Penso sia successo quasi a tutti da bambini di avere una tendenza ossessiva verso certi film. Per quanto mi riguarda, potevo tranquillamente trascorrere dieci pomeriggi di fila guardando sempre la stessa videocassetta o DVD senza stancarmi, anzi, volerne sempre di più. Tra i vari titoli con cui ho avuto questo rapporto monomaniacale in cui spero si possano riconoscere tante altre persone a riprova del fatto che non sono folle, uno in particolare lo ricordo come il principe indiscusso della ripetizione ad infinitum, ossia Il gladiatore di Ridley Scott. Credo senza esagerare di aver guardato questo film come minimo un centinaio di volte, forse anche di più: amavo tutto, dall’ambientazione alla magnifica sensazione per una bambina di otto anni di avere una cotta micidiale per un attore australiano di ventotto anni più grande vestito da antico romano, Russell Crowe. Ma farfalle nello stomaco a parte, c’era una presenza in questo film che agli occhi incantati di una bambina risultava più incisiva e perturbante di un semplice e classico cattivo da film hollywoodiano. C’era un personaggio che si insidiava nei miei peggiori incubi, infestando qualsiasi momento di solitudine e luci spente che si trasformavano in inquietudine pura: Commodo, imperatore di Roma assassino del suo stesso padre, Marco Aurelio, nonché persecutore di Massimo Decimo Meridio – l’australiano in mise da Colosseo.
Scoprire da grande che la maggior parte delle cose rappresentate ne Il gladiatore, e in particolare quelle su Commodo, non sono neanche lontanamente vere è stato un duro colpo. Rendersi conto che Joaquin Phoenix, il ragazzo che interpreta questo personaggio così crudele e angosciante, è invece diventato uno degli attori più bravi del cinema americano – e dunque tranquillizzarsi sul fatto che sì, faceva davvero paura – invece è stato molto bello. Perché in effetti, quella sensazione di disagio che provavo ogni volta che sullo schermo incrociavo lo sguardo deviato del peggior imperatore romano – stando ovviamente a Ridley Scott e ai suoi sceneggiatori – non era solo la conseguenza di un’intossicazione da Gladiatore, ma l’effetto naturale di una recitazione che andava ben oltre gli standard. Joaquin Phoenix, infatti, a quasi vent’anni da quella interpretazione è diventato uno dei volti di riferimento del grande cinema statunitense, confermando con molti altri ruoli la sua straordinaria capacità interpretativa.
Phoenix è uno di quegli attori che hanno ricevuto il dono e la croce di avere una biografia tanto assurda da sembrare essa stessa materiale per una sceneggiatura, caratteristica che si ritrova in molti tra i suoi più grandi colleghi e che inizio a sospettare essere alla base per una carriera fruttuosa nell’arte. Non dico che non ci siano artisti con storie personali normali e prive di picchi surreali o drammatici che non abbiano qualcosa da dire, ovvio che non è così, ma è vero che un certo tipo di esperienza personale può aiutare una persona che lavora con la propria espressività a scavare nei meandri della sua psiche. Phoenix da questo punto di vista non si è fatto mancare niente, considerato che già dalla prima infanzia ha vissuto una vita che definire particolare è un eufemismo. Joaquin è il terzo di cinque figli, nati in una famiglia che ha cambiato il cognome da Bottom a Phoenix per indicare un momento di rinascita tanto forte da necessitare un taglio con le ceneri metaforiche del passato – e già questo mi sembra sufficiente per capire la portata della stravaganza della sua biografia. I genitori, infatti, sono due hippie che dalla fine degli anni Sessanta in poi hanno deciso di dedicare la loro esistenza alla nota setta californiana dei Bambini di Dio – Children of God, abbreviato anche come CoD – in cui il messaggio di risveglio cristiano viene veicolato anche attraverso la libertà sessuale, pratica che negli anni è costata diverse accuse di pedofilia all’organizzazione, dato che include anche la partecipazione di minori. La famiglia Bottom ha trascorso così diversi anni viaggiando per il Sudamerica e portando avanti questa opera di evangelizzazione, fino a distaccarsi dall’ambiente della setta in modo definitivo e fare ritorno negli Stati Uniti, adottando il nuovo cognome e cominciando una vita piuttosto sregolata fatta di stenti e sopravvivenza di espedienti. Joaquin e suo fratello maggiore River, si ritrovano così a fare gli artisti di strada per le vie di Los Angeles, un modo per aiutare la famiglia ad andare avanti fino a quando la madre non comincia a lavorare come segretaria per la NBC. Grazie a questo lavoro, i contatti con il mondo dello spettacolo diventano più concreti e i due fratelli vengono notati da un agente che li introduce all’ambiente con piccoli ruoli nella televisione e nel cinema. Non proprio la classica storia da teen-star, diciamo, ma sufficiente a far sì che Joaquin, River e le loro sorelle entrino nell’industria cinematografica di quegli anni.
