circa dodici giorni, con un budget che Lee cercò di raccogliere attraverso i contributi degli amici e dell’amata nonna, Zimmie Shelton, che contribuì a finanziare soprattutto le prime opere del nipote. Quando il film uscì incassò 7.137.502 dollari nei soli Stati Uniti, consacrandolo sulla scena del cinema d’autore internazionale. Il film fu presentato anche al Festival di Cannes dove vinse il Prix de la Jeunesse e poi anche il premio della Los Angeles Film Critics Association. Spike Lee è stato a suo modo un pioniere nel dare il ruolo di protagonista a un personaggio femminile nero che replica schemi maschili irridendo l’altro sesso. Il movimento Black Power imperversava già dagli anni Settanta e Vogue America fu il primo fashion magazine americano a dedicare una copertina a una modella nera già nel 1974, ma per portare il Black Issue in giro per il mondo ci sarebbero voluti ancora anni, ci sarebbe voluto il cinema.