“L’isola di ferro”, così i riminesi negli anni Sessanta chiamavano sorseggiando Cynar la piattaforma da quattrocento metri quadrati che si vedeva dai chioschi della spiaggia. Un’opera d’architettura assai singolare: pianta quadrata, immobile in mezzo alle acque dell’Adriatico, di proporzioni simili a quelle della famosa Villa Savoye, progettata qualche decennio prima da Le Corbusier. Venti metri di lato, ferro e cemento, retta da un telaio di tubi in acciaio. Dai primi sopralluoghi, risalenti al 1958, all’inaugurazione ufficiale di quel progetto passano dieci anni: nel frattempo prende forma un’utopia al largo della costa romagnola, che si dota di una bandiera – arancione, con un mazzo stilizzato di tre rose rosse sullo scudo sannitico, un po’ per amor di autoreferenzialità, un po’ per il sogno di “veder fiorire le rose sul mare” – e sceglie il “Coro dei marinai norvegesi” de L’olandese volante di Wagner come inno. È così che Giorgio Rosa, giovane ingegnere bolognese nato nel 1925, insieme alla moglie Gabriella Chierici – a cui affiderà la presidenza della SPIC (Società Sperimentale per Iniezioni di Cemento), l’impresa nata per i lavori di realizzazione della piattaforma – dà vita alla sua nazione indipendente.
L’idea di uno stato-nazione su una piattaforma in acque di dubbia giurisdizione sembra un’idea narrativa, eppure il “sognatore-pratico” – come lui amava definirsi – che la genera riesce a trasformarla in realtà, dando vita alla “Repubblica durata cinquantacinque giorni”. A muovere Rosa inizialmente sono le possibilità commerciali dell’impresa, che sembrano poter ripagare l’investimento: in Romagna sta sbocciando il turismo e un ritorno potrebbe esser garantito dalla vendita di benzina libera dalle accise italiane e dalla produzione di prodotti per collezionisti, come le famose, esclusive, emissioni filateliche – a dispetto di quanto si sarebbe vociferato in futuro, non verranno però realizzati né un casinò, né una “radio pirata”
La piattaforma artificiale viene costruita in un cantiere a Pesaro con una spesa di oltre 30 milioni di lire, e il progetto viene subito brevettato. I lavori di costruzione inevitabilmente attirano l’attenzione delle istituzioni locali: nel 1966 la Capitaneria di porto intima a Rosa di fermarli. Tra i motivi c’è probabilmente anche in fatto che nel frattempo diverse aree nella zona sono state date in concessione all’Eni per installare piattaforme petrolifere. Rosa riesce a proseguire i lavori nonostante le richieste della Capitaneria, rispondendo loro di non dover rispettare alcuna regola o imposizione, dal momento che la piattaforma si trova fuori della giurisdizione italiana. Un limbo legale. L’estate successiva apre finalmente la sua “isola” ai visitatori, anche se non la considera ancora finita e vorrebbe migliorarla e ampliarla: presto diventa una grande attrazione, come i sei uomini a bordo “Medici, commercialisti, gente normale”, per usare le parole dell’ingegnere, avevano previsto.
Il primo maggio del 1968 la piattaforma dichiara la sua unilaterale indipendenza assumendo il nome di Esperanta Respubliko de la Insulo de la Rozoj (Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose). Rosa si autoproclama Presidente, crea un suo gabinetto di governo e stabilisce come lingua ufficiale l’esperanto (“colui che spera”), l’idioma teorizzato dal medico e linguista polacco Ludwik Lejzer Zamenhof. Manda poi un messaggio alle autorità italiane: la Repubblica è situata in acque internazionali, fuori dalla loro giurisdizione, dati i poco più di 500 metri oltre le 6 miglia nautiche (poco più di 11 km) che all’epoca costituivano il limite delle acque territoriali. Rosa dichiara di voler dotare la neo-nazione di tutti i servizi essenziali: un ristorante, un bar, alloggi per eventuali turisti e ospiti e persino un ufficio postale. Dopo poco tempo l’Isola delle Rose inizia a stampare i propri francobolli. La nuova nazione, dichiara anche l’intenzione di battere una propria moneta: il Mill, cambio con la Lira 1:1. Da quel momento in poi lo Stato si mobilita per far rientrare questo inaspettato problema. Il 25 giugno del 1968, le forze dell’ordine occupano militarmente l’Isola e ne ordinano lo smantellamento. Rosa tenta le vie legali, cerca di dimostrare l’assenza di violazione di leggi italiane, ma serve a poco, la storia materiale dell’isola finisce l’11 febbraio del 1969, sotto 75 chili di dinamite.
