Jean-Luc Godard è il regista che, insieme agli altri componenti della Nouvelle vague – il movimento che caratterizzò la cinematografia francese sul finire degli anni Cinquanta – ha iniziato una delle rivoluzioni iconografiche più importanti del Novecento e ha cambiato per sempre non solo il modo di fare film e raccontare storie, ma anche il modo di fruirle. In un lasso di tempo relativamente breve, tra il 1960 e il 1967, Godard girò 15 pellicole attraverso cui operò una vera e propria rivoluzione, cambiando i codici stessi del linguaggio cinematografico: un’eredità dalla quale i grandi film d’autore non possono prescindere. Un esempio sono le connessioni stilistiche tra i film di Godard e quelli di Wes Anderson, di Quentin Tarantino o di Xavier Dolan, solo per citarne alcuni.
Pochi artisti viventi possono considerarsi pionieri della cosiddetta settima arte e Jean-Luc Godard è senza dubbio uno di questi. Come disse il collega italiano Bernardo Bertolucci nel 1988, presentando al pubblico del canale inglese BBC2 Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle), il primo lungometraggio del regista francese uscito nelle sale nel 1960, “Nel cinema esiste un pre Godard e un post Godard“. À bout de souffle è la linea di demarcazione tra queste due epoche della storia del cinema, fu una vera e propria rivoluzione di stile, un coraggioso manifesto artistico siglato dalle generazioni successive di cineasti. Il soggetto fu scritto da François Truffaut e si basa su un fatto di cronaca realmente accaduto: dopo un’estate di eccessi in Costa Azzurra insieme alla bella fidanzata americana, un giovane uccide un poliziotto per raggiungere più velocemente possibile la madre morente, ma il ragazzo viene denunciato dalla fidanzata alle autorità.
Truffaut aggiunse alla storia le atmosfere noir dei b-movies americani che a lui e al suo amico Godard tanto piacevano, come testimonia inoltre all’inizio del film la dedica alla casa di produzione statunitense Monogram, specializzata in film d’azione. I due amici iniziarono le riprese, ma il set divenne ben presto teatro di contrasti tra Godard e il produttore Georges de Beauregard, a causa dei suoi metodi di lavoro poco ortodossi, che mal si conciliavano con le esigenze economiche della produzione: il primo giorno, infatti, si girò solo per due ore. Gli attori principali, all’epoca semisconosciuti, erano Jean Paul Belmondo e Jean Seberg. Entrambi, grazie a quella pellicola low budget e a un eclettico e giovane regista parigino, diventarono di lì a poco vere e proprie icone del cinema internazionale. Belmondo interpretava Michel Poiccart, un giovane affascinante che imita le movenze di Humphrey Bogart e vive di espedienti e piccoli furti; Seberg era invece Patricia Franchini, una graziosa studentessa americana che sognava di diventare giornalista e conquistare così la sua indipendenza dagli uomini.
Con questa pellicola, Godard vince una scommessa generazionale: come scriveva in veste di critico cinematografico dalle colonne dei Cahiers du cinéma il fine era quello di trasgredire alle regole del “cinéma de papa”, come Jean-Luc Godard, François Truffaut, Éric Rohmer e i loro colleghi erano soliti appellare con tono dispregiativo il modo tradizionale di fare cinema: un mezzo per intrattenere, e non per fare arte. Il giovane Godard in sole quattro settimane, con un budget limitato, il ricorso all’utilizzo della cinepresa a mano e senza neanche tutti i permessi necessari per girare in esterna, diede alla luce una pellicola che mutò la sintassi del cinema moderno. “Godard cambiò tutte le regole”, racconta Bertolucci, “il suo linguaggio era oltraggioso, veloce, leggero. […] Ci disse che esistevano altri modi di raccontare una storia”.
À bout de souffle e le pellicole successive del regista parigino furono caratterizzate da un montaggio estremamente complesso, in contrasto con la naturalezza dell’ambientazione. Il racconto è talvolta frenetico e porta avanti un gioco, ricercato e studiato tra realismo e teatralità. Godard usò solo la luce naturale, non aveva un copione e la colonna sonora aveva tagli improvvisi. Nei film di Godard si può “sentire l’immagine e guardare il suono”, come disse lui stesso in una lunga intervista del 1980.
