Nata per National Geographic sotto l’egida di Disney+, Il mondo secondo Jeff Goldblum (The World According to Jeff Goldblum) racconta un mondo fatto di sneakers, jeans, camper, biciclette, gioielli e altri prodotti di consumo celebrati tra brevi contestualizzazioni storiche e parate di consumatori entusiasti: in ogni puntata “The Goldblum” si muove tra produttori e compratori, tra aziende e pubblico, mostrando le ultime tendenze legate a quella che è – a tutti gli effetti – nient’altro che la società dei consumi americana. Grafiche accattivanti, musiche sempre ben scelte e la coolness innata del personaggio tengono a galla una docuserie che nella sua chiara volontà di intrattenere si “dimentica” di informare, di inquadrare anche l’altra faccia della medaglia.
Al centro dell’attenzione è infatti non l’individuo, ma il consumatore. Tutti acquistano, tutti sorridono e sono felici, sembra la classica favola Disney, solo che dietro a questa immensa vetrina c’è un mondo reale che il programma si rifiuta anche solo di sfiorare. Un intero episodio, per esempio, è dedicato al business degli RVs, dei camper, un settore in netto rilancio negli Stati Uniti, come dimostrano i dati: vita all’aria aperta, libertà, grandi spazi da esplorare quando si vuole, il camper sembra l’oggetto perfetto per vivere il sogno americano – di più, il camper è l’oggetto dei sogni per i giovani. Quindi c’è chi decora i camper e cerca di riscattarli da quell’estetica stantia che li ha sempre contraddistinti, ci sono lavoratori millennial stabilmente parcheggiati in un trailer park di Hollywood, c’è addirittura un’intera famiglia di sei elementi che sta attraversando il continente su quattro ruote. A mostrarsi è solo la faccia sorridente e patinata del “campeggiatore”, oltre non si va.
Eppure basta spegnere il motore e fare quattro passi tra i giovani precari americani per capire che in moltissimi casi gli smart workers sempre pronti a cambiare lavoro e spostarsi si sono più semplicemente adattati a un sistema che non lascia altra scelta. Se negli Stati Uniti il prezzo medio di una casa di proprietà adatta a una piccola famiglia si aggira sui 270mila dollari, una casa prefabbricata ne costa circa 70mila, ovvero due anni di stipendio medio. Un camper di fascia moderata si attesta invece tra i 20mila e i 40mila dollari, senza contare la possibilità di acquistare l’usato o affittare. Insomma, non c’è davvero paragone, e una società basata sulle fluttuazioni dei consumi non fa altro che alimentare ulteriormente la precarietà di quei Millennial che si vedono costretti a rivedere le proprie scelte abitative.
Il focus della serie sembra restare però sempre centrato su una certa idea fiabesca di sogno americano, quell’insieme di grandi speranze che dalla Corsa all’oro del Klondike fino alle meraviglie tecnologiche della Silicon Valley si è rivelato più materia per Hollywood, per la fabbrica dei sogni, che per il mondo di tutti i giorni. Sulle ali dell’entusiasmo ingenuo di Jeff Goldblum si passa da un prodotto all’altro senza un reale contraltare critico, puntando tutto su un puro intrattenimento disincantato che potrebbe quasi funzionare, se non fosse che il formato seriale affastella uno sopra all’altro episodi che in fondo girano sempre attorno al medesimo tema, senza espanderne i confini, nascondendone i risvolti e risultando in un’esposizione continua di beni d’acquisto ben presentati, ma senz’anima.
Parlando sempre di american dream, per esempio, l’episodio sui jeans segue le orme di un collezionista/venditore di denim d’epoca che esplora vecchie miniere e recupera gli abiti gettati proprio da chi rischiava la vita inseguendo il sogno della ricchezza nelle buie miniere del west. Jeans che a inizio Novecento costavano 1 dollaro e 25 centesimi possono oggi essere venduti anche a 100mila, e qui il cortocircuito si completa, perché tutto può diventare prodotto quantificabile economicamente, pure il vestiario di chi cercava fortuna partendo con due soldi.
Proprio la continua esposizione di prezzi e l’attenzione ai numeri crescono puntata dopo puntata risultando sempre più ripetitivi, tanto che alla fine del viaggio in dodici episodi ci si chiede cosa sia il mondo immaginato da Disney. Traspare il messaggio che per la Casa di Topolino gli individui siano consumatori, che il mondo sia un mercato e che gli oggetti siano il tramite per raggiungere la felicità. Ma i problemi non finiscono qui, se è vero che la serie si prefissa di esplorare il mondo, è vero anche che quel mondo non esce dai confini degli Stati Uniti: in questo Disney si allinea a quella narrazione tipica dell’intrattenimento americano che pone il suo centro nevralgico proprio negli States. È da questa tendenza che si è sviluppato un filone mai esaurito di disaster movie o film su invasioni aliene che hanno sempre come obiettivo primario gli USA, da La guerra dei mondi a The Day After Tomorrow, da Independence Day a 2012. Una visione che nel suo gigantismo è ristretta come ristretti possono essere i caffè del nono episodio, che in parte si concentra sull’esaltazione di David Schomer, guru americano del caffè che ha introdotto sul mercato idee mutuate dalla tradizione italiana costruendoci un business milionario.