Se l’inizio abbastanza rocambolesco della carriera di questo attore è già di per sé una storia, si aggiunge poi un evento tragico che segna in modo indelebile la sua vita: nel 1993 muore River – il quale stava coltivando una carriera promettente – per overdose, in un famoso locale che all’epoca apparteneva a Johnny Depp, il Viper Room. Joaquin, che all’epoca ha solo diciannove anni, chiama i soccorsi per salvare il fratello, ma i tentativi sono inutili e muore tra le sue braccia. La telefonata al 911 viene poi trasmessa da radio e telegiornali, scatenando un ciclone sulla famiglia Phoenix e su Joaquin in particolare, il quale decide di prendere una pausa dal mondo dello spettacolo. La morte del fratello – che oltre a essere un attore era anche musicista, e quella notte c’erano Flea e John Frusciante dei Red Hot Chili Peppers con lui – segna in modo inevitabile uno spartiacque rispetto a un mestiere e a un mondo che ruotano attorno a questo perenne alternarsi di privilegi e disfatte, una dicotomia che nel caso di Joaquin Phoenix si concretizza nell’alcolismo e nella riabilitazione.
L’effetto di questo squilibrio però sembra generare anche una capacità innegabile di dare vita a personaggi che trasudano tutta l’intensità di una sofferenza e di un vissuto personale fuori da una narrazione che non sembri scritta per intrattenere chi la legge. Tanto che, ad esempio, dopo aver girato uno dei film migliori della sua carriera, Walk the line, entra in modo così viscerale nella parte di Johnny Cash da dover poi farsi curare per tornare a uno stato normale di salute sia mentale che fisica. Come se non bastasse poi, oltre agli aspetti più drammatici di questa biografia, si aggiungono anche strani aneddoti surreali come quella volta in cui si ribalta con la macchina e il regista Werner Herzog lo salva dalla morte passando di lì per caso come una sorta di angelo custode e impedendogli di accendersi una sigaretta con la benzina versata attorno. Questa imponente stravaganza biografica finisce per concretizzarsi in una serie di parti che, anche grazie alla sua scelta e possibilità di recitare solo in film di alto livello, si sono rivelate spesso interpretazioni memorabili.
Dopo Il Gladiatore, infatti, Phoenix recita in alcuni film che gli danno la possibilità di esprimere tutto il suo potenziale espressivo – come The Village – fino a toccare un apice di qualità nella sua interpretazione di Johnny Cash in Walk the Line, il film del 2005 in cui non solo recita ma canta anche e che, come detto prima, gli è costato una rehab a causa della sua profonda immedesimazione con la vita del cantautore. Ma oltre ai ruoli che si sono succeduti a questo, tutti degni di nota, l’aspetto veramente interessante della sua carriera e del suo modo di vivere questo mestiere arriva con il mockumentary del 2010 in cui annuncia di voler abbandonare la recitazione per diventare un rapper. Phoenix con I’m Still Here dà vita a un esperimento che mette in discussione e ribalta il concetto stesso di star di Hollywood, destrutturando l’idea di icona pop e di tutto ciò che riguarda la vita di persone alle quali è concessa ogni stravaganza, ogni capriccio, che determinano di fatto un distacco dalla “normalità” della realtà. E così, rimanendo nel personaggio per tutta la durata delle riprese e coprendosi di ridicolo in più occasioni – è famosa l’intervista disastrosa con David Letterman – viene fuori il prodotto di una gigantesca presa per il culo di un sistema regolato da leggi assurde come quello dell’industria cinematografica, cosa che trasuda tutta la conflittualità del rapporto tra Phoenix e questo mondo di cui fa parte.