Sulla vicenda, oltre al risalto che ne diedero all’epoca per ovvie ragioni i giornali locali e internazionali, sono stati scritti diversi libri (uno anche a firma di Walter Veltroni) e da ieri è disponibile su Netflix un film di Sydney Sibilia con Elio Germano nei panni dell’ingegner Rosa (in cui proprio Veltroni ha fatto da consulente). L’opera ricostruisce la mitica impresa del 1968 da un punto di vista caloroso, con dettagli di vita quotidiana, come ad esempio nella gioia della spaghettata del pranzo d’indipendenza che l’ingegnere tiene con gli amici con cui condivide l’impresa, a detta di Rosa uno dei momenti più belli della sua vita. Il portato emotivo veicolato a livello mainstream da questa narrazione aiuta a comprendere una vicenda complessa e composita, ma che in fondo riguarda una sola cosa fondamentale: la libertà.
Forse è per questo motivo che ha attirato così tanto l’interesse di alcuni politici. Veltroni nel 2013 rileggeva quella storia intravedendoci il vissuto di un gruppo di ventenni che sognava di costruire “una piattaforma […] dove accogliere una comunità di artisti, poeti, musicisti, amanti della bellezza”, una sorta di regno nato dalla cultura sessantottina e dai figli dei fiori; e Massimo D’Alema, recensendo quello stesso libro sull’Unità, parlava di un racconto che aveva il sapore della nostalgia e riportava lui e quelli della sua generazione a un tempo cruciale della loro vita personale oltre che della storia collettiva.
Come racconta bene il giornalista Giuseppe Musilli nel suo libro a riguardo, la vera vicenda dell’Isola delle Rose sembra avere poco a che vedere sia col romanzo di Veltroni che con il Sessantotto: quello di Giorgio Rosa sembra essere stato più un esperimento mosso da pulsioni anarchico-commerciali. Anche nel film, il regista Sydney Sibilia decide di dare al protagonista un’età più acerba, dipingendolo come un ragazzo fresco di laurea e ancora precario, un giovane di poche esperienze e di mille speranze che parla per ideali, più che un uomo mosso da logiche imprenditoriali. Rosa non voleva infatti né stare coi russi, né con gli americani, voleva “levarse dai bal”. Il suo era un tentativo di secessione spazio-temporale dall’atmosfera asfittica della Prima Repubblica e da tutti gli ismi che popolavano quell’epoca. Nelle sue ultime interviste, Rosa infatti non parla mai di un indirizzo ideologico per la sua Repubblica, non si definisce un rivoluzionario e anzi dichiara di non essersi mai veramente interessato alla politica.
Più che perdersi nei meandri delle letture parziali è interessante cogliere gli aspetti metaforici della vicenda dell’Isola di ferro. Ancora oggi c’è chi la vede come un esperimento rivoluzionario, ammantato di utopia esperantista; chi dice che era, sotto mentite spoglie, pura e semplice evasione fiscale; chi solo un escamotage per la creazione di un porto franco delle perdizioni e dei vizi e sussurra persino di avervi visto passando in motoscafo una landa di perdizione costellata di cose pericolosissime quali gioco d’azzardo, alcol e donne in topless; ma c’è anche chi guardandola ci vede la libertà; chi ci vede la realizzazione di un progetto comunque rivoluzionario (fosse l’ideale primigenio o sussidiario poco importa), l’idea di una comunità alternativa che tenta di vivere al servizio di un’idea e di una causa.
E questo non è un discorso da ultimi romantici. In fondo ciascuno di noi in quella stessa libertà, in quella proclamata indipendenza, in quell’autoaffermazione ci vede quel che ci vuole vedere: chi sogna la libertà dalle tasse vede un paradiso fiscale; chi sogna una morale più elastica ci vede una Las Vegas sulle onde; chi sogna l’uguaglianza sociale l’esperimento mancato da Tommaso Campanella; e chi grigio, ligio a regole e alla disciplina dei pericolosi sovversivi. È proprio questa la forza dei simboli, e l’Isola delle Rose lo è diventata.