Forse per mancanza di budget, forse per mancanza di occhio critico, Il mondo secondo Jeff Goldblum è come quello di The Truman Show, a un certo punto si ferma ed è impossibile andare avanti, scoprire davvero la provenienza degli oggetti che riempiono le nostre case e le nostre ore. Nel Paese del caffè lungo, tutto riconduce all’America, anche l’arte italiana di decorare i caffè, e non c’è spazio per trattare problemi evidenti come le difficili condizioni in cui versano tantissimi lavoratori delle piantagioni. Nonostante la serie riesca a creare spesso momenti realmente istruttivi o quantomeno curiosi sul versante storico o addirittura scientifico, come per le scene girate alla piscina di addestramento della NASA, il legame individuo-prodotto è sempre troppo marcato, e richiama alla mente una certa idea di società che sembra arrivare dritta dalle riflessioni del filosofo Theodor Adorno sulla società dei consumi, che gratifica l’individuo attribuendogli il possesso di beni, se non fosse che – beffa finale – il potere di acquisto dei nostri tempi non è quello degli anni Sessanta. Ed ecco che la narrazione Disney si rivela non solo bifronte, ma anche antiquata, in certo modo ancora più frustrante per la sua miopia verso le reali condizioni economiche e sociali attuali.
La docuserie per il resto si distingue per un impianto visivo ampiamente sopra la media dei prodotti simili, riesce anche a creare momenti rilevanti e – pensando al nuoto sincronizzato per anziani pieni di acciacchi – piacevolmente genuini, soprattutto grazie al presentatore, vera àncora di salvezza di tutto lo show, catapultato a presentare un mondo che episodio dopo episodio appare tutto meno che suo. Goldblum parla di tatuaggi, ma non se n’è mai fatto uno e non ne vuole fare, parla di camper ma non è mai stato in campeggio, si entusiasma per la storia del caffè, ma non ne beve uno da sei anni e non ne ha mai neanche apprezzato il sapore. Potrei continuare per parecchie righe con gli esempi, ma queste bastano per rendere l’idea di un progetto che, come spesso è accaduto negli ultimi anni, ha visto Disney provare a conciliare più linee di pensiero andando a confezionare un prodotto televisivo estremamente ibrido, insicuro delle proprie idee e indeciso sui propri obiettivi. L’idea migliore in effetti è stata quella di accaparrarsi i servigi di “The Goldblum”, di per sé un marchio vivente che rende oro tutto ciò che tocca a suon di riflessioni disincantate, savoir-faire e quel carisma che l’ha reso uno degli attori più ben voluti di tutto il cinema americano.
Scegliendo di raccontare un mondo patinato e senza occhio critico sulla società statunitense, Disney perde l’occasione per mostrare un volto umano, che sembra ormai perduto dietro a decenni di marketing, vendite e acquisizioni miliardarie. La narrazione fiabesca esalta il mito del sogno americano, scegliendo di mostrare chi acquista prodotti e partecipa alla celebrazione collettiva del possesso, omettendo però di approfondire davvero ciò che si cela dietro questo sistema economico e di pensiero. Così il messaggio finale pone l’apparire prima dell’essere, sia per la docuserie in sé, che vorrebbe documentare ma nel farlo risulta parziale e si perde dietro a un impianto inadatto al vero approfondimento, sia per i mondi che racconta, potenzialmente degni di essere raccontati ma con toni ora più leggeri ora meno, perché il rischio è di finire la serie e ritrovarsi come il protagonista di Essi vivono, che finalmente può liberarsi dalla patina dietro cui si cela un mondo di individui definiti dal possedere anziché dall’essere.
Forse l’errore è stato snaturare un format tipicamente National Geographic, incrociandolo con le esigenze di una nuova piattaforma che deve puntare sui grandi nomi, soddisfacendo i gusti di un pubblico variegato. Sarebbe bastato scegliere una strada e mantenerla, senza segmentare eccessivamente gli episodi perdendo forse non la volontà, ma quantomeno lo spazio necessario ad approfondire, laddove si sperava che un colosso così influente potesse affrancarsi da una definizione dell’identità individuale basata sull’associazione a beni di consumo. Perché, se è vero l’assunto adorniano per cui l’umano è nell’imitazione, allora all’umano bisogna dare esempi ben soppesati, con la consapevolezza che l’intrattenimento può essere un mezzo per una migliore comprensione della realtà e per la crescita interiore. È lontana l’epoca in cui non si conoscevano i reali effetti dei media di massa, oggi la sfida è definire da che parte si sta.