Quando qualche anno fa, durante un’edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ho intervistato Hirokazu Kore-eda, ho conosciuto una persona estremamente consapevole. E consapevole, in questo caso, significa attento e aperto al dialogo, pronto a farsi avanti, a parlare, a offrire al proprio interlocutore spunti diversi senza mai nascondersi dietro le differenze culturali o ideologiche. Kore-eda ama il cinema e lo ama come si ama la vita stessa: in modo profondo e spassionato. Perché gli permette di esprimersi, di trasformare in immagini e parole ciò che pensa, perché mette insieme ogni cosa: dolore, gioia, speranza e paura.
Nel suo ultimo film, Monster, in Italia ribattezzato L’innocenza, Kore-eda ritorna al Giappone come spazio narrativo e alla famiglia come esca ideale per il racconto. Divide la storia in tre parti e si affida, di volta in volta, a tre protagonisti differenti. Soprattutto, però, Kore-eda parla di infanzia e di ciò che vuol dire, quando si è poco più che bambini, crescere e trovare la propria strada. Ne L’innocenza c’è un ribaltamento continuo, scandito nel tempo, dei punti di vista. Kore-eda è sempre stato bravo a vivere il momento, a non inseguirlo o ad anticiparlo. Tutti i suoi film hanno in comune quest’idea di immanenza: sono, esistono, non vanno oltre; non cercano la mediazione del possibile o di ciò che, chi lo sa, forse, potrebbe accadere. L’innocenza s’infila tra le pieghe del presente e si ancora con forza alla fuggevolezza dei singoli istanti.
In questo senso, credo che Kore-eda sia il regista contemporaneo che più di tutti incarna le potenzialità e l’universalità del cinema giapponese. C’è una parte importante del realismo di Ozu, ma c’è pure una visione diversa, più personale, che prova a concentrarsi sui piccoli dettagli e sulle dinamiche che uniscono, o separano, i vari personaggi. L’innocenza, come dicevo, rappresenta il suo ritorno in Giappone dopo Le verità e Broker. I protagonisti sono due bambini che si incontrano a scuola, che vanno nella stessa classe e che quasi all’improvviso si riscoprono vicini e simili. Il loro affetto risplende puro e incontaminato, e proprio per questo finisce per essere sottovalutato e mortificato dagli adulti. Che tendono a dividere il mondo in modo più netto, meno mediato, più sicuro. E la loro non è sicurezza, attenzione; ma solo il tentativo di riprendere il controllo di qualcosa che non hanno mai davvero controllato.
A suo modo, Kore-eda rappresenta il motivo per cui, in questi anni, i film giapponesi o ambientati in Giappone come Perfect Days di Wim Wenders hanno avuto così tanto successo. Perché colgono pienamente lo spessore e la complessità della vita. E non si lanciano in giudizi sommari o totalizzanti. Sono brutalmente sinceri e, allo stesso tempo, sono forti di una delicatezza palpabile e concreta. È un peccato che L’innocenza arrivi solamente adesso, dopo più di un anno dalla sua première al Festival di Cannes, nelle sale italiane. Poteva seguire il successo di altri titoli che sono usciti all’inizio dell’anno e che hanno ribadito, ancora una volta, la centralità del cinema orientale.
Il ruolo che le relazioni giocano all’interno di questi racconti, e in particolare de L’innocenza, è fondamentale. Se pensiamo, per esempio, al rapporto che viene mostrato all’inizio del film, con una madre (interpretata dalla bravissima Sakura Andō) che prova a seguire e a crescere suo figlio (interpretato da Soya Kurokawa), è facile riconoscere la stanchezza e la soddisfazione che determinati momenti – piccoli, piccolissimi; decisamente fuggevoli – portano con sé. La struttura del film è quasi concentrica e da un cerchio si passa rapidamente a quello successivo, dove il racconto si amplia e finisce per comprendere anche altre prospettive, come quella dell’insegnante della scuola del protagonista (interpretato da Eita Nagayama). In un primo istante sembra che il tema sia il bullismo di cui i bambini sono vittime o addirittura i maltrattamenti di un maestro. Ma si scopre velocemente che non è così: che gli abusi arrivano da tante parti differenti e che c’è una complessità di fondo che rischia di sfuggire. Ed è esattamente questo, alla fine, il punto. Tenere insieme tutto, senza tralasciare elementi o passaggi che a una prima occhiata possono sembrare superflui o addirittura completamente inutili.
