“Leaving Neverland” distrugge Michael Jackson. E dimostra quanto sia devastante l’abuso di potere.

Da meno di due anni a oggi il modo che abbiamo di guardare le molestie e le violenze sessuali è cambiato in maniera piuttosto radicale, specialmente per quanto riguarda il mondo dello spettacolo statunitense. Dall’esplosione del movimento #MeToo in poi sono cadute diverse teste dello star system americano, e una delle grandi questioni a proposito di personaggi in vista che si scoprono avere un passato o un presente di abusi sessuali riguarda la loro produzione artistica: come dovremmo relazionarci ai film, alle canzoni, ai libri di autori e interpreti che sappiamo aver commesso crimini nei confronti di altre persone? Per quanto mi riguarda, pur riconoscendo la portata gigantesca di questa domanda, non ritengo che la damnatio memoriae o la censura siano la strategia giusta in quasi nessun caso, ma capisco che l’idea che esista un distacco tra artista e opera d’arte possa non essere condivisa. Quando la domanda non riguarda un artista qualunque, ma la più grande star della storia della musica pop occidentale, Michael Jackson, si fa ancora più divisiva. Pochi giorni fa è stato infatti rilasciato negli Stati Uniti un documentario di circa quattro ore della HBO dal titolo Leaving Neverland, che sta portando il dibattito sulle violenze sessuali e gli abusi di potere nel mondo dello spettacolo a un livello ancora più complesso e torbido, visto che parla di violenze su minori e considerato il fatto che Michael Jackson non solo aveva già in passato dovuto far fronte a processi per accuse di pedofilia da cui era stato assolto, ma nel frattempo è anche morto

La famiglia Jackson conforta Paris, figlia di Michael, ai funerali del padre; Los Angeles, 7 luglio 2009

Non è strano dunque che dalla messa in onda di questo documentario siano scaturite diverse reazioni, dagli esiti anche drastici. Non solo diverse radio hanno cominciato a boicottare la musica di Michael Jackson, ma addirittura è stato cancellato un episodio de I Simpson in cui il cantante doppiava un personaggio. E pare che la Michael Jackson estate abbia fatto causa per cento milioni di dollari alla HBO in seguito alla produzione del documentario. In sostanza, il re è nudo, e tutto il mondo che ha seguito e supportato Jackson per trent’anni di carriera si trova ora davanti a una versione a dir poco sconvolgente dei fatti raccontata in modo crudo e diretto, senza troppi sentimentalismi o fronzoli. Il regista Dan Reed ha infatti deciso di fare raccontare a due vittime di abusi sessuali l’intera storia di come sarebbero arrivati ad avere un rapporto talmente stretto e intimo con Jackson da diventare morboso, fino a sfociare in una relazione pedofila. 

Se per il pubblico americano, complice la nota tendenza statunitense a trattare questo genere di storie con una patina di manicheismo moralista, la vicenda assume i toni di un verdetto finale da applicare sul destino di un uomo morto dieci anni fa, il documentario HBO ha invece a mio parere due caratteristiche molto più importanti e interessanti da analizzare. La prima è che ha dato spazio a due persone di poter parlare, dopo molto tempo, di ciò che è successo quando erano bambini di appena sette o dieci anni. Il documentario ripercorre i fatti con la lentezza di un lungo percorso di psicanalisi, tenendo conto non solo di tutto ciò che riferiscono di aver subito – che è oggettivamente orrendo – ma anche delle ragioni che hanno spinto sia loro che i rispettivi genitori a comportarsi in modo tale che queste cose avvenissero. Non sotto forma di becero victim shaming ma in una prospettiva molto meno banale di ricostruzione dei processi che portano a vicende simili, in cui l’elemento fondamentale altro non è che il potere e il suo abuso. E da ciò emerge la seconda caratteristica estremamente interessante di Leaving Neverland, ovvero la narrazione di come un essere umano arrivi a essere tanto idolatrato e mistificato da poter agire come un dio incontrastato, a prescindere dalla morale di ciò che compie in quanto uomo. La cosa che più sconvolge di questo documentario, infatti, è vedere come attorno a Michael Jackson si sia creato un tale fanatismo da aver reso possibile che un uomo di trent’anni potesse chiedere e ottenere di trascorrere notti e settimane in una stanza di albergo da solo con un ragazzino di dieci anni senza che nessuno sindacasse questa richiesta. A nessuno sembrava strano perché a chiederlo era il Re del Pop.

Jackson con il ballerino e coreografo australiano Wade Robson, che nel 2013 ha ritrattato le dichiarazioni sull’innocenza della star

Per capire cosa significano le storie raccontate in Leaving Neverland non si può escludere dalla narrazione il sottotesto della biografia di Michael Jackson, che più che la storia di un artista sembra un manuale di psicologia. Nel documentario questa componente non è stata inserita, per evitare che il protagonista diventasse un’altra volta lui. La scelta di non includere il retroscena biografico di tutte queste vicende, se da un lato rende giustizia ai suoi veri protagonisti, Wade Robson e James Safechuck, dall’altro rischia di farci perdere di vista elementi fondamentali che non servono a giustificare le azioni di Jackson, ma a comprenderne ancora di più la gravità.

Grazie a varie ricostruzioni, ai suoi racconti e a molte interviste sappiamo che Jackson soffriva per una grande questione irrisolta, il suo rapporto con l’infanzia, e gli indizi di questa sua ossessione erano ovunque, dalla continua riproposizione del tema di Peter Pan, alla filantropia mirata e quasi esagerata nei confronti dei bambini. Jackson era un uomo a cui era stata sottratto il diritto di essere bambino, a causa di una carriera cominciata decisamente troppo presto, con tutte le conseguenze che questo ha potuto comportare nella vita di una persona che, nonostante il successo planetario e impareggiabile, soffriva di un disagio profondo. È dunque evidente quanto potesse essere problematico il rapporto tra il cantante e i bambini, nonostante l’ammirevole e innegabile impegno che ha sempre dimostrato – non a caso una delle immagini più vivide che conserviamo di Jackson è proprio quella di lui che canta “We are the world, we are the children” circondato da bambini di diverse nazionalità uniti in un coro di solidarietà e fratellanza – ma che alla luce dei fatti di oggi assume sembianze molto più inquietanti e distorte.

Michael Jackson canta “Heal the World” al Super Bowl XXVII; Pasadena, California, 1993

È dalla convivenza assolutamente contraddittoria tra i due elementi, da un lato l’amore, la dedizione, l’aiuto, dall’altro la perversione e la violenza, che muovono le riflessioni delle due vittime, chiamate a far fronte alla difficoltà immensa di raccontare che la persona che più le ha supportate e rese felici è anche quella che ha fatto loro la cosa peggiore che si potesse immaginare. Sia Robson che Safechuck, infatti, raccontano proprio di quanto meravigliosa fosse diventata la loro vita dal momento in cui Michael Jackson, la più grande celebrità del momento, con un carisma tale da richiamare su di sé l’attenzione internazionale, aveva scelto proprio loro come amici, grazie alle loro promettenti capacità. Una situazione già di per sé paradossale, in cui i genitori, adulti responsabili, hanno visto l’occasione per una carriera e un successo assicurati piuttosto che la stramberia di un capriccio preoccupante, quello di poter avere a trentacinque anni un gruppo di bambini con cui trascorrere il tempo a mangiare caramelle e guardare cartoni animati. 

A parlare nelle interviste non sono solo i due uomini ma anche le loro madri, entrambe imperdonabili complici di una follia organizzata e senza freni. Quando viene chiesto loro come abbiano potuto lasciare che i propri figli dormissero per anni con un adulto che dimostrava un’evidente propensione per la compagnia dei più piccoli, entrambe forniscono una risposta legata principalmente al rapporto che c’era tra Jackson e le proprie famiglie. Descrivono il cantante come un figlio, un uomo fragile e delicato alla ricerca della normalità di una vita familiare semplice da vivere attraverso quella di qualcun altro. Il cantante aveva instaurato con queste famiglie un rapporto di intimità molto forte: telefonava loro quasi ogni giorno, andava a trovarli, scattava foto insieme, faceva loro molti regali e prometteva un futuro ai loro figli. Fino a quando però non subentrava un nuovo amico, un nuovo compagno di giochi che prendeva il posto di quello precedente, facendo sprofondare quest’ultimo in un senso di rifiuto e abbandono logoranti. Durante questi anni di amicizie fatta di tour in giro per il mondo, esibizioni e ore spensierate nel parco giochi sconfinato di Neverland, succedeva però che a un certo punto il passatempo non fossero più soltanto i videogiochi ma anche pratiche sessuali che sia Safechuck che Robson raccontano con tanta lucidità e sgomento che è diventa difficile credere che stiano mentendo. 

Michael Jackson e Wade Robson

Sembrano chiare le ragioni per le quali entrambi, nei processi degli anni precedenti, avrebbero deciso di testimoniare il falso, dichiarando di non essere mai stati abusati da Jackson. Entrambi vivevano in una spirale di devozione e ammirazione nei confronti del cantante, il quale li aveva convinti che se fosse finito lui come personaggio sarebbero finiti anche loro e la loro amicizia, e non solo. Aveva infatti anche impostato le loro relazioni su un piano di dipendenza – sia emotiva che economica – talmente sottile da creare un senso di attaccamento e di complicità necessari e imprescindibili. Ed è proprio questo aspetto della storia raccontata in Leaving Neverland che rende la vicenda di questi ragazzi abusati così tragica e sconcertante: era tutto là davanti agli occhi di chiunque potesse guardare, solo che nessuno aveva il coraggio di confessarlo, perché vedeva in Michael Jackson non un essere umano, ma una divinità, da idolatrare come tale. 

Il senso di un documentario come Leaving Neverland non si può trovare nella catarsi di un personaggio distrutto e annientato dalle sue stesse azioni. Né si può cercare un’interpretazione vendicativa della versione dei fatti dei due intervistati, perché è palese che il trauma che si portano dentro da più di trent’anni è talmente grande da non rendere possibile una vera e propria guarigione. Penso che non si possa cancellare la storia recente di Michael Jackon, credo che eliminare la sua musica dai palinsesti della radio non serva a guarire le ferire che ha provato, come ritengo che chi non vuole credere a questa versione dei fatti non potrà mai convincersi che sia andata così. Jackson ha avuto nella sua vita la possibilità di redimere il proprio senso di inadeguatezza attraverso gesti di beneficienza e di supporto importanti e plateali, e di queste azioni non può che rimanere l’unico valore che possiamo attribuire loro, ovvero il bene effettivo di cui alcuni hanno potuto godere. Allo stesso tempo però, il fatto che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato nel modo di comportarsi nella sua vita privata è ormai sotto la luce del sole insieme alle conseguenze disastrose che la sua perversione ha generato. Ma di certo la storia di questo artista ci mostra anche tante altre depravazioni che non passano solo attraverso la sessualità, come la convinzione che dal potere economico e mediatico derivi anche il potere di sovvertire la legge e di essere giudicati con un altro peso. E anche questa è una mostruosità violenta e aberrante. 

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