Godard voleva stimolare l’attenzione degli spettatori e per farlo decostruì la narrazione: il passaggio da generi diversi, l’alternarsi del colore e del bianco e nero, il mix tra cultura considerata alta e bassa senza distinzioni – in À bout de souffle, ad esempio, ci sono riferimenti ai polizieschi americani e al tempo stesso a Mozart e a Lenin. Godard mise in scena l’impensabile: ruppe la quarta parete, il muro immaginario che divide la platea dalla scena, dando la possibilità agli attori di guardare in camera per cercare lo sguardo degli spettatori. D’altronde, come disse Anna Karina, musa e moglie del regista francese, mancata nel 2019: “Nei film di Godard bisognava più essere che interpretare”.
Godard non ebbe paura di dichiarare la finzione cinematografica e così il cinema si emancipò dalla convenzione che voleva il pubblico come uno spettatore passivo di una storia a lui estranea rendendolo protagonista, imponendogli una presa di posizione, un pensiero. “Il pubblico ha la responsabilità di ciò che viene proiettato nelle sale […] io per primo mi sento responsabile di quello che vedo”, sono queste le parole di Godard. Il cineasta ha infatti sempre rivendicato una libertà stilistica che, non solo le case di produzione, ma anche il pubblico, troppo spesso non hanno voluto e non vogliono tuttora concedere al linguaggio cinematografico. Gli attori scelti da Godard erano parte di questo progetto rivoluzionario: alcuni erano professionisti, altri furono presi dalla strada, l’importante era rendere la sceneggiatura un oggetto in continua evoluzione. Le donne furono il perno su cui ruotava la sua poetica: amate, odiate, compatite, il regista costruì le figure femminili delle sue storie. “Mi identifico più con i personaggi femminili che con quelli maschili, sin dal mio primo film”, rivelò nell’intervista a Dick Cavett. ”Le donne sono più spontanee rispetto agli uomini al giorno d’oggi […] hanno idee migliori”. Chissà se ancora oggi direbbe lo stesso.
Tra i meriti del cinema di Jean Luc Godard c’è quello di aver rappresentato la complessa realtà delle donne agli inizi degli anni Sessanta. Tramite pellicole come La donna è donna (Une femme est une femme), Questa è la mia vita (Vivre sa vie) o Due o tre cose che so di lei (2 ou 3 choses que je sais d’elle), il regista parigino ha mostrato sul grande schermo una nuova figura femminile, intenta a contrastare i retaggi della società patriarcale che avevano invece ingabbiato la generazione precedente.
La critica divide la produzione artistica di Jean Luc Godard in tre periodi: il primo è quello che va dal 1960 al 1967, caratterizzato dalla nascita del un nuovo linguaggio narrativo che diede vita alla Nouvelle vague, di cui À bout de souffle è il manifesto. Il secondo periodo, dal 1968 al 1972, è invece contrassegnato dalla lotta politica e dalla contestazione, a cui Godard partecipò attivamente aderendo all’ideologia marxista. Nel 1969 il regista fondò con altri colleghi il gruppo Dziga vertov, la cui filosofia era il rifiuto del ruolo gerarchico del regista, che veniva considerato retaggio di una visione autoritaria e reazionaria: decisero così di dare vita a un cinema che fosse reale espressione di un lavoro collettivo e non emanazione della volontà del singolo. Tra le pellicole di quel periodo, molto criticate dal punto di vista stilistico, si annovera il film commissionato dalla Rai ma poi rifiutato, Lotte in Italia, centrato sulle riflessioni politiche e private di una giovane militante. Il terzo periodo della produzione artistica di Godard, inizia poi nel 1975 ed è tutt’ora in corso: in questa ultima fase della sua produzione il regista si è concentrato sul privato e sui rapporti familiari, senza abbandonare mai la ricerca stilistica che ha caratterizzato la sua poetica, ne è un esempio emblematico Addio al linguaggio, che racconta la storia di una coppia in crisi e del loro cane.
L’attuale evoluzione tecnologica ha indebolito le capacità del pubblico in quanto spettatore attivo. Godard è un antidoto ancora efficace a questo torpore. In una delle scene più famose di À bout de souffle, la giovane Patricia chiede allo scrittore Parvulesco quale sia la più grande ambizione della sua vita e lui risponde: “Diventare immortale e poi morire”. Ciò che non potrà mai estinguersi però è l’eternità conquistata attraverso l’arte, un traguardo che il regista parigino ha senz’altro raggiunto.