Kore-eda ci vuole parlare della crescita personale, intima, di due bambini. E lo fa senza insistere, senza puntare il dito, lasciando che le cose, nella loro verità, vengano avanti da sole. Non c’è nessuna voglia di porre delle etichette, proprio come non c’è nessuna voglia di limitare, o di contenere, il problema dei pregiudizi e del conservatorismo più bigotto e cieco. È qualcosa, ci dice Kore-eda, che vive ovunque, in tutte le persone, anche in quelle che si dicono progressiste e pronte ad accettare ciò che non capiscono o che è differente da loro. La sessualità diventa in questo modo uno dei motori propulsivi della narrazione e non solamente l’ennesimo argomento da affrontare e da spuntare.
Kore-eda non banalizza, non strumentalizza, non gioca con i sentimenti dello spettatore. Lo rispetta troppo per poterlo fare. Arriva a un punto in cui questa concentrazione di temi, di passaggi e di livelli narrativi ha bisogno di essere decostruita per tornare a essere il più elementare possibile. Interviene, allora, l’essenzialità dei gesti. I protagonisti de L’innocenza, a cominciare dai bambini, si parlano attraverso il silenzio, le occhiate e i sorrisi. Nei loro scambi, c’è una comunicazione quasi inconscia, che non ha bisogno di suoni. Ed è questo silenzio che unisce ulteriormente lo spettatore al film. Nel cinema giapponese, la teatralità – intesa non solo come insieme di interpretazioni e di elementi narrativi, ma proprio come categoria e linguaggio – è sempre stata importante. A volte, è stata portata all’estremo, rendendo il racconto respingente e oscuro per un pubblico più internazionale. Altre volte, invece, è stata sintetizzata e raccolta in modo intelligente, risparmiando volutamente quegli spunti più immediati. Kore-eda ha saputo mischiare questo aspetto al realismo appropriandosi delle lezioni di chi lo ha anticipato: Ozu a parte, va citato anche Fellini con La strada, dove la tragedia della vita viene facilmente mascherata dal sorriso di un pagliaccio. L’innocenza è quasi una scusa, alla fine: una scusa per riscoprire Kore-eda, per rivedere i suoi film e per entrare in punta di piedi in un altro universo di storie e visioni, che non cerca né la spettacolarità a tutti i costi né tantomeno battute fulminanti. Forse anche questo è uno dei motivi del rinnovato successo del cinema orientale: il rispetto profondo che ha nei confronti del pubblico.
L’innocenza è costruito su strati diversi, sull’aggiunta di voci, punti di vista, personaggi. Passa dalla dimensione contenuta di una casa – piena di oggetti, di mobili, con un altarino per i defunti – alla forza devastante della natura. E poi ha un che di mistico: il corpo è solo un contenitore, quello che vediamo e che volendo possiamo toccare; al suo interno, sotto la pelle e i capelli, incastrato tra i muscoli e le ossa, c’è molto altro. Kore-eda, questo “altro”, è in grado di renderlo percepibile. Usa tutto quello che ha a disposizione, gli attori, la scenografia, i costumi, la scrittura, e costruisce una specie di scala. Da una parte c’è lui, dall’altra il pubblico. La scala, ovviamente, è il film.
La tensione e la ricchezza del racconto vengono poi ispessite ulteriormente dalla colonna sonora composta da Ryūichi Sakamoto, che aggiunge, rilancia e in qualche modo migliora quello che Kore-eda mette in scena. Davanti a L’innocenza, tutti i sensi vengono chiamati a raccolta e coinvolti. Quando ho intervistato Kore-eda, abbiamo parlato anche di questo: del potere e del ruolo che può avere il cinema. Kore-eda non è cieco ai mutamenti dell’industria o del mondo che lo circonda. I film, come dicevo all’inizio, sono una parte importante, praticamente imprescindibile, della sua vita. E forse è anche per questo motivo che con L’innocenza riesce a entrare in contatto con chiunque – più o meno giovani, più o meno adulti. In una sala cinematografica, la delicatezza della storia può esplodere e farsi ferocissima, inebriante e avvolgente. Come Isao Takahata, mi pare che Kore-eda stia facendo un percorso al contrario: dalla sovrabbondanza narrativa a un manierismo più ricercato e attento. Quasi come se stesse tornando bambino. E alla fine, se ci pensiamo, è per questo che le storie si raccontano: per conservare, o rievocare, qualcosa che è stato perso, che forse non tornerà più, che magari non abbiamo mai avuto, su cui comunque riflettere e rimuginare. Il cinema di Kore-eda è un cinema umano: risuona profondamente in chi lo vede. E L’innocenza non ne è che l’ennesima dimostrazione.