Ma l’esperimento di I’m Still Here non determina davvero la sua scomparsa dalle scene, e infatti prende parte ad altri film, in particolare due: The Master, di Paul Thomas Anderson, e Her di Spike Jonze. Nel primo si trasforma fisicamente per interpretare un veterano della seconda guerra mondiale che si divide tra alcolismo, dipendenza dal sesso e l’intenzione di riuscire a ritrovare uno spazio nella società dopo aver vissuto un evento catastrofico come il conflitto mondiale finendo in una sorta di setta; nel secondo invece diventa il protagonista di un ipotetico futuro non troppo lontano in cui esiste un sistema operativo tanto sofisticato da farlo innamorare di lei, la voce di una sorta di Alexa doppiata da Scarlett Johansson, in una strana e inquietantemente realistica supposizione di realtà in cui tecnologia e sentimenti si mescolano fin troppo.
Poi ci sono Inherent Vice, Irrational Man, Mary Magdalene, You were never really here: tutti titoli a cui prende parte Phoenix negli ultimi cinque anni, e tutti film che vale la pena guardare anche solo per la sua presenza – come nel caso di Irrational Man, anche se Woody Allen non dà proprio il massimo di sé. Nel 2019, infine, è arrivato il ruolo che forse potrebbe finalmente procurargli un Oscar, sebbene questo premio non sia altro che una formalità visto che ci sono attori e attrici incredibilmente bravi che non lo hanno ottenuto mai: il suo Joker, infatti, è forse il personaggi che di più ha dato spazio alla sua potenzialità espressività, fino a diventare un’immagine destinata a rimanere un cult di questi anni. Personalmente, non ho apprezzato in modo particolare il film di Todd Philips, ma mi sono goduta ogni sguardo e ogni parola detta da Phoenix in una performance veramente incredibile.
Che si tratti di Commodo o di Joker, l’elemento che forse caratterizza di più la carriera di questo attore con una storia così assurda è quel senso di empatia che suscita ogni sua interpretazione. Sia che si tratti di un cattivo che di un cantautore alcolizzato, ogni volta che vedo Phoenix – e penso di non essere l’unica a provare questa sensazione – mi sento vicina a lui, cosa che mi sembra fondamentale per giudicare la bravura di un attore. In Joker, per esempio, un fondo di tenerezza accompagna tutte le fasi della crescita di questo personaggio che lo portano a diventare un cattivo per eccellenza, e ciò fa sì che resti sempre sostanzialmente umano. Anche in The Master, sebbene l’immagine sia quella decadente e tragica di un personaggio devastato e profondamente corrotto, rimane visibile un fondo di sentimento che non ti distacca mai realmente da ciò che stai vedendo. Phoenix ti tiene attaccato anche al peggiore dei cattivi dei fumetti o all’imperatore sanguinario, perché rendendo la loro follia perversa ti comunica sempre un sottotesto di verità, ossia che sono comunque esseri umani. Non so se è così per via della sua storia, o solo perché è incredibilmente bravo nel suo lavoro, o forse per via del suo aspetto e del modo in cui riesce a padroneggiare la sua espressività. Non so nemmeno se è tutto frutto di una finzione totale o se invece è il prodotto di un mix tra verità e simulazione, ma sta di fatto che ci sono davvero pochi attori in grado di stimolare un’empatia tanto forte prendendo parte a storie distanti anni luce dalla mia realtà. Oscar o meno, film riusciti o no, Joaquin Phoenix rimane un artista che ti dà ancora l’impressione si possa fare arte al di là della gigantesca macchina del profitto che è l’industria cinematografica americana. E non è una cosa